#NUOVAMUSICA: Phil Grandini, Gioco d’azzardo

Gioco D'Azzardo Cover_Ph. Paolo Bertazza“I sentimenti sono la parte più nuda e indifesa che abbiamo e metterli in mano ad un altro essere umano con i suoi difetti e i suoi pregi, può essere la cosa più pericolosa e allo stesso tempo più bella che esiste. Ho scritto questa canzone di getto, come del resto tutte le mie canzoni. Comporre per me significa trovare le risposte che cerco quando sono in difficoltà”.

Gioco d’azzardo è il primo singolo dell’omonimo album di Phil Grandini, il secondo della sua carriera dopo Finte verità, uscito nel 2013.

Moreno torna (di moda) con Slogan

“Il mio terzo album è il frutto di una crescita artistica che ha il sapore di maturità. Per me rappresenta un traguardo importante: con passione mi sono impegnato a trovare slogan per far si che anche tu che mi conosci o che non mi conosci nemmeno, ti puoi rispecchiare nella storia di Moreno.”
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Così Moreno presenta il suo terzo album, Slogan, in arrivo il prossimo 2 settembre dopo essere stato anticipato dal singolo Un giorno di festa.
12 nuove canzoni “per ritornare di moda”, recita la dicitura in copertina, lasciando leggere tra le righe forse la voglia di tornare in gran forma dopo i risultati non proprio esaltanti dell’ultimo album. A produrre il tutto è nientepopoimenoche Big Fish, e questo potrebbe essere davvero il gran colpo.

Ancora qualche settimana e ne sapremo di più….

Movement Croatia: dal 28 luglio al 1 agosto il meglio dell’elettronica suona a Tisno

Cinque giorni di grande musica elettronica in una location da sogno: impossibile?? NO!
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E’ Movement Croatia Summer Festival 2016: dal 28 luglio al 1 agosto Tisno, in Crozia, ospiterà uno dei più grandi festival di musica in Europa.
A promuovere l’evento è Movement Europe, già alla guida di Movement Torino Music Festival e Kappa FuturFestival presentano, in collaborazione con The Garden Resort. 
Per la prima volta il festival si svolgerà in un nuovo formato diurno e notturno, dopo la club edition della scorsa stagione.

Nelle cinque giornate dell’evento si alternerà il meglio della scena internazionale, con nomi come Sven Väth, Nina Kraviz, Ben Klock, Dave Clarke, Derrick May, Marcel Dettmann, Solomun, David Morales.
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Movement Croatia si dividerà in due location principali:

The Garden Resort sarà la sede degli eventi diurni. Locato in una fantastica cornice naturale, immersa nel verde, con baia privata e un incredibile bar sulla spiaggia, così vicino al mare che sembrerà di ballarci dentro : 3 palchi e 2 boat party giornalieri. Il palco principale si trova poco più indietro in una location immersa nella natura, intima ed emozionante. Accanto all’ombra degli alberi l’Olive Grove stage.

Barbarella’s Discotheque ospiterà invece gli after party notturni: una delle più belle discoteche della Croazia, totalmente all’aperto e recentemente menzionata da DJ MAG al 39esimo posto nella classifica dei migliori club al mondo.
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I biglietti e i pacchetti ticket+hotel sono disponibili sul sito www.movement.hr.

#NUOVAMUSICA: Luana, Scripta manent

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Dopo MTCPM, Luana esce con un nuovo singolo, e ancora una volta lo rende disponibile in free download sul sito luanacorino.it

Il nuovo brano si intitola Scripta manent ed è un’autentica immersione in sonorità hip hop che strizzano l’occhio all’America.

A fare il resto ci pensa il video, che porta la talentuosa firma di Luca Tartaglia: esagerato, tamarrissimo e stupendamente “versacesco”. Se strizzate bene gli occhi, forse riconoscerete tra gli ospiti del banchetto anche Romina Falconi…

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Tenete d’occhio questa ragazza, perché potrebbe darci delle gran belle soddisfazioni. Io ve l’ho detto.

BITS-RECE: Anohni, Hopelessness. Il cambiamento, lo sconforto e la confusione

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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In copertina c’è un volto confuso, androgino, frutto di un mashup fotografico tra la faccia dell’artista e quella di Naomi Campbell. E le canzoni all’interno del disco sono esattamente così, confuse, ambigue, stridenti. Roba che se la musica tende a destra, i testi virano a sinistra e la voce parte dritta per il centro.
Elementi che presi singolarmente sarebbero anche molto apprezzabili, ma così combinati si strappano le vesti a vicenda.

C’era una volta Antony & The Johnsons, e mezzo mondo restò incantato dalla voce senza sesso di Antony Hegarty, di fatto unica anima del progetto. Con lui abbiamo imparato che anche gli angeli si commuovono, e che quando lo fanno esce una canzone come You Are My Sister. Poi lui è diventato lei – o meglio, lo era anche prima, solo che non aveva ancora fatto il passo di farsi riconoscere come donna anche in pubblico – ed ecco spuntare il nuovo progetto Anohni. Il disco di debutto si intitola Hopelessness, più o meno Mancanza di speranza.
Al cambio di identità si accompagna un cambio radicale di musica: le poesie tristi e crepuscolari lasciano spazio a testi durissimi, arrabbiati, disillusi, politicamente interessati: Anohni se la prende con il sistema malato, che porterà tutti alla rovina, e ne ha per tutti, dai droni a Obama, a cui è dedicato un pezzo che non è esattamente un elogio. Un mondo davvero senza speranza, a livelli ansiogeni e sconfortanti. Messaggi che se sono profondamente diversi da quelli cantati un tempo, sono sempre pronunciati dalla stessa voce impastata di miele e melassa, in un contrasto fin fastidioso: se anni fa la voce di Antony era un balsamo, quella di Anohni avresti quasi voglia di zittirla. L’apice è la nenia di Obama, dove il nome del presidente è ripetuto in modo così ossessivo e biascicato che l’istinto è passare alla tracciare successiva, o peggio schiacciare direttamente stop.
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L’effetto abrasivo dell’album però non si ferma qui, ma arriva a coprire l’intero elemento musicale: non mi ricordo dove (o forse sì, ma non importa) ho letto che Hopelessness sarebbe una sorta di album dance con testi impegnati. Cioè, in pratica, secondo questa teoria, tra David Guetta e Robyn nelle vostre serate al club potrebbe capitarvi di sentir passare una canzone di Anohni. Oddio, le vie della provvidenza sono infinite, ma non so quali discoteche sarebbero disposte a far passare un brano che di ballabile ha ben poco: che siano suoni elettronici posso riconoscerlo (la base di Drone Bomb Me è da pelle d’oca!), ma che si possano definire addirittura dance, beh, un po’ meno. Quindi no, Hopelessness non è un disco di tormentoni tunz tunz con i testi intelligenti.

I messaggi li ha, e sono anche piuttosto chiari e coraggiosi (per tornare a Obama, conoscete qualcun altro che abbia criticato il presidente in modo così netto?), per il resto è il regno della confusione.

Si salva Crisis, nel suo crescendo empatico.

Se poi volete fare tutti i discorsi sul cambio di identità, sesso e genere musicale e considerare Hopelessness come la farfalla uscita dal bruco, fate pure: io di Anohni facevo anche a meno, Antony & The Johnsons mi andava benissimo, maschio o femmina che fosse. Così come non me ne faccio niente della raffinatissima produzione firmata da Hudson Mohawke e Onehtrix Point Never, sistematicamente osannata, se poi il risultato è un disco che per farsi ascoltare (e apprezzare) ha bisogno di un ascolto quasi scientifico.

Non sempre il cambiamento genera benefici.

BITS-CHAT: Un rap violento, che parla (anche) d’amore. Quattro chiacchiere con… Luchè

“Un disco molto personale, con momenti introspettivi e dark: ho voluto trovare un suono che mi distinguesse da quello che c’è in giro. Ho lavorato tanto sui ritornelli. Ci sono pezzi più forti, altri più intensi, parlo anche d’amore. Non ci sono invece pezzi crudi, O’ Primmo ammore in questo senso è un’eccezione, perché non voglio ripetermi: ho voluto parlare di me, ma in modo diverso dal passato, ho messo davanti la mia persona rispetto al contesto.”

Così Luchè parla del suo ultimo album, Malammore, il terzo lavoro solista da quando nel 2012 il progetto Co’ Sang, di cui faceva parte con il collega ‘Ntò, ha cessato di esistere. Da allora sono arrivati gli album L1 e L2.

O’ Primmo ammore è stato uno dei primi brani che il pubblico ha ascoltato del nuovo disco, essendo stato inserito nella colonna sonora della serie TV Gomorra.
Già, Gomorra, proprio quella “di Saviano”, quella di Napoli, la città di Luchè, anche se ormai vive da parecchi anni a Londra.

“Spesso mi capita di spiazzare le aspettative: non sono per forza il rapper del ghetto di Napoli. Sono anche quello, ma non solo, e mi piace cambiare direzione ogni volta, far venire fuori qualcosa di nuovo, anche se all’inizio chi mi ascolta potrebbe non capire.”

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Perché scegliere Che Dio mi benedica come singolo di lancio?
Quella è una canzone che difficilmente ci si aspetta da me. Parla di un ragazzo che non si piace, ha dei complessi, sta uscendo da una relazione. Una situazione che ho vissuto sulla mia pelle, ma ognuno di noi ha delle insicurezze, tutti almeno una volta ci siamo odiati, ecco perché ho voluto scriverla.

E la scelta del titolo dell’album? Che cos’è il Malammore?
Non potevo continuare la serie L3, L4, L5… Forse in futuro ci tornerò. Malammore è stato il mio primo tatuaggio, fatto a 17 anni, ma è anche il nome di uno dei personaggi di Gomorra. E’ una parola che indica l’amore, la passione, il dramma, racchiude il mood del disco: è un amore dannato, una passione che ti annienta, come la musica per me. Rimettermi in gioco ogni volta, cercare di superarmi mi distrugge, anche se io amo la musica: amo la canzone finita, non amo il processo di creazione. Malammore è questo, un compromesso di amore e sofferenza.

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Questa sofferenza si combatte?
Sì, ma non so bene come: si combatte e basta. Io continuo a fare musica perché mi sento spronato da quelli che mi ascoltano, so che ci sono loro che aspettano le mie canzoni, e questo mi fa continuare a scriverne di nuove.

In Violento fai riferimento al fatto che alle major non piaceva la tua musica: resta il fatto però che questo album esce per Universal. Cos’è successo? Ti sei censurato per poterlo pubblicare?
No, no, la libertà che mi sono preso è stata totale. Ho firmato con Universal a disco già chiuso: negli incontri che ho avuto con i discografici per definire l’accordo, mi hanno dimostrato di aver capito che esiste un mercato hip hop fatto da un determinato numero di persone, e che quel mercato se lo dividono i vari rapper, ognuno con la propria fanbase. Quindi non è tanto importante avere un singolo radiofonico, ma è l’artista che tira: se c’è un singolo forte a disposizione meglio, ma insieme siamo arrivati alla considerazione che il pubblico segue il rapper indipendentemente dal passaggio in radio. Ecco perché non mi hanno imposto nulla. Nella canzone dico che alle major non piaccio perché il mio sound è violento, ma è sempre stato così.

Tra le collaborazioni ci sono Gue Pequeno, Baby K e CoCo: perché hai scelto di coinvolgere loro?
Con Gue Pequeno abbiamo fatto Bello, un pezzo forte, pieno di punchlines, “spaccone”, tamarro, come ama fare lui. Baby K invece l’ho coinvolta per un pezzo d’amore, Quelli di ieri: ho fatto io il beat e ho chiamato lei per la parte cantata, sapendo già che le sarebbe piaciuto. CoCo lo seguo dagli inizi, è il mio migliore amico: insieme stiamo creando il movimento “black Friday”. Per il resto, ho lavorato con il gruppo di lavoro che già mi seguiva.

Malammore è un album piuttosto lungo, con 19 pezzi: avevi tanto da raccontare?
Dopo due anni dall’ultimo album, non volevo tornare con un disco di 11 pezzi, sarebbe stato incompleto: inoltre, 3 tracce erano già uscite, per cui di fatto gli inediti sono 16. Volevo bilanciare i vari stili, le influenze. Quando scrivo, di solito scarto pochissimo: se non mi sento sicuro di un pezzo, non lo finisco neanche.

Pensi che l’hip hop sia cambiato in questi ultimi 3-4 anni di grande esposizione mediatica?
E’ cambiato molto: la nuova generazione di rapper strizza molto l’occhio all’America, molto più di quanto non facessimo noi. Tra le cose che vedo e che non mi piacciono c’è la ricerca della canzone trash, fatta per una comicità “alla Pierino e Bombolo”, come se fossimo un pubblico di cretini. Dall’altra parte, ci sono però dei rapper che hanno sonorità internazionali, che si richiamano alla Francia o, come dicevo, all’America: sono giovani, per cui magari devono crescere, ma ci portano fuori da quel fastidioso “rap all’italiana”. Il pubblico cerca dei messaggi, cerca dei leader, dei punti di riferimento, e i rapper possono essere in questo senso dei modelli.

Una domanda di rito per BitsRebel: cosa significa per te il termine “ribellione”? 
La ribellione non la definisci, la provi. In questa società, la più grande forma di ribellione è essere se stessi: oggi i ragazzi si muovo in massa, non ragionano da soli, ma per schemi. La ribellione è importante se ha uno scopo, non se è fine a se stessa: penso a Napoli, una città dove la ribellione è necessaria, perché siamo stati strumentalizzati e spesso viviamo credendo che questa sia la situazione che ci meritiamo. Per Napoli, ribellarsi vuol dire opporsi a un destino che sembra già scritto: dobbiamo ritrovare la dignità, meritiamo di avere degli input, meritiamo un sistema che funzioni, meritiamo di non sentirci inferiori. Perché in Italia quasi nessuno ha parlato dell’evento di Dolce&Gabbana che si è svolto a Napoli, mentre i media stranieri sì? Perché Napoli serve per essere strumentalizzata, per farci Gomorra: c’è razzismo, dà fastidio vedere Napoli capitale della moda, anche solo per qualche giorno. Apprezzo Saviano soprattutto quando parla di politica, meno quando analizza l’attualità: le sue denunce sarebbero state utilissime se poi fosse cambiato qualcosa, ma nella sostanza la rivoluzione sociale non c’è stata.

Nell’assopimento delle coscienze, la musica ha delle colpe?
La musica no, sono gli artisti ad averle: dipende da come si usa la musica, e oggi molti la sfruttano solo per diventare famosi. La musica potrebbe fare tantissimo, ma deve scontrarsi con queste situazioni, e con una grande ignoranza del pubblico.

#NUOVAMUSICA: Katy Perry, Rise

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Zitta zitta, quatta quatta, la Katy pubblica il suo nuovo singolo proprio nel giorno in cui era stato annunciato anche quello di Britney.

Coincidenza? Mossa astuta? Boh, nel mondo pop tutto è possibile…

E in ogni caso, questa Rise è proprio il come back che ci si aspettava di ascoltare da una campionessa di vendite come lei. 

Well done, Katy, well done!

BITS-REPORT: Rihanna, Anti World Tour, Milano. Il diluvio, il freddo e la delusione

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di Manuel Cicuzza 

Il tornado Rihanna è passato sull’Italia portandosi via l’entusiasmo dei fan più accaniti e un mucchio di perplessità e dubbi.
La diva delle Barbados è arrivata allo Stadio San Siro di Milano mercoledì 13 luglio per la seconda data del suo Anti World Tour nel nostro paese: un tour molto chiacchierato sin dall’inizio, complici stadi semivuoti in giro per il mondo e le lamentele dei più.

Sono arrivato a San Siro molto sfiduciato, complice anche un acquazzone che si è abbattuto nel pomeriggio sulla città e che si è protratto fino a sera, contribuendo a smorzare ulteriormente gli animi. A scaldare il pubblico infreddolito ci pensa prima il dj Mustard e poi Big Sean.

Rihanna si presenta sul palco con un’ora di ritardo, intonando Stay singolo tratto dall’album Unapologetic del 2012. Il concerto prosegue con numerosi successi e una buona parte dei brani di Anti, l’ultimo album, pubblicato pochi mesi fa.
Le perplessità non tardano ad arrivare: canzoni tagliate in mini mashup, cambi d’abito con il palco lasciato vuoto e quattro ballerini venuti fuori per così poco tempo da non essermi neanche accorto di loro.
Lo show continua ma non si accende, non parte come dovrebbe e Rihanna passa la metà del tempo con il microfono diretto verso il pubblico nei punti alti delle canzoni. L’amara sorpresa arriva alla fine quando si gira verso i musicisti indicando il numero due con le dita e un’occhiata che non lascia spazio all’immaginazione: dalla scaletta vengono eliminate le ultime canzoni FourFiveSeconds e Kiss It Better e Rihanna saluta tutti sulle note di Love On The Brain, sparendo via.

Il pubblico è sconcertato, così tanto da aspettarsi un ritorno della diva per un’ulteriore canzone, ma niente.
Tutte le mie peggiori previsioni si sono realizzate dopo un’ora e un quarto del concerto pop più scarso che abbia mai visto in vita mia.

Raramente mi sono trovato a bocciare completamente uno spettacolo di un’artista che seguo con costanza e che aspetto da anni, ma qui c’è davvero poco da salvare.
Lei bellissima, a tratti incerta e a tratti coinvolta, persino spaventata.

Rihanna ha provato a fare il salto di qualità con questo album e questo tour, ma è difficile grattarsi via l’immagine da ragazzaccia del pop, trasformandosi improvvisamente in un prodotto minimal e di nicchia.
Il pubblico non ha gradito e forse lei se ne è un po’ accorta.

Alla prossima volta Riri. Forse.

BITS-RECE: Jean-Michel Jarre, Electronica 2: The Heart Of Noise

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Come aveva fatto lo scorso anno il Gran Maestro della dance Giorgio Moroder, per il suo ultimo progetto anche Jean-Michel Jarre, il sovrano dell’elettronica, si è avvalso di un vero e proprio esercito di ospiti che ha inserito in Electronica, un album spalmato in due volume pubblicati ad alcuni mesi di distanza uno dall’altro.

E se grande accoglienza era stata riservata a The Time Machine, con altrettante aspettative si attendeva la seconda parte del lavoro, The Heart Of Noise.
A far da guida all’album, la relazione tra l’uomo e la tecnologia.
The Heart of Noise è un tributo a Luigi Russolo, il compositore che già nel 1913 predisse l’avvento del sintetizzatore e intuì che l’elettronica e le altre tecnologie avrebbero consentito ai musicisti di “sostituire alla limitata varietà dei timbri degl’istrumenti che l’orchestra possiede oggi, l’infinita varietà di timbri dei rumori, riprodotti con appositi meccanismi”. 

Quello che Jarre ci offre, dopo la già ottima prova d Electronica 1, è un lungo viaggio sonoro zeppo di stimoli e sensazioni, magistralmente create dalle “macchine” elettriche, su cui appoggiano le loro voci ospiti più che illustri, tra cui i Pet Shop Boys, i Primal Scream, Gary Numan, Jeff Mills, Peaches, Hans Zimmer e Cyndi Lauper. Una parata di stelle che appaiono come comete nel cosmo lisergico e abbagliante modellato da Monsieur Jarre.

Tra gli episodi di più forte impatto, la melanconica Brick England, insieme ai Pet Shop Boys e Swipe To The Right con Cyndi Lauper.
Ma c’è poi un ospite che rende ancora più prezioso questo album e ancora più forte il suo messaggio: Edward Snowden, l’ex tecnico della CIA che con le sue rivelazioni ha dato il via al Datagate, lo scandalo sulla sorveglianza di massa messa in atto da alcuni governi all’insaputa dei cittadini, denunciando così l’abuso della tecnologia.
Jarre ha preso la sua voce l’ha piazzata sui veli elettronici di Exit.

Ecco il punto di snodo, la differenza tra un DJ qualunque e uno che dai synth sa tirare fuori musica che pulsa e che parla.

Electronica non è un album di musica elettronica.
Electronica
è un progetto di Jean Michel Jarre.
E c’è una bella differenza.

BITS-RECE: Daphne Guinness, Optimist In Black. Dal lutto alla vita

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Scelta spiazzante quella di Daphne Guinness.
Cosa succede infatti quando una delle più grandi fashion icon decide di buttarsi nella musica e incidere un disco? Nella maggior parte dei casi, succede poco o nulla, il più delle volte ne viene fuori una manciata di brani strambi zeppi di elettronica. Sì perché per fare le cose cool e trendy oggi ci si butta lì dentro, in quel magma indistinto di suoni prodotti dai synth.

Ma dimenticavo che questo succede se sei una qualunque fashion blogger, fashion trender, fashion quel-che-vuoi, non se sei una vera icona vivente dello stile, una delle più grandi, una a cui persino Karl Lagerfeld si sente in dovere di inchinarsi: una come Daphne Guinness. A quel punto, non potresti permetterti di buttare via tempo ed energia per pubblicare una dozzina di canzoni “tanto per”, ma puoi fare quello che davvero ti va, metterci anima e corpo e farlo al tuo meglio. Così ha fatto, più o meno, la Signora dai capelli bicolore. E anziché rifilarci un anonimo e scontato disco di elettropop/EDM, ha pensato di darsi al rock.

E’ nato così Optimist In Black.
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Certo, Daphne Guinness non è Patti Smith o Debbie Harry, non lo è e lo sa, così come è più che evidente che se nella vita avesse voluto fare la cantante probabilmente a quest’ora sarebbe a raccogliere spiccioli in qualche disgraziato locale di periferia.

Ma la fortuna ha voluto che nascesse in una delle più ricche famiglie irlandesi (proprio i Guinness della birra) e venisse assorbita dal fashion system, così che la musica è rimasta per lei solo una marginale passione, da coltivare quando e come le piace.

Quando si è trattato di dar vita al suo album – e non è affatto detto che rimanga l’unico – Daphne ha chiamato Pat Donne e Tony Visconti, lo stesso che per anni ha affiancato il caro Bowie alla produzione. Portare a termine il lavoro, ha dichiarato, non è stato facile, ci sono voluti tre anni, e sin dalla pubblicazione del singolo Evening In Space, nel 2014, si era capito che stava facendo sul serio: in quel brano infatti non si faticano a ritrovare le medesime atmosfere aliene di Life On Mars. Per il resto, i riferimenti sono da ricercare soprattutto negli ascolti degli anni ’60 e ’70

Con l’eccezione di un alcuni brani – Fatal Flow e No Nirvana Of Cooldom, per esempio – che effettivamente mostrano quei suoni fluidi di cui parlavo all’inizio, per il resto Optimist In Black è un lavoro di impronta cantautorale piuttosto malinconica, visto che dentro Daphne ha infilato i pezzi più dolorosi della propria vita, senza risparmiare stoccate all’ex marito (Bernard-Henry Lévy, il filosofo) o il ricordo degli amici scomparsi (la collega Isabella Blow e lo stilista Alexander McQueen, morti entrambi suicidi a pochi anni di distanza): Optimist In Black sembra un po’ la stanza privata di Daphne, un cantuccio in cui rifugiarsi dopo essersi tolta gli abiti di haute couture. Uno spazio suo, da arredare come meglio credeva, senza la pretesa di consegnarci una nuova Bibbia della musica, ma nemmeno senza scialacquare l’occasione.

Optimist In Black non è un disco da classifica, probabilmente non è un disco che lascerà segni nella memoria, ma è un lavoro che ha le gambe per stare in piedi. Un disco di una donna che, arrivata a lambire i 50 anni e restando quotidianamente immersa nel luccichìo del fashion biz ai massimi livelli, sa che la vita riserva anche brutti scherzi, tremendi a volte, e che arriverà per tutti un momento in cui dovremo vedercela da soli.

Dovremo affrontare dolori, ci butteremo addosso il nero del  lutto, e certi segreti ce li porteremo dentro in silenzio, certi di poter contare solo su di noi. 

Di tutto il resto, chi se ne frega: il mondo là fuori sarà fantasticamente luccicante.