BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Ho iniziato a seguire Le luci della centrale elettrica nel 2014, con l’uscita di Costellazioni: fino a quel momento, il progetto di Vasco Brondi era per me poco più di un nome, nonostante fossero sempre di più le persone che ne parlavano, quasi sempre con tono entusiastico.
Poi è arrivato I destini generali, primo singolo di Costellazioni, e anche per me è scattata l’infatuazione: sono rimasto affascinato da quella musica leggera, quelle atmosfere lunari, legare a testi limpidi e senza ornamenti di troppo, prova di un nuovo cantautorato italiano che stava prendendo una strada tutta sua.
Tre anni dopo, Brondi torna con un lavoro nuovo, e se con l’altro album guardava al cielo, qui guarda alla Terra, al punto che proprio così lo ha intitolato. Un disco “etnico”, secondo le parole del suo autore, che mette al centro la nuova etnia italiana, fatta al suo interno di numerose subetnie diverse. Fin troppo semplice capire cosa intenda Brondi, e naturale che tutto questo si rifletta musicalmente con la presenza qua e là di echi balcanici e tamburi africani, seduzioni arabe e memorie popolari.
Lo dico subito: rispetto a Costellazioni, qui non ho ritrovato la stessa magia, la stessa forza compositiva che mi aveva così affascinato. Eppure Terra è un disco altrettanto traboccante di poesia.
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Quello che dà anima a questo album più che le strutture sonore sono i suoi testi.
Vasco Brondi è davvero una penna aurea del nostro tempo, e lo è perché ha la capacità di raccontare gioie e piccole e grandi tragedie umane sublimandole, sollevandole e ripulendole dal fango, ma senza impoverirle di nessun dettaglio. Bellezza, tristezza, orrore, frustrazione, amore, tutto si trasfigura. Ecco che allora nei nuovi brani ci sono il terrorismo e la paura degli attentati in Coprifuoco (sempre assaliti dai pensieri / su questo pianeta chiamato Terra / anche se come noi è quasi soltanto acqua / come noi tra un amore e una guerra), c’è un quadro di realismo quotidiano in Nel profondo Veneto, tra vita di provincia e illusioni della grande metropoli, c’è – e come poteva non esserci – un ritratto impietoso della nostra vita social in Iperconnessi (cantami o diva l’ira della rete / imprevedibile come le onde / cantami della fame di attenzione della sete / di ogni idea che si diffonde / cantami o diva dello sciame digitale / l’ironia sta diventando una piaga sociale / cantami dell’immagine ideale / da qualche parte c’è ancora sporchissimo reale), e c’è la poesia nella sua veste più semplice, come in Stelle marine (l’acqua si impara dalla sete / la terra dagli oceani attraversati / la pace dai racconti di battaglia).
Quello che non c’è, per fortuna, è l’intenzione di dare risposte o soluzioni, così come la tentazione di sfilarsi dalle comuni miserie.

Insieme al disco anche La grandiosa autostrada dei ripensamenti, un diario che ne racconta la lavorazione, tra autostrade, isole, montagne e seminterrati.

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