BITS-RECE: Enzo Avitabile, Lotto infinito. Respiro mediterraneo

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata  bit.
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Per un fatto di puro gusto personale, ho spesso evitato la musica napoletana. Anzi, ho spesso evitato la musica dialettale in generale, pur consapevole dell’immenso valore culturale che racchiude. Pura questione di gusto personale, mettiamola così.
Poi è accaduto che mi sono imbattuto in Lotto infinito, ultimo lavoro di Enzo Avitabile, e i miei pregiudizi hanno dovuto fare di corsa un salto indietro.
Perché Avitabile non fa semplicemente musica dialettale, fa qualcosa che va ben oltre, pur partendo da Napoli e dalle sue suggestioni, prima fra tutte quella della lingua.
E in effetti quello che c’è dentro a Lotto infinito è qualcosa che si immerge nel cuore di Napoli, ma poi prende il largo, fino a lambire le coste dell’Africa e delle porte dell’Oriente (basterebbe anche solo guardare le architettura disegnate in copertina o ascoltare i suoni dell’al ghaita, dello ngoni e del setar).
L’atmosfera che esce da questo disco è magica, come se tutto restasse sospeso, incantato, come se il tempo rallentasse per qualche minuto il suo corso, cristallizzato in una musica che apre il suo ampio mantello, e passando sopra il Mediterraneo si impregna con la sabbia e la salsedine dei suoi fondali, trascinando con sé suggestioni, odori e colori senza confini.
Avitabile racconta Napoli senza infilare nei testi nemmeno un filo di quella retorica che di solito si riversa a barili quando si parla della città: i suoi ritratti presentano Napoli con le sue ferite sanguinanti e le sue cicatrici, le periferie affidate alla protezione di San Ghetto, la Napoli deturpata e dolorosa, come certe statue di Madonne infilzate, delle discariche e dei fuochi. Ma è anche la Napoli carica di vita e di forza per stare in piedi, che si fa coraggio da sola.
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In Lotto infinito però non c’è solo la capitale partenopea, ma un po’ tutta Europa e un po’ di più, con le storie tragiche dei migranti nel Mediterraneo.
Un disco che profuma di umanità e solidarietà fraterna.
C’è poi il discorso degli ospiti, che sono tantissimi e di grande prestigio, da Giorgia, Francesco De Gregori, Mannarino, Renato Zero (alle prese con il napoletano in Bianca, un pezzo dedicato alla memoria di Bianca D’Aponte), Caparezza, Daby Touré, che porta la lingua africana in Comm’ ‘a ‘na, Hindi Zahra, Lello Arena a molti altri: un elemento che sicuramente regala lustro al progetto, ma che in questo caso è solo un accessorio di un progetto già da sé meraviglioso.

BITS-RECE: Maurizio Chi, Due. L’amore è un numero

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Lo ha intitolato Due, non però perché questo sia il suo secondo album.

Dopo alcuni singoli pubblicati negli ultimi due anni, per Maurizio Chi questo è infatti il vero debutto discografico.

Quel “due” ha un significato molto più profondo: due è infatti il numero della coppia, il numero minimo della condivisione di una vita.
Una vita di una coppia formata da un lui e un altro lui. Maurizio hai infatti costruito la sua prima opera discografica attorno alla sua diretta esperienza, arrivando a compiere un’operazione che pochissimi prima di lui avevano sperimentato. Non una singola canzone sull’amore omosessuale, ma un intero album.
Il punto è che questo giovane artista è stato in grado di andare anche oltre: fate una rapida panoramica di quanti, soprattutto negli ultimi anni, hanno voluto mettere in musica una storia omosessuali. Tanti, tantissimi. E, siamo sinceri, in quanti di questi inni alla libertà e alla “tolleranza” non si annida almeno un filo di retorica e compatimento?

Non però in queste dieci canzoni. In Due non si trova niente di retorico, nessun buonismo, nessuna pretesa di “accettazione” o rompere qualche tabù. Con uno sguardo di lucida sensibilità, Maurizio Chi racconta prima di tutto la vita di una coppia, mettendoci dentro un colorato bouquet di dettagli quotidiani che vanno dai dubbi e le insicurezze (Fuggiamo l’amore), ai momenti di intimità, fino a dichiarazioni d’amore di rara poesia.
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La traccia di apertura, che dà il titolo all’album, è una nuda e sincera ammissione di paura di annullarsi totalmente per l’altro (“Dimmi se esisto anche io o siamo sempre in due”), mentre Dopo mille favole è una caustica stoccata agli amanti del passato, quasi uno stornello di ironia salatissima (“Chi legge è coglione”).
Ma c’è spazio anche il dialetto siciliano di A comu je gghiè con le sue limpide note mediterranee.
I diamanti di Due arrivano comunque sul finale, prima con Malintenti, primo singolo del progetto, una delicatissima ode all’amato, tessuta con la sensibilità di un’anima che sa muoversi in punta di piedi. Una sorta di moderna romanza. E poi Occhi al mare, felice metafora sulle tempeste che ogni esperienza di vita insieme può incontrare durante il viaggio.

Due è un esempio perfetto di come il linguaggio dell’amore sia davvero universale e non conosca limiti o barriere di sesso, genere, distanza o altre impalcature culturali e mentali.
Maurizio non si nasconde dietro a un detto-non-detto: lui dice tutto, lasciando al solo pronome maschile presente nei testi il compito di lasciar capire, senza urlare.
Per il resto, questo è un disco che parla di due vite che si sono intrecciate e procedono accanto ogni singolo giorno, con tutte le loro imperfezioni.

Prima che essere gay, etero o bisex o qualsiasi altro cosa, noi siamo persone, ognuna con la propria identità. Anche se tropo spesso c’è ne dimentichiamo.

PS: Maurizio Chi ha vinto l’edizione 2016 del concorso Genova x Voi, una vittoria che gli dà la possibilità di entrare nella grande famiglia Universal in qualità di autore. Fossi in voi, lo terrei d’occhio… 

BITS-RECE: Rebecca Ferguson, Superwoman. Scintillio di soul

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.

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Già arrivata al quarto album, Rebecca Ferguson si dimostra una gran dama del soul dei giorni nostri. La ragazza che solo cinque anni fa si è messa in luce a X Factor UK, è oggi un’artista in piena corsa e in piena autoaffermazione.La sua ultima fatica si intitola Superwoman ed è – come si può ben intuire – un inno alla forza e alla rinascita, prima di tutti sue, in secondo luogo di tutte le donne, infine di ognuno di noi.

Un album di grande carica e un concentrato di scintillio soul, che lo pervade dalla prima all’ultima traccia. La signora ci sa fare alla grande, e con la sua voce vagamente felpata dimostra di saper regalare meraviglie: d’altronde, non dimentichiamo che solo l’anno scorso la Ferguson si è cimentata in un coraggioso progetto di cover di Billie Holiday, uno dei suoi punti di riferimento artistico, indi per cui è facile capire quanto lo spirito del soul o del jazz trovino in lei salde radici nonostante la giovanissima età.

A cominciare dal singolo Bones, cover di Ginny Blackmore, per poi passare a Mistress, Superwoman, Stars, Don’t Want You Back, Withou A Woman si assiste a lucenti esplosioni di musica, tripudi di declinazioni tra pop e soul, inni di battaglia di un’anima che è caduta, si è rialzata e vuole gridare forte la sua vittoria.

Un album di altissimi voli.

BITS-RECE: Leonard Cohen, You Want It Darker. Magistrale solennità

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Quando un artista taglia il traguardo di una certa età e dà alle stampe la sua nuova opera, c’è una generale tendenza ad accogliere il lavoro con un po’ di leggerezza: è una tendenza non scritta, tacita, ma largamente diffusa.
Non è ben chiaro quale sia questo limite tra la giovinezza è la vecchiaia dell’arte, ma c’è, ammettiamolo. Si è un po’ generalmente convinti (troppo spesso a torto!) che i colpi migliori di una vita dedicata all’arte debbano arrivare entro una certa data, poi inevitabilmente, quasi per un fatto fisiologico, tutto quello che si fa è mediocre, scadente, comunque non degno di troppe attenzioni. È un fenomeno di cui si sta recentemente rendendo conto Madonna, che di primavere ne ha alle spalle 58: nonostante il suo ultimo Rebel Heart sia migliore di altri suoi dischi pubblicati anni addietro, è stata lei stessa ad accorgersi di essere vittima dell'”ageismo”, la discriminazione dell’età. 

Giusto dare spazio ai giovani, sacrosanto, ma non si può nemmeno arrivare all’opposto di fare dei dati anagrafici un termometro della qualità di un prodotto artistico. La musica è stata, è e sarà piena di esempi di album meravigliosi pubblicati da artisti nel – diciamo così – autunno della loro esistenza.

E se di discriminazione anagrafica ha iniziato a soffrire Madonna, figuriamoci in che situazione potrebbe trovarsi Leonard Cohen, che ha pubblicato il quattordicesimo album nel suo ottantaduesimo compleanno.
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Parliamoci chiaramente, anche se Cohen è uno di quei nomi davanti a cui le gambe dovrebbero iniziare a tremare, non c’è dubbio che per il mondo lui resterà quasi esclusivamente “quello di Hallelujah“, sempre che non la si voglia attribuire forzatamente a Jeff Buckey. La realtà è che la carriera di Cohen è stata fonte di ispirazione per una quantità incommensurabile di musicisti, ha posto una pietra miliare nella storia della musica per i suoi testi, le sue poesie, ben al di là di quelle gemma che porta il nome di Hallelujah.

You Want It Darker, questo il titolo dell’ultimo album, continua gloriosamente il percorso, essendo solo l’ultimo grandissimo album di un gigante della musica dei giorni nostri. 

C’è quasi un’atmosfera liturgica tra queste nuove tracce, un senso di misticismo artistico e di mistero nascosto dal lento incidere della voce cavernosa e a tratti oscura di Cohen, che più che abbandonarsi a un vero canto procede per passi poco più che recitati. 

È come assistere a una solenne salmodia, durante la quale ci si deve alzare in piedi togliendosi il cappello in segno di riverenza. Perché in You Want To Darker la forza espressiva di Cohen si percepisce in tutta la sua integrità, a cominciare dal momento sacrale della titketrack, accompagnata dal Cantor Gideon Zelermyer & The Shaar Synagogue Choir di Montreal.

Un album di nove tracce che restano avvolte in loro stesse, in un denso e oscuro defluire che non si concede tappe e deviazioni di troppo, ma si ricopre solo di essenziale.

BITS-RECE: Sia, This Is Acting (Deluxe Edition). L’abbagliante luce della musica

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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In mezzo alla tantissime stelle, stelline e stelline dello showbiz, Sia è un caso a parte.

Una popstar atipica. È partita dall’essere semplicemente una voce che dava anima ai pezzi di David Guetta ed è diventata in pochi anni uno dei nomi più luccicanti dello scenario pop-dance mondiale.

Mondana al limite del necessario, praticamente assente nei suoi video, è persino riuscita a trovare un modo per scomparire anche quando c’è, nascondendo il volto dietro a quelle parruccone bianche e nere che ormai portano il suo marchio. Un modo di giocare con l’immagine quasi dispettoso e provocatorio. D’altronde, Sia è l’esempio di come una musicista possa toccare i vertici delle chart anche senza fare bella mostra del suo corpo, ma mettendosi in mostra con ben altre doti.

Prima che il grande pubblico vedesse comparire la sua figura, Sia era esclusivamente una voce, una grandissima voce. Potentissima e quasi illimitata, dava alle canzoni dance una lucentezza unica. Ecco, la voce di Sia brilla, scoppia di luce, esplode come una manciata di glitter sul viso.

Se troppo spesso le parti vocali nei brani dance si sono ridotte a poco più di riempitivi, Sia ha messo la voce indiscutibilmente al centro, esercitando con forza in ogni singolo brano un’intensità interpretativa praticamente unica, quasi una sofferenza commovente che lascia a bocca aperta e occhi sbarrati.

Il suo ultimo album, This Is Acting, è stato un successone globale, trainato da pezzi come Alive e Cheap Thrills.

Ora il disco viene ripubblicato in una versione deluxe in cui all’album in edizione standard si aggiungono tre inediti, il singolo The Greatest (in doppia versione, con e senza Kendrick L’amaro), un featuring di Sean Paul in Cheap Thrills e Move Your Body remixata dal nuovo idolo del dancefloor Alan Walker.

Una rispolverata all’abbagliante fascio di luce emanato da quest’artista straordinaria che sì, fa riempire le piste da ballo, ma regala in ogni occasione anche un nuovo pezzo di anima. Un’anima che balla, si contorce, soffre, splende.

BITS-RECE: Lady Gaga, Joanne. Se la verità sta sotto un cappello rosa

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Quando ci affezioniamo a un artista, esattamente come succede nella vita con gli amori e le amicizie, non lo facciamo per scelta, ma perché nasce tra noi e il nostro idolo un’invisibile alchimia data da una speciale affinità di intenti e di spirito. Vuoi che sia la sua musica, i messaggi delle sue canzoni, il timbro della sua voce, il suo aspetto o più probabilmente un miscuglio di tutto questo più un ingrediente misterioso, quando prendiamo in simpatia un artista e ne diventiamo “fan” sappiamo di poterci fidare anche ad occhi chiusi e giuriamo a noi stessi di seguirlo ovunque andrà. Come in amore. Capita poi a volte che, per ragioni che probabilmente solo il nostro idolo conosce, lui/lei decida di cambiare strada, imboccare sentieri nuovi, diversi, talvolta molto diversi, da quelli a cui ci aveva abituati: a quel punto che si fa? Gli si va dietro o ci si ferma a riflettere se ne valga la pena?

Un po’ come quando si rivede un carissimo amico dopo un certo tempo e lo si ritrova profondamente cambiato: siamo noi a non averlo mai conosciuto davvero o è lui a porsi ora in una maniera nuova? La sensazione non può che essere di straniante spaesamento.

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Ecco, esattamente questo è ciò che provato ascoltando per la prima volta Joanne: quasi un senso di disagio, come se in quello che stavo sentendo mancasse qualcosa. Le canzoni mi “parlavano”, ma io non capivo, anche se a cantare era Lady Gaga, proprio quella di cui – musicalmente parlando – negli ultimi anni mi sono fidato di più. Perché sì, io di Lady Gaga posso tranquillamente dire di essere fan, pur non avendo mai messo in pratica certe follie che si sentono dire a volte di certi invasati. Sono un suo fan perché seguo tutto quello che fa, perché trovo in lei un punto sicuro, la sento un po’ mia, sento mie molte delle sue canzoni, perché sento che parlano la mia “lingua”. Adesso però, senza neanche avvisare con troppo anticipo, succede che Stefani toglie di mezzo tutti i ghirigori che aveva usato fino a qualche giorno fa e pubblica un album lontanissimo da ciò che è sempre stata. Così lontano, che se non ci fosse il suo profilo in copertina e la voce nei brani non avesse il suo timbro, si crederebbe tranquillamente che sia il disco di qualcun altro. 

Non saprei dire di che genere sia Joanne: non pop, ovviamente non dance, forse a sprazzi rock, e tanto country. Ma voi capite che non è semplice dire che Lady Gaga ha fatto in disco country… Non un disco di pop addobbato di country, ma proprio un album di country e pochi altri accessori addosso! Niente elettropop, niente elettronica in generale, se non forse in Perfect Illusion, che è però il brano musicalmente più distante dal resto: c’è tanta roba acustica, tante chitarre grezze, percussioni nude, bassi secchi e vibranti, ed è davvero, ma davvero difficile capire che si tratta della stessa cantante che nel 2008 esordì con Just Dance e poi fece ballare l’intero globo con Poker Face e Bad Romance

Dopo il rodaggio dei primi singoli, quando uscì The Fame Monster, Lady Gaga sembrava aver aperto una nuova epoca del pop femminile, un pop fatto di schiaffi diretti al pubblico, un pop immerso in un immaginario non per forza luminoso, sorridente e bello, un pop che assimilava elementi che non gli appartenevano e li riproponeva in una nuova, affascinante veste.

Con Joanne tutta questa impalcatura non c’è più: Lady Gaga recupera il country, per giunta nella sua dimensione più intima e nostalgica, e per farlo si è affidata alla produzione del tanto osannato Mark Ronson. Canzoni come la stessa Joanne, Million Reasons, Angel Down e Grigio Girls sembrano uscire dai bauli di qualche sperduta casa nella prateria, dove il vento soffia forte e il cielo è spesso coperto.

Ovviamente non so perché Lady Gaga abbia deciso di muoversi in quella direzione, ma quel che è certo è che – almeno per ora – si è staccata dalla masnada pop delle colleghe e si è rintanata in un cantuccio in disparte.

Probabilmente l’album venderà molto meno dei precedenti, e l’impressione è che sia lei che i suoi discografici ne siano perfettamente consci, eppure questa volta Lady Gaga ha deciso di prendere a schiaffi il pop stesso. Lei che se n’è nutrita in abbondanza, adesso lo mette da parte e si dedica ad altro, sapendolo fare, va detto, perché resta il fatto che questa ragazza ha dalla sua parte un talento che la fa arrivare dove molti altri possono solo immaginare.

Più che giusto domandarsi allora quale fosse la vera Gaga, se quella vestita di fettine di manzo o questa con il cappellone rosa da cowgirl, se quella del pop pestatissimo o questa a cui basta imbracciare una chitarra. Abbiamo sempre capito male noi o è stata lei a farci illudere?

E se da una parte parlo di illusione è perché dall’altra c’è delusione. Delusione per non aver ritrovato l’artista che da fan credevo di conoscere, delusione per non aver ritrovato la musica che volevo ascoltare. Perfect Illusion aveva fatto accendere il campanello d’allarme, adesso Joanne fa scattare la sirena.

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Ma al di là di tutte queste belle chiacchiere, com’è questo benedetto disco? Più bello di come lo pensavo e più brutto di come avrebbe dovuto essere.

La prima metà dell’album la si può tranquillamente tralasciare, ad eccezione della già citata Joanne, una ballata dal testo toccante dedicato alla zia paterna morta di lupus in giovane età: la situazione cambia e si risolleva con sollievo a partire da Million Reasons. Da lì le acque si smuovono e arrivano un po’ di stimoli interessanti, come Sinner’s Prayer e il suo giro di chitarra nerboruto. E poi, dicevo, Angel Down e soprattutto Grigio Girls, a cui senza esitazione consegno la medaglia d’oro. Un pezzo in cui sventola più alta che mai la bandiera del blue mood e che rischia seriamente di spingere fuori qualche lacrima (e poi c’è quel riferimento non troppo velato alle Spice… Colpo basso!). Perché sia finito solo nella deluxe edition, quando merita assolutamente il più ampio ascolto possibile, resta un altro mistero di questo album…

Peccato un po’ per Hey Girl, in duetto con Florence Welch, che si perde senza mordere come avrebbe dovuto.

Prima di ascoltare Joanne dimenticate tutto quello che sapevate (o pensavate di sapere) su Lady Gaga e prendete questo disco come il grande salto di una cantante che non ci ha pensato troppo ad azzardare. Qui dentro Lady Gaga non c’è. C’è una brava artista americana che ha stoffa da vendere, e la vende a chi vuole e come vuole, anche se ci fa corrucciare un po’ troppo la fronte. Se amate il country, forse amerete Joanne, se non lo amate ci dovrete sbattere violentemente il naso contro, ma potreste anche trovarci qualcosa di buono.

Insomma, per farci un bel bagno colorato nel pop, pare che dovremo aspettare il prossimo album di Katy Perry. Sempre che anche lei non abbia intenzione di indossare un cappello rosa.

BITS-RECE: GionnyScandal, Reset

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Morde, ma quasi sempre con il sorriso.

Arrivato alla pubblicazione del primo album con una major, GionnyScandal lancia sul mercato Reset, un disco da cui offre il suo punto di vista sulla società.

Il quadro che emerge da questi 12 brani non è certo dei più incoraggianti, tra adolescenti persi tra selfie, chat e incertezze sul futuro e adulti che invece di indicare la strada sembrano cadere negli stessi, tristissimi, errori. Uno sguardo amaro, ritagliato con le lame affilate di una certa ironia messa in rima, ma pur sempre desolante.

Ci sono poi anche alcuni colpi inaspettati, come Reset, il pezzo che dà il titolo all’album, messo proprio in apertura e in cui prevale il racconto autobiografico con i suoi momenti più difficili, e E invece no, dove il linguaggio si fa un po’ più duro e i riferimenti si fanno più diretti.

Musicalmente, Reset non manca di lambire i confini del pop, pur alternando alle luci momenti più plumbei e austeri. Di certo, è un album porge la guancia a un ascolto facile.

BITS-RECE: Trolls: Original Motion Picture Soundtrack

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Prendi una decina di classici della musica (e un paio di inediti) e dagli una nuova luce, se possibile briosa e spassosissima.
Questo è, in grande sintesi, la coloratissima colonna sonora di Trolls, il film d’animazione targato Dreamworks arrivato nelle sale a settembre: da The Sound Of Silence, Hello, I’m Coming Out/Mo’Money Mo’ Problems e una nuova registrazione di September degli Earth Wind & Fire, fino a True Colours.

A mettere la voce nei brani, nomi giganteschi del pop come Justin Timberlake, Ariana Grande, Anna Kendrick e Gwen Stefani.
Tra gli inediti spicca Can’t Stop The Feeling, l’ultimo successone di Timberlake, presente anche in una versione interpretata dal cast.

BITS-RECE: Loredana Errore, Luce infinita. Quando l’anima brucia di vita

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C’è una cosa di Loredana Errore che mi ha fatto sentire in lei una sintonia fin dal primo momento in cui l’ho sentita cantare. Era ad Amici, ormai alcuni anni fa, e quando partiva la base di un brano, dalla sua bocca usciva una particolare commistione di brama di vita, gioia, ma anche un dolore avito, una sofferenza che sembrava covare in lei da sempre. E in ogni singola parola che pronunciava cantando, tutto questo veniva fuori con una forza impressionante. Stupendo e terribile insieme. Sicuramente un attaccamento alla vita, prima che alla musica, unico.

Oggi che il tempo è passato e che Loredana ha da poco attraversato un momento personale delicatissimo come lo può essere un incidente stradale di quelli tremendi, tutto questo è rimasto intatto. Nelle nove tracce del suo ultimo album, Luce infinita, quell’attaccamento alla vita si è fatto ancora più robusto, ha tirato fuori ancora di più le unghie e le infilate nella terra.
Il modo che ha Loredana di vivere le canzoni che interpreta è di quelli viscerali, che non ammettono mezze misure: o c’è tutto o non c’è nulla. Lo si sente nelle singole parole, nel modo che ha di mordere le sillabe, trascinarle, strapparle.
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Ci vuole coraggio per riprendersi il cielo, urla in Nuovi giorni da vivere, il primo singolo, e questa frase basterebbe da sola a riassumere l’anima di questo album che ci riconsegna dopo alcuni anni di silenzio un’artista preziosissima, tanto battaglierà quanto fragile.

Loredana canta d’amore, canta di vita, di perdite, di conquiste, di sconfitte, di sorrisi ritrovati, e in lei si sente, costante, una sincerità lucida, limpidissima, quasi abbagliante da guardare in faccia. La rivisitazione di Dio come ti amo di Modugno è quanto di più personale ci possa essere, Luce infinita è un violento vortice d’amore, Lo sguardo stupendo, dedicata alla madre, è invece un pugno d’amore tirato dritto nello stomaco del cielo, fino a farlo sanguinare.

La bellezza di Loredana Errore è che di artisti così in giro non se ne trovano molti, sono rari, rarissimi, perché le anime come la sua sono quelle così grandi da avere il coraggio di spogliarsi, farsi scivolare addosso l’armatura e mostrare i lividi, le cicatrici e i morsi ricevuti. E sorridere meravigliosamente.

E’ grazie ad anime così che la musica prende fuoco.

BITS-RECE: Niccolò Bossini, Kaleidos. Un’iride pop-rock

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Lo ha intitolato Kaleidos un po’ in omaggio a Poviglio, il paese in provincia di Reggio Emilia dove vive, e un po’ perché ha voluto metterci dentro un bell’impasto di colori. E in effetti il nuovo album di Niccolò Bossini ha le sembianze di una nuvola di polveri colorate, come quelle che ti si appiccicano addosso nelle color run, dove tutte le cromìe si mescolano tra loro in una grande festa dell’iride.

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A brillare più di tutto in Kaleidos è una forte vitalità, una sferzata di positività e di carica pitturata di un rock che strizza l’occhio all’elemento elettronico e non si dimentica di prendere per mano il caro vecchio pop.
Anzi, se non fosse un po’ troppo azzardato, si potrebbe dire che, avendo ben imparato e reinterpretato a suo modo la lezione dei Coldplay negli ultimi anni, di fatto Kaleidos è un album elettropop tendente al rock, perché le chitarre – ovviamente – ci sono e la loro figura la fanno alla grande.
Probabilmente non a caso per far conoscere il progetto al pubblico è stato usato come biglietto da visita La vita è adesso, una sorta di scatola musicale imbottita di dinamite pronta a saltare per aria apiena viene sfiorata. E di momenti così nel disco ne arrivano altri, alternati a ballate rockettare (si veda Piloti e supereroi, forse la prima vera ballad di Bossini).
Ma, come si diceva, oltre che per la musica il titolo Kaleidos rimanda anche all’omonimo centro polivalente di Poviglio, un punto di riferimento per il paese del reggiano, dove si concentra la vita dei suoi abitanti. È a quella realtà che Niccolò Bossini ha voluto rendere omaggio.