UNA VITA IN CAPSLOCK: la “Milano da botox” nel primo album di MYSS KETA

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Con quella mascherina e quegli occhiali da sole a coprirle costantemente il viso, la prima tentazione che si ha è scoprire chi si nasconda davvero dietro al personaggio di Myss Keta. Il punto però è che non importa.

Basta infatti fermarsi un attimo ad ascoltare i suoi brani per capire che chiunque abbia dato vita a quella creatura artistica (e stiamo parlando molto probabilmente di un team di cervelli più che dell’intuizione di un singolo) ha compiuto un’operazione che rasenta la genialità.
Per chi frequenta abitualmente le notti milanesi, il nome di MYSS KETA non sarà nuovo: il suo esordio è infatti datato 2013, quando nell’underground dei locali meneghini hanno iniziato a girare pezzi come Milano, sushi e coca o Burqa di Gucci.
Di quell’entità mascherata nessuno sapeva niente, ma tutti coglievano la malata lucidità che si nascondeva in quei testi, accompagnata da arrangiamenti tra elettronica e fidget house ipnotici e allucinogeni.
Il gioco ha iniziato a funzionare, ed ecco che dopo una prima raccolta (L’angelo dall’occhiale da sera: col cuore in gola) e l’EP Carpaccio ghiacciato, MYSS KETA ha fatto il grande salto con il primo album ufficiale, UNA VITA IN CAPSLOCK, pubblicato nientemenoche da Universal.
Un upgrade – come si direbbe nel lessico degli yuppies milanesi – che forse neanche lei si immaginava, e che porta il suo nome ben al di là della cerchia dei navigli.
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Ma quindi chi è MYSS KETA? O, meglio, che cos’è MYSS KETA?
Impossibile definirla, un po’ perché di definizioni esaustive non ce ne sono, un po’ perché lei stessa detesta essere ingabbiata sotto un’etichetta. Di se stessa dice di essere “una donna di spettacolo e uno spettacolo di donna”, ma è stata definita anche “icona pop”, “angelo dall’occhiale da sole”, “diva definitiva”, “Vergine, ma non troppo”, ovviamente “icona gay”.
Si è fatta notare con i suoi brani, ma l’impressione è che la musica sia solo una piccola parte di un fenomeno ben più ampio, che riunisce in un unico, amorevole abbraccio tutta la cultura di spettacolo nazional-popolare degli ultimi 30 anni: “dagli anni ’80 ad oggi non è cambiato niente, certe cose funzionano nello stesso modo dai tempi dei Romani. Semplicemente, gli scandali e le figure simbolo della Milano da bere sono standardizzati e sono diventati dei modelli che ancora oggi utilizziamo per parlare di certe tematiche”. Ecco allora che nei racconti di MYSS KETA spunta anche il Bar Basso, nota meta di appuntamento per designer ed esponenti della Milano che “gira bene”: qui dice di aver conosciuto Tea Falco, altra icona modernissima e dai contorni fluidi, protagonista del video di Botox. Insieme, assicura, sono “due matte”.

Disarmante sentirla parlare, perché con una dialettica studiatissima, KETA abbatte ogni tentativo di percepire la linea di confine tra realtà e finzione, verità e ironia, trash autentico e parodia, stereotipo e sincerità. Non sai mai quanto stia volutamente caricando la sua aura, quanto stia spingendo verso il trash o quanto ti stia bellamente prendendo per il culo.
Nei suoi brani, partoriti negli angoli di Milano, emerge il lato malato della metropoli, le sue manie compulsive, i suoi vizi incorreggibili: con l’aiuto dei suoi fidati angeli, le Ragazze di Porta Venezia, MYSS KETA raccoglie gli stimoli che la città le offre, li ingurgita e li risputa fuori, rendendo tutto inequivocabilmente “myssketiano”. Un’operazione nata non tanto da una qualche necessità di espressione, ma dalla semplice voglia di raccontare un certo mondo in un certo modo, permeato di ironia, “perché guardare il mondo con ironia non significa essere felici, ma voler esorcizzare il male che si ha dentro”.
Dall’ossessione per il botox, allo stress, alla droga, alla frantumazione dell’identità, MYSS KETA costruisce un labirinto di specchi in cui la sua voce ammiccante e narcotizzata si perde e fa perdere recitando celebri slogan pubblicitari o creandone di nuovi, avvicinandosi all’hip-hop senza mai entrarci del tutto.
I suoi riferimenti volano pindaricamente dalla politica (pare abbia flirtato con d’Alema in Costa Smeralda) al cinema (quello di Monica Vitti, Monica Bellucci, ma anche quello di Edwige Fenech, altra sua grande amica, così come Sophia Loren), passando per le estati in compagnia dell’Avvocato. Di se stessa racconta di essere stata la prima musa di Dalì e Warhol, ben prima di Amanda Lear (che naturalmente viene nominata nel disco), dice di essere apparsa al Drive In (ma non dice in che ruolo, altrimenti sarebbe riconoscibile), di aver vinto al Festivalbar nel ’95, di aver fatto la modella (siamo sempre a Milano, dopotutto), la velina, ma anche l’amministratrice delegata della Rovagnati (“Ho scelto di lavorare lì perché mi piacciono molto le loro feste di Natale, e poi adoro vedere le aiuole pubbliche con la pubblicità dell’azienda che ne finanzia il mantenimento”). Tra i suoi miti, il Gabibbo ed Enrico Ghezzi, mentre sogna Marzullo per un’intervista “strana”.
Un puzzle di finissima cultura pop in cui il trash convive con l’intellighenzia, costruito con un uso abilissimo dell’ironia e di un’urticante provocazione.
Mentre racconta la genesi dell’album, il rischio è di pensare soprattutto a non perdersi nessuno dei riferimenti che infila – più o meno velatamente – tra le parole ( come quando si lascia sfuggire un “in verità io vi dico…”), come in Una donna che conta, seconda traccia del disco, vera e propria e surreale sfilata di celebrità da riconoscere.
Proprio nulla viene lasciato al caso, nemmeno la foto della copertina, sotto la quale si cela un’esegesi stupefacente: “La scimmia rappresenta uno stato pre-umano, noi siamo la scimmietta, solo con qualcosa in più: nell’immagine io allatto il mio primate, è il razionale che allatta l’irrazionale. E quella che si vede nella foto è la scimmietta che ho a casa, solo che non posso sempre portarla con me perché spesso è impegnata a rilasciare interviste”.

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UNA VITA IN CAPSLOCK è una sorta di Commedia dantesca (“Alighieri, l’avete già sentito nominare? E’ uno scrittore bravissimo, ve lo consiglio”), un album interiore e scurissimo, che può trovare la luce ideale solo sotto i flash e i neon di un club: c’è la discesa agli inferi, l’affronto delle paure e dei demoni interiori da buttare fuori, ci sono visioni distopiche, ma alla fine c’è la salita al Paradiso, con After Amore. E non importa che si tratti di una visione paradisiaca temporanea o artificiale, sempre di Paradiso si tratta.
A dare “bellezza” all’album ci pensano le presenze angeliche, e assolutamente antitetiche rispetto a tutto il resto, di Birthh, con il suo canto etereo (nell’interlude di Inferno, ad esempio, omaggio all’elettronica di Valerio Tricoli) e Adele Nigro degli Any Other, che porta il suono di un sax malato: “sono come gli angioletti della Divina Commedia, per cui lavorare con loro è stato naturale”. 
Per le basi invece, accanto al sempre presente collettivo Motel Forlanini, brillano anche i nomi di Riva, Populous, Zeus! e H-24, producer dall’identità misteriosa.
Si torna così alla maschera nell’era dell’ossessione per la celebrità, KETA sceglie di non apparire, ovviamente consapevole che la maschera attira la curiosità, ma ancora di più convinta che la sua è solo una maschera  dichiarata, contro tutte quelle invisibili che ognuno di noi si porta dietro ogni giorno. Dietro a quegli occhiali, MYSS KETA può essere e dire quello che vuole.
Quindi davvero non importa sapere chi si nasconde lì sotto, perché il gioco di MYSS KETA è affascinante e divertente proprio per il suo assurdo mistero: non c’è nessun divismo da proteggere, nessuna intenzione di creare un patinato distacco dal pubblico, ma al massimo la volontà di dare al pubblico esattamente quello che vuole, lasciandogli la possibilità di metabolizzarlo come meglio crede.

E poi ricordatevelo, la realtà supera sempre la fantasia.

Il tour di presentazione del disco proseguirà con i seguenti appuntamenti:
30 aprile – Roma, Monk
4 maggio – Bologna, Locomotiv
5 maggio – Livorno, The Cage
26 maggio – Molfetta (Ba), Eremo Club

Elogio a The Fashionable Lampoon

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Chi si è già imbattuto tra le pagine web di BitsRebel sa che questo è un blog dedicato soprattutto alla musica, ma che ogni tanto lascia spazio anche ad altro, soprattutto se questo “altro” ha in sé un’indole ribelle, in uno dei mille modi in cui una cosa può essere ribelle.

Era da un po’ di tempo che mi frullava in testa l’idea di scrivere un pezzo su The Fashionable Lampoon, e volevo farlo adesso, a febbraio, perché febbraio è – insieme a settembre – il mese delle sfilate femminili, ovvero uno dei due mesi cruciali per l’editoria del fashion, e qui proprio di fashion si sta parlando. E poi perché a febbraio 2017 cade il secondo anniversario di Lampoon.

Ma cos’è The Fashionable Lampoon? Se ve lo state domandando significa che in questi due anni non lo avete mai letto e guardato, il che è un vero peccato, perché si tratta di una delle realtà editoriali più interessanti che siano emerse nell’ultimo periodo. Una realtà, per giunta, totalmente italiana, pensata e nata in Italia, ma con un occhio che sa guardare non solo oltre le Alpi, ma anche oltre l’Oceano.
Sarà forse per questo, o forse per il titolo, che spesso nelle edicole trovate Lampoon sistemato tra i magazine stranieri. Fatto sta che finalmente possiamo essere orgogliosi di avere una rivista di moda concepita in Italia e che non ha nulla da invidiare ai fighissimi magazine d’importazione.

L’avventura di The Fashionable Lampoon è iniziata nel febbraio 2015, quando – dopo una martellante campagna di manifesti disseminati per le strade – è stato pubblicato il primo numero. Dietro all’idea del progetto, come era spiegato molto bene nel primo edtoriale, vi erano le menti di Carlo Mazzoni, scrittore e direttore di L’Officiel Italia tra il 2012 e il 2014, e Roberta Ruiu, forse nota ai più come ex componente delle Lollipop, quelle di Down Down Down e Batte forte. Lui ha portato l’esperienza editoriale, lei l’occhio sveglio del pop. Tutto partiva da un’estate che stava volgendo al termine: in riva al mare, chiacchierando di amori naufragati, Carlo e Roberta hanno lanciato il seme di quello che pochi mesi dopo si sarebbe concretizzato in Lampoon.
La parola è stata presa in prestito da The Harvard Lampoon, giornalino a carattere satirico curato dagli studenti della celebre Università americana. È proprio con questo spirito è nato The Fashionable Lampoon, un magazine che avrebbe dovuto trattare la moda con leggerezza, quasi satiricamente, quasi sdrammatizzandola – attenzione, sdrammatizzandola, non ridicolizzandola -, togliendole quell’aura di serietà con cui spesso viene descritta e disegnata da giornalisti, esperti e stilisti stessi.

E così è stato. Come titolo del primo numero è stato scelto Snob & Pop, che poi è diventato il mantra delle uscite successive: quello cioè di affiancare e mescolare eleganza e raffinatezza con l’anima pop e glitterata dello stile. Chi avrebbe comprato il primo numero, ci avrebbe trovato in copertina l’incarnazione di questo messaggio, vale a dire la nobiltà di lunga tradizione della principessa Elisabeth con Thurn und Taxis e il pop modaiolo di Chiara Ferragni, la superblogger italiana che senza blasoni si è guadagnata la notorietà internazionale tra il popolo del fashion.
Sulle uscite successive sarebbero comparsi John Kortajarena insieme a Luca Argentero, Amanda Lear con Eva Riccobono, Baptiste Giabiconi con Emma Marrone, Isabella Ferrari con Valeria Mazza.
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Questo è Lampoon, un giornale che gioca sulle tendenze, mescola le carte, azzarda proposte. Un magazine a mosaico, frammentato nei contenuti ma anche concretamente, dal momento che le sue pagine sono stampate su differenti tipi di carta. Molto interessanti a questo proposito i dettagli delle stampe proposte di volta in volta da alcuni nomi della moda.
Testi brevi, in italiano e inglese, in cui i protagonisti vengono raccontati nell’essenziale e in modo vivo.
Un ruolo essenziale è naturalmente giocato anche dalle immagini, (bellissimi) servizi fotografici che vedono protagonisti personaggi della moda (ovviamente), ma anche dello spettacolo e dell’arte, e capita così di trovare in uno stesso numero – o in uno stesso servizio – leggende della danza, del teatro, del cinema, della televisione e della musica, in un caos solo apparente che dà vita a uno spettacolo di idee. Tanto per fare un esempio, cito il servizio firmato da Michael Avedon per la issue di settembre 2016, in cui comparivano Benedetta Barzini, Gillo Dorfles, Arrigo Cipriani, Franca Valeri, Franco Nero, Carla Fracci, Gianni Canova, Lina Solis Italo Rita, Nero, Bruna Vespa, alcuni sporcati di glitter. Questa è la leggerezza di Lampoon, il suo essere giocosamente ribelle per parlare di un mondo inarrivabile ai più, scomodando geni e tronisti, dive e veline. Cultura impegnata e cultura pop sottobraccio una dell’altra, bellezza e fashion presentati non con occhio staccato da maestri, ma complice.

Per la pubblicazione del secondo numero, a settembre 2015, sotto l’egida di Lampoon è anche stato messo sul mercato un brano musicale, Keep On Shining, realizzato dai Lampooners – ovvero le anime del magazine, tra cui Fiammetta Cicogna e Paolo Stella – insieme a Esther Oluloro, conosciuta in TV per la partecipazione a The Voice. Si parlava di splendere, dentro più che fuori, ognuno a modo a suo. Ecco, sfogliando le pagine di Lampoon, tra una ricercata e costosissima selezione di outifit, accessori, cosmetici e profumi, il messaggio che si coglie sembra proprio quello. Perché se la moda non è democratica la bellezza fortunatamente sì.

La parola d’ordine scelta per l’uscita di febbraio 2017 è Aristofunk, allo scopo di celebrare l’unica aristocrazia ancora ammissibile nel nostro tempo, quella del talento. E se non è democratico il talento……