ASPETTANDOSANREMO: Dopo il ballo, il soul. Quattro chiacchiere con… Leonardo Monteiro

La musica l’ha avuta in casa fin da bambino, visto che è figlio di due ballerini brasiliani, e a lungo l’ha coltivata nel canto e nel ballo. A soli 28 anni, Leonardo Monteiro vanta infatti un curriculum di tutto rispetto, con esperienze Italia e all’estero: tra queste, la formazione alla Scala di Milano, il lavoro con Gheorghe Iancu allo Sferisterio di Macerata, e nel 2008 partecipazione ad Amici, il talent di Maria De Filippi, dove occupava uno dei banchi della classe di ballo.
Dopo essersi aggiudicato la finale di Area Sanremo, tra pochi giorni lo ritroveremo sul palco dell’Ariston, in gara tra le Nuove proposte con Bianca, un pezzo dalla influenze soul che parla della fine di una storia d’amore per un tradimento. Autore della musica è Vladi Tosetto, che nel ’95 aveva messo le mani anche su Come saprei di Giorgia. 
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Perché la scelta di andare a Sanremo con Bianca?

Lo abbiamo scelto durante i provini, dopo aver ascoltato un po’ di proposte, e Bianca è sembrata la canzone più adatta. Ci tenevo molto a presentarmi con un brano che rappresentasse bene il mio mondo, e le atmosfere soul e gospel di Bianca rispecchiano le mie influenze.
Ti abbiamo conosciuto qualche anno fa ad Amici come ballerino, oggi ti ritroviamo come cantante: cos’è successo in questo periodo?
Ho sempre amato il canto, fin da quando studiavo danza alla Scala: cantavo e facevo il ballerino. Poi sono andato a studiare a New York, e mi sono reso conto che con la danza ero arrivato al massimo di ciò che potevo desiderare e ho iniziato a studiare canto seriamente, avvicinandomi al gospel. Quando sono tornato in Italia ho proseguito con lo studio della musica.
E sei anche arrivato ad insegnare…
Sì, per qualche anno ho insegnato canto alla scuola Cluster di Milano, gestita da Vicky Schaetzinger, che per anni è stata la pianista di Milva. Mi ha dato tantissimo, sia come donna che come insegnante: sono stato prima suo allievo, poi abbiamo suonato insieme tre ani all’Armani Bamboo Bar, dove lei mi accompagnava al pianoforte, e in seguito sono diventato insegnante della scuola. Avevo già insegnato danza, ma insegnare canto è diverso, ed è una soddisfazione vedere che quello che fai arriva agli allievi.
Oggi come vedi il tuo futuro, più vicino al canto o al ballo?
Sicuramente più vicino alla musica. Come dicevo prima, con il ballo ho ottenuto il massimo di quelle che potevano essere le mie ambizioni e le mie soddisfazioni: ho fatto esperienze bellissime, ho lavorato con il Complexion Contemporary Ballet, il Collective Body Dance Lab, ho fatto degli stage a Broadway, ma a un certo punto ho sentito che mi mancava avere davanti un pubblico che mi conoscesse, mi mancavano gli affetti di casa, e ho deciso di tornare.
A un’esperienza nel musical non pensi?
Sono sincero, i musical non mi entusiasmano molto, preferisco vederli da spettatore. Piuttosto, per unire musica e danza, penso a qualche esperienza con i videoclip.
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Quali sono gli artisti che ti hanno maggiormente influenzato?
Quando ero più giovane ho ascoltato molto Stevie Wonder, Giorgia, che ha segnato a lungo la mia vita, Michael Jackson.
Hai già un album in preparazione?
Ho scelto alcuni pezzi e sto registrando: il disco uscirà dopo Sanremo. Abbiamo scelto di mantenere la stessa impronta stilistica di Bianca, anche se non mi tirerò assolutamente indietro se ci sarà la possibilità di spaziare.
Pensando a Sanremo, come ti auguri di viverlo e cosa invece vorresti evitare?
Semplicemente, visto che si parla di un palco così importante, vorrei lasciare un bel ricordo, al di là di come andrò la gara, e possibilmente vorrei evitare di steccare!
 

BITS-CHAT: Sguazzare nei propri limiti. Quattro chiacchiere con… Francesco Gabbani

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27 novembre 2015
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È questa la data che ha dato inizio al periodo mirabilis di Francesco Gabbani. Quella sera infatti, durante lo speciale in diretta su Rai 1 la sua Amen si è guadagnata l’accesso tra le Nuove Proposte di Sanremo 2016 e soprattutto portava il suo nome davanti al grande pubblico.
Da lì in avanti è stato un susseguirsi di successi, impegni, concerti: la partecipazione al Festival e la vittoria, i primi dischi di platino, il ritorno a Sanremo nel 2017 con Occidentali’s Karma e la nuova vittoria, questa volta nella categoria principale, i cinque dischi di platino del singolo e le oltre 160 milioni di visualizzazioni del video, l’album Magellano certificato platino e il lungo tour estivo.
Tutto fino ad arrivare oggi alla riedizione dell’album, chiusura perfetta di un cerchio: Magellano torna infatti in vendita con un secondo disco registrato dal vivo durante i concerti di questa estate, con all’interno anche molti brani di Eternamente ora, l’album pubblicato lo scorso anno.
Gabbani mette così il punto finale a un folgorante capitolo di vita e di carriera.
Si chiude l’era “della scimmia” – che in realtà è stata anche molto, molto di più – tra note di filosofia e un’ironia non sempre compresa.

E se Gabbani vi dicesse che vi ha dedicato una canzone… beh, aspettate ad ascoltarla prima di farvene un vanto!
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Siamo arrivati alla conclusione di un ciclo?
Direi di sì. In questi due anni ho avuto tante soddisfazioni, ma adesso mi sento stanco, è stata una corsa continua. Proprio pochi giorni fa ho finito le riprese del video di La mia versione dei ricordi, che arriverà in radio il 24 novembre: l’abbiamo girato in montagna, sulle Dolomiti, dove c’erano 7 gradi sotto zero. Anche questa esperienza ha contribuito a provarmi un po’.
Qual è la soddisfazione più grande che ti sei tolto dal successo di Amen ad oggi?
Al di là dei messaggi poetici, devo dire che la soddisfazione più grande è stata essere riuscito a vivere di musica. Dopotutto, la vita è fatta di lavoro: solo così si guadagna un posto nella società, e io da quest’anno ho ottenuto l’indipendenza facendo quello che mi piace.
Un aspetto negativo in tutto quello che ti è successo riesci a trovarlo?
Il non poter stare per conto mio, tra me e me. È un prezzo che devi pagare con la notorietà, e ne ero consapevole.
Il CD live che accompagna la nuova edizione di Magellano si intitola Sudore, fiato e cuore, tre parole simbolo degli ultimi mesi?
Fanno parte del ritornello di Magellano, e descrivono bene lo stato d’animo che ha accompagnato il tour, e più in generale tutto il percorso che mi ha fatto arrivare qui: sudore, perché ce n’è stato tanto, fiato, perché è servita parecchia resistenza, e cuore, perché è stato tutto pieno di emozioni.
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È un successo che ti ha colto di sorpresa?
Sì, soprattutto perché un caso come il mio non si vedeva da parecchio in Italia: ho sempre creduto in quello che ho fatto, ma quando il pubblico mi ha conosciuto con Amen, a Sanremo, non avevo alle spalle una grande esposizione mediatica o televisiva, non faccio parte del mondo dei talent e non sono più giovanissimo. Era da diversi anni che non succedeva qualcosa di simile.
Dopo il successo di Occidentali’s Karma, all’Eurovision si è creata una pressione fortissima su di te, e in molti ti davano per favorito. Sei rimasto deluso per come è andata?
Proprio per come è andata sono sicuro di aver vissuto quell’esperienza con lo spirito giusto, e cioè non essendo per nulla convinto di poter vincere. A me il successo è arrivato quando nessuno ci avrebbe scommesso, per cui immaginavo che il destino avrebbe riservato la stessa sorte a qualcun altro, e così è stato. Al di là di tutto però, l’Eurovision ha permesso a Occidentali’s Karma di prendere un respiro internazionale, e sono molto contento dell’accoglienza che ho ricevuto. Inoltre, se avessi vinto non mi sarei potuto concentrare sul pubblico italiano.
C’è un mercato straniero in cui ti piacerebbe lasciare un segno?
D’istinto ti direi l’America, perché è un po’ la grande ambizione, ma so che è quasi impossibile. Non ci ho mai pensato molto, anche perché per poter lasciare davvero un segno all’estero serve l’inglese, ma io non lo padroneggio ancora abbastanza bene nella scrittura per poterne fare una licenza poetica.
Non temi un po’ di essere ricordato solo come “quello della scimmia”?
Per strada mi capita ancora di sentire “Gabbani, dove hai lasciato la scimmia?”, ma fortunatamente sono sempre meno, e ci sono invece quelli che apprezzano il fatto di aver citato Desmond Morris. Sapevo che poteva succedere, me ne prendo la responsabilità, e mi rendo anche conto che la presenza della scimmia è stato forse l’elemento che ha permesso alla canzone di restare più impressa. Devo anche dire che mi dispiace un po’ che Tra le granite e le granate non sia stata compresa da tutti fino in fondo, e che molti si siano fermati al divertimento del gioco di parole e delle sonorità orecchiabili. È una riflessione che ho fatto, e con cui però ho fatto pace, perché in fondo mi ha fatto capire che le mie canzoni hanno due tipi di pubblico: quello che le capisce e quello a cui sono dedicate.

Hai già nuovi pezzi pronti?
No, in questi mesi non sono riuscito a scrivere niente. Però sul telefono ho qualche centinaio di note vocali che mi sono registrato quando mi veniva in mente qualcosa da utilizzare in futuro.
Le celebrazioni degli ultimi successi si concluderanno il 20 gennaio al Mandela Forum di Firenze: cosa hai in mente?
Posso ancora dire poco su quello che succederà sul palco. Di sicuro però, so già che quel concerto rappresenterà una sorta di upgrade di quanto ho fatto sinora. Ci saranno più musicisti e porterò in scena una sorpresa a cui tengo molto, da tempo, e che finalmente si concretizzerà. Per me sarà anche l’esordio nei palazzetti, visto che sarà la prima volta che suonerò in una location simile.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Si prende una lunga pausa per pensare, poi mi guarda e scandendo le parole dichiara: La ribellione è il coraggio di rinunciare alla libertà dei propri limiti. Sì, lo so che detta così non vuole dire niente, ma adesso ti spiego. Normalmente ci viene detto che bisogna fare di tutto per superare i propri limiti, invece io credo che uno degli errori che si possano fare è diventare qualcosa che non si è, soprattutto perché ci sono dei limiti che non dipendono da noi, ci vengono imposti. La consapevolezza dei limiti non deve servire a infrangerli, ma deve spingerti a sguazzarci dentro, a tirare fuori il massimo da quello spazio in cui il tuo territorio è delimitato. Prendiamo la mia voce ad esempio: io so che oltre a una certa nota non posso andare, e se ci provassi sarei ridicolo, non ci riuscirei. Quello che devo fare è capire come sfruttarla al meglio per dare emozioni restando dentro ai miei limiti. Un po’ come la scimmia, che è stata il mio limite ma anche la mia libertà.

BITS-CHAT: La felicità grazie alle intemperie. Quattro chiacchiere con… Luca Gemma

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La ricerca della felicità è uno dei temi eterni nella storia degli uomini: da sempre la cerchiamo, ce la inventiamo, e quando ci sembra di averla trovata lei sparisce, rivelandosi un’illusione. E la ricerca riparte, instancabile.
Proprio sulla felicità Luca Gemma ha fatto ruotare il suo ultimo album, La felicita di tutti, perché non solo gli uomini, ma l’universo intero è continuamente mosso dal desiderio di afferrare quella chimera.
A cinquant’anni esatti dai grandi ideali di pace e amore professati dalla cultura hippie, il cantautore di Ivrea racconta in un album la sua concezione di felicità, tra rock, Beatles e inevitabili intemperie.
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Vorrei iniziare chiedendoti di parlare un po’ della scelta delle immagini sulla cover dell’album: si vedono persone, animali, personaggi di fantasia, frutti…

Un disco con un titolo al plurale aveva bisogno di molte immagini per celebrare la molteplicità e la diversità e le foto della fotografa GluLa erano perfette. Rappresentano simbolicamente quelli che vogliono essere felici e che trovi dentro le canzoni.
All’interno del disco si respira un’atmosfera un po’ “fricchettona”: a 50 anni esatti dalla nascita del movimento hippie, cosa è rimasto di quel periodo? Quegli ideali sono ancora proponibili nel mondo di oggi?
Il pacifismo, il rispetto dell’ambiente e la lotta alla disuguaglianza sociale sono nati con quella generazione di giovani che nel 1967 avevano 18, 20 anni. E’ un loro merito e lo slogan Peace And Love in un mondo fortemente dominato dal dio denaro avrebbe ancora il suo bel significato. Non si vede però una generazione disposta a rinunciare al proprio individualismo per una visione così altruistica del mondo. Sia chiaro, non lo è stata neanche la mia, che aveva 20 anni a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90.
L’unica cover del disco è un brano di Caetano Veloso, Cajuina: a cosa è dovuta la scelta? E perché il testo è stato tradotto in italiano?
Io scelgo le canzoni in modo istintivo. Di Cajuina mi piace la sua struttura circolare e ripetuta e mi ha sempre colpito il suono del testo originale in portoghese brasiliano. Oltre al fatto che è molto poetico. Da lì è partita la mia sfida a scrivere un testo che rispettasse più il suono che il significato, pur stando dentro quel mood. Senza le parole in italiano non l’avrei cantata.
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Qua e là non è difficile scorgere tra i brani riferimenti ai Beatles: cosa hanno rappresentato in particolare per te?
Io i Beatles li ho scoperti relativamente tardi. Da adolescente e da ragazzo il loro suono non mi piaceva. Preferivo nettamente l’hard rock, la musica black e i cantautori degli anni ’70. Poi mi sono appassionato al beat con dischi come Aftermath dei Rolling Stones e anche in quel caso preferivo loro ai Beatles. Finalmente un giorno ho preso coscienza dell’immensità che rappresentano per chiunque si avvicini al rock e alla forma canzone. La gioia che mi danno alcuni loro dischi è un misto di emozione e piacere estetico e intellettuale che non finisce mai.
Nel brano che chiude il disco, Futuro semplice, auguri ai tuoi figli di mantenere sempre uno sguardo incantato sul mondo, agendo in totale libertà: tu oggi, da padre e soprattutto da adulto, pensi di essere riuscito a seguire questi ideali? Quanto la vita ti ha portato a ridimensionare le tue aspettative?
Accorgersi della bellezza e non dare nulla per scontato è ciò che ti tiene vivo e io credo tutto sommato di riuscirci ancora, nonostante le intemperie. A volte è proprio grazie alle intemperie che te ne accorgi.
In definitiva, secondo te la felicità è un’utopia o è una meta che possiamo davvero raggiungere?
La felicità di tutti è certamente un’utopia in un mondo sempre più pieno di disuguaglianza, ma è giusto pensare e fare in modo che le cose cambino. Quella individuale è fatta di momenti e bisogna farsi trovare pronti. E ognuno ha il compito di trovare il modo che gli si addice di più.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Pensare con la propria testa in un mondo in cui le sollecitazioni sono così tante e continue da distrarti da ciò che pensi con la tua testa. Tenere a bada queste distrazioni e non esserne in balìa è una forma di ribellione perché vuol dire abdicare al ruolo di consumatore vorace di oggetti e sentimenti, ovvero quel ruolo che è stato assegnato a ciascuno di noi. Bisogna saper andare al nocciolo dei propri desideri.

BITS-CHAT: Un treno in viaggio tra l'Irlanda e la "solitaritudine". Quattro chiacchiere con… Emanuele Dabbono

Emanuele Dabbono - Totem3La storia dell’ultimo album di Emanuele Dabbono è iniziata nel 1997, esattamente vent’anni fa, e ha trovato la perfetta conclusione in soli tre giorni di registrazione in una chiesa sconsacrata di Arenzano, in Liguria.
È così che ha finalmente visto la luce Totem, un album nudo e acustico, dal forte sapore irish. Un fotografia nitida del suo autore, stampata idealmente su carta ruvida e artigianale.
In mezzo, tra il concepimento e la nascita del disco, tanti altri scatti: la morte del padre, un viaggio in Irlanda, la partecipazione alla prima edizione di X Factor, la paternità e da ultima la collaborazione con Tiziano Ferro, per il quale Dabbono ha firmato alcuni degli ultimi successi (tra gli altri, Incanto e Il conforto), come unico autore sotto contratto in esclusiva.
Dabbono, figlio del cantautorato americano e fedele al suo spirito indipendente e libero, non ha ceduto alle lusinghe di chi avrebbe voluto sporcare il progetto di Totem con l’elettronica per avvicinarlo al pubblico, ma lo lasciato così lo aveva immaginato sin dall’inizio, incontaminato, senza neanche un vero e proprio singolo da consegnare alle radio.
Perché tanto lui il suo successo lo ha già raggiunto, e ha trovato la sua dimensione ideale nella solitudine. Anzi, nella “solitaritudine“.
Perché Totem?
Nella cultura degli indiani d’America il totem è un simbolo sacro. Veniva messo all’ingresso dei villaggi e ogni disegno rappresentava qualcosa di importante per gli abitanti: la famiglia, gli affetti, i legami. Questo disco è il mio totem, perché dentro ci ho messo tutto quello che conta per me: ascoltarlo è un po’ come entrare nel mio villaggio, andateci piano, state maneggiando il mio cuore. È il disco che ho cercato a lungo, ma che ho anche tenuto nascosto.
È anche un disco che ha avuto una gestazione piuttosto lunga.
Il primo pezzo, Piano, è di vent’anni fa, anche se quasi non me ne rendo conto. Negli altri brani si sentono molto le influenze irlandesi perché per un periodo ho effettivamente vissuto in Irlanda dopo la morte di mio padre. Avevo bisogno di staccare da tutto, liberare la testa, e l’Irlanda mi è sembrato il posto adatto per questa sorta di “espiazione”: una volta arrivato, è successo che sono entrato in contatto con la musica di quei luoghi e anziché fermarmi una settimana sono rimasto qualche mese. La musica irlandese mi ha influenzato molto, sono entrato in sintonia con quell’ambiente, mi è piaciuto il contatto che si instaura con la gente girando per i locali. Tornato in Italia mi sentivo molto meglio, ma ho voluto tenere nascosta a lungo la consapevolezza che avevo acquisito, quasi come se fosse qualcosa di privato. È stato Tiziano (Ferro, ndr) a farmi capire che invece la mia forza stava proprio in quelle atmosfere, nelle tenerezza e nella dolcezza che riuscivo a tirar fuori con quella musica, non dovevo per forza fare rock. Da qui ho preso il coraggio per dar forma a questo album.
Questi suoni non sono esattamente quello che ci si aspetterebbe di sentire oggi da un cantautore…
Totem è un disco folle, e ne sono perfettamente consapevole: non c’è reggaeton, non c’è il featuring con qualche rapper, non c’è elettronica. Qualche major sarebbe anche stata disponibile a pubblicare il disco, ma avrei dovuto modificare un po’ il progetto, e non ho voluto. Quello che è venuto fuori è una fotografia nitidissima di me, in HD. Sono già contento che questo disco possa finalmente uscire: poterlo pubblicare è come ricevere il sesto disco di platino.
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A proposito di Piano, ho letto che è in qualche modo legata a John Denver.
L’ho scritta nel ’97, dopo la sua morte. L’idea però non era quella di fare un pezzo dedicato a lui, ma piuttosto riflettevo sul fatto che quelli che noi immaginiamo invincibili e destinati all’eternità se ne vanno. È stata una delle prime canzoni che ho scritto.
Gli altri pezzi quando sono nati?
Sono più recenti, dall’Irlanda in poi, diciamo dal 2006 ad oggi. L’ultima arrivata è Siberia, che ho scritto alcuni mesi fa. Anche in questo senso Totem è un disco fuori dalle regole: c’è un pezzo del ’97 e poi uno stacco di quasi dieci anni.

Che cos’è il “treno per il sud” che dà il titolo a un altro dei brani?
È un ritorno a casa, un ritorno indietro. Non so bene perché, ma il sud mi ha sempre dato l’idea di casa più del nord, forse perché il nord viene di solito associato a temperature fredde. Il viaggio per il sud mi dà anche l’idea di una discesa in profondità, un viaggio interiore.
Che valore ha il viaggio nella tua vita?
Il vero viaggio è nelle persone. Forse è un pensiero che altri hanno già espresso, ma sono pronto a confermarlo. Negli anni ho incontrato persone bellissime, spesso in maniera fortuita. Ti racconto un aneddoto: tempo fa ho trovato un sito web in cui si poteva ordinare un libro per bambini personalizzandolo in base al nome. Mia figlia si chiama Claudia, e per ogni lettera del suo nome gli autori hanno costruito la storia di una bambina che va alla ricerca di creature misteriose. Come dedica, hanno scritto: “Cara Claudia questo è un viaggio tra le meravigliose creature che incontrerai nella vita. Queste sono soltanto le prime”. Ecco, questa è una bellissima definizione di viaggio, un’esperienza tra le persone prima che tra i luoghi. Ovviamente, non trascuro nemmeno il viaggio vero, quello geografico, perché mio padre non ha avuto la possibilità di girare molto e io lo sto facendo anche per lui. Mi capita di sognare alcuni luoghi in cui non sono ancora stato, come l’Islanda o il Sud Africa.
La sensazione che si prova ascoltando questo disco è quella di un uomo in pace con se stesso. Cosa ti dà pace?
È difficile dire cosa mi dà davvero pace, dovrei pensarci un po’, però posso dirti cosa mi fa stare bene: riconoscermi negli altri, nella musica, nei film, nei libri. Hai presente quando hai la sensazione che qualcosa sia stato detto o cantato apposta per te? Quando ascolti una canzone e ti sembra che sia stata fatta solo pensando a te? Ecco, ho imparato che se a me quel momento procura un’emozione mentre non trasmette nulla a un’altra persona è perché in quel momento ci sono anch’io, sono parte anch’io di quell’emozione. E poi mi fa stare bene vedere il mondo: vorrei far imparare alle mie bambine a non aver paura, soprattutto in un momento delicato come quello che stiamo vivendo, con gli attentati all’ordine del giorno. Tutto è incontrollabile, crudele, ma il mondo è così bello che vale la pena rischiare. Pensiamo di avere sempre tempo per recuperare qualcosa che non abbiamo ancora fatto, ma non è così.
Secondo te il mondo di oggi lascia spazio alla gentilezza?
Se fosse una canzone, la gentilezza sarebbe sicuramente fuori dai primi duecento posti di iTunes. Però proprio perché è rara, quando la incontri brilla e la riconosci, ti migliora la giornata. Non è un fatto di educazione, ma è una scelta, un modo per entrare in empatia con gli altri senza giudicarli subito.
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Sulla copertina dell’album ti si vede da solo in un deserto e in Irene canti “sarà la solitudine a riportarci tutti a casa”. Che rapporto hai con la solitudine?
Nella lingua italiana la parola solitudine rimanda a qualcosa di negativo, di cupo, fa pensare a una persona ripiegata su se stessa. Io vorrei coniare un termine nuovo e preferisco parlare di “solitaritudine”, che invece è una figata! Sono un Capricorno, e ogni tanto ho bisogno dei miei momenti solitari, in cui sembra che non stia facendo niente. Un po’ come chi si isola per fumare è impegnato e si sta prendendo un piccolo spazio per sé. Io le mie sigarette invisibili me le fumo scrivendo o leggendo, o quando vado nel mio studio a lavorare, quasi come un artigiano. Sono da solo con le cose che amo: non sto lavorando, sto “privilegiando”, per usare il verbo in un significato nuovo. Questa è la “solitaritudine”. Ci riporta tutti a casa perché ci fa incontrare con noi stessi ed è l’unica occasione in cui possiamo fermarci a pensare a cosa abbiamo sbagliato e come avremmo potuto fare meglio.
Definisci Totem “una fotografia in HD di te stesso”: quindi i dischi precedenti non erano a fuoco?
Ho sempre messo tantissimo di me in tutto quello che ho fatto, ma non sempre il risultato era a fuoco, perché non sempre sono riuscito a tirar fuori il meglio. Non penso dipendesse da me o dalle scelte musicali che ho fatto, ma semplicemente dovevo capire qual era il mio modo migliore di esprimermi. Come dicevo prima, è stato Tiziano a farmi capire che per emozionare non dovevo per forza strafare o sfoderare tutte le ottave della mia ugola: il culto dell’acuto è tipicamente italiano, ma l’emozione arriva anche se canti a mezza voce. È una consapevolezza a cui sono arrivato dopo molto tempo.

Con Tiziano Ferro la collaborazione continuerà?
Non posso dire molto. Ho da poco rinnovato il mio contratto con lui per altri tre anni e stiamo lavorando a tanti bei progetti.
Di solito concludo le interviste chiedendo di darmi una definizione di ribellione, ma a questa domanda avevi già risposto in un’intervista precedente. Ti chiedo allora di scegliere una di queste parole e di spiegarmi che significato ha per te: ambizione, resistenza, silenzio, indipendenza, successo.
Vorrei darti la mia definizione di successo, che non ha niente a che vedere i numeri, i riconoscimenti o il consenso. Questa è una forma moderna di successo, ma per me il successo è la realizzazione di un’idea, piccola o grande. Il successo è la felicità che ti arriva da quel risultato. È il sogno di diventare padre, ritrovarti tra le mani tua figlia appena nata e pensare “questo è un incanto”. Poi prendere il telefono e trasformare quel momento in una canzone, Incanto, appunto. Il successo è la chiusura di un cerchio, e in questo senso nella mia vita non ho avuto sempre il successo che speravo: ho commesso errori, ho iniziato cose che non ho portato a termine, come l’Università, però credo che quando riesci a concludere la parabola del cerchio puoi anche trovare il consenso degli altri, ed è lì che la mia idea di successo si incontra con l’altra, quando non hai nessun tipo di smania. Ma prima di tutto, è qualcosa che devi fare per te, perché troverai sempre chi non sarà d’accordo o non saprà apprezzare. E se non sai parare il colpo è dura, la sensibilità è un’arma a triplo taglio.

BITS-CHAT: Un Capodanno speciale. Quattro chiacchiere con… i Landlord

unnamed (1)Il calendario segna i primi giorni di primavera, e i Landlord festeggiano Capodanno.
Ma state tranquilli, loro non sono impazziti e voi non avete perso il conto dei giorni. Semplicemente, New a Year’s Eve è il titolo del loro ultimo singolo, uscito da poco a conclusione di un anno di musica a dir poco intenso iniziato con la fortunata Get By.
Chiusa l’esperienza di X Factor nel 2015, i ragazzi di Rimini si sono infatti messi al lavoro sui loro brani, che hanno visto la luce nel 2016 in Aside e Beside, due EP pubblicati a pochi mesi di distanza, e poi riuniti nel vinile Be A Side, in cui hanno fatto vedere tutte le facce del loro pop elettronico sporcato di influenze ambient e persino sinfoniche.
Nel frattempo, l’attività live si è fatta sempre più rovente e l’agenda della band si è infittita di impegni, non solo in Italia, dal momento che per loro si sono aperte anche le porte del colossale Sziget Festival di Budapest.
E mentre un nuovo tour estivo si profila all’orizzonte, noi abbiamo fatto quattro chiacchiere con loro per annodare i fili di questi ultimi mesi.
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New Year’s Eve
sembra il perfetto punto di incontro tra un capitolo che si chiude è una nuovo inizio. Che bilancio potete fare dell’ultimo anno? Soddisfazioni, delusioni, sorprese…

Proprio così, il brano rappresenta esattamente questo, e ha per noi un valore particolare. Sicuramente è stato un anno molto positivo, ricco di soddisfazioni, di tante novità e di molta attività. Abbiamo avuto tante sorprese, fatto tante date live, anche all’estero, abbiamo aperto i concerti di gruppi importanti e che consideravamo irraggiungibili e vissuto esperienze davvero importanti.
Pensate che la scelta di pubblicare un doppio EP anziché un intero album vi abbia giovato? Potrebbe sia una buona strategia per far arrivare meglio la musica al pubblico?
Non lo sappiamo questo, ci siamo interrogati a lungo riguardo la pubblicazione, ma poi abbiamo deciso di procedere con i due diversi EP, per mostrare al pubblico una sorta di evoluzione che noi stessi avevamo vissuto. Tutti i brani sono stati scritti nello stesso periodo, però alcuni procedevano in una direzione più elettronica e sperimentale rispetto ad altri e così abbiamo voluto fissare questo cambiamento.
Il vostro tour vi ha portato a lungo in giro per l’Italia e anche all’estero: c’è stata una platea che vi ha particolarmente stupito o un concerto che vi ha lasciato un ricordo più forte?
Due concerti sono stati incredibili: il nostro primo concerto al Velvet di Rimini e la data al Magnolia, in apertura a Edward Sharpe e ai Daughter. Un’atmosfera unica. Abbiamo trovato un pubblico molto entusiasta, molto partecipe e caloroso e per di più a fine serata abbiamo scambiato quattro chiacchiere con i Daughter. Un momento magico, qualcosa di indelebile.
Le vostre principali influenze musicali da dove arrivano?
Ascoltiamo veramente di tutto, ognuno ha i propri ascolti e poi alla fine mettiamo tutto insieme, cerchiamo di delineare una nostra strada senza essere troppo schiavi delle influenze. Siamo comunque dei grandi fan di Justin Vernon, e del suo progetto bon iver.
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A distanza di un po’ di tempo, pensate che la partecipazione a X Factor vi abbia insegnato qualcosa?
L’esperienza di X Factor ci ha insegnato tanto. Ci ha formato parecchio; ha rappresentato una sorta di corso accelerato sotto tutti i punti di vista. Ci è servito molto perché abbiamo assunto un atteggiamento di curiosità, di osservazione. Abbiamo cercato di rubare un po’ degli insegnamenti che abbiamo ricevuto ed è per questo che definiamo sempre il programma come una grande scuola, una palestra.
Perché pensate che i talent siano ancora visti spesso come una macchina di illusioni?
Il meccanismo dei talent certamente non è semplice. Un programma televisivo fa sempre molta gola, attira su di se molta curiosità, però noi abbiamo cercato di rimanere sempre con i piedi ben saldati a terra. Siamo profondamente convinti della necessità di fare esperienza, di calcare palchi, e questo ci ha permesso di rimanere molto lucidi durante la trasmissione. Avevamo le idee molto chiare riguardo la nostra strada e quindi siamo andati in quella direzione, ascoltando certamente consigli e aiuti di chi ne sa più di noi, però sempre puntando a quello che ci piace davvero.
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Guardando al futuro, avere già qualche idea di nuove strade musicali da seguire?
Stiamo vivendo un periodo di sperimentazioni, stiamo lavorando di continuo e non sappiamo ancora bene neanche noi cosa succederà, però ce la stiamo mettendo tutta!

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato date al concetto di ribellione?
Associamo il concetto di ribellione all’essere autentici. Tutta la nostra musica si fonda sulla sincerità, sull’autenticità e sulle emozioni che ci guidano continuamene nella scrittura. Per questo siamo molto legati al concetto di essere veri, se stessi, e a volte questo atteggiamento può rappresentare una vera e propria ribellione.

BITS-CHAT: Un frontale con l'amore. Quattro chiacchiere con… Roberta Giallo

Se dovesse scegliere un’ambientazione per il suo nuovo lavoro, Roberta Giallo sceglierebbe un Medioevo post-atomico, oscuro, con una sola piccola luce come guida. Non ha caso, il titolo dell’album è L’oscurità di Guillaume.
Ma non lasciatevi ingannare: nessun riferimento all’anarchico svizzero James Guillaume. Al centro dei brani c’è una storia d’amore, vissuta però non con curve e luce con cui di solito si racconta questo sentimento, quanto piuttosto passando attraverso spigoli e buio.

Un disco che è anche la porta per entrare in un vero e proprio mondo di musica e immagini, in cui Roberta, artista bolognese molto più che cantautrice, si è ritagliata spazi perfettamente su misura, senza confini di generi e con un ringraziamento molto speciale da fare.
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Vorrei partire chiedendoti qualcosa sul titolo dell’album, che mi ha incuriosito molto.

L’Oscurità Di Guillaume è un titolo oscuro e misterioso, proprio come la storia che racconta. Protagonisti di questa strana storia, che tra l’altro ho vissuto anni fa, siamo io e Guillaume, un ragazzo francese che ho incontrato un giorno a Bologna e con cui è partita un’intensa e singolare corrispondenza via web, che si è poi evoluta in un amore dal finale inaspettato e, ahimè, non lieto.
Musicalmente il disco è molto variegato, con spunti ricercati: come ci hai lavorato? 
Sono partita dall’essenziale. La mia voce e il pianoforte, per rispettare al massimo la genesi delle canzoni, tutte ispirate, tutte intime, nate nella mia camera, nel “piccolo”. Mauro Malavasi, noto arrangiatore che ha fatto la storia della musica italiana, ha prodotto l’album e con gli arrangiamenti ha voluto abbracciare questa filosofia dell’essenziale, del non superfluo, del ricercato appunto. Per lui la storia da raccontare e le canzoni erano già importanti e dense, bisognava vestirle con rispetto, estrema cura e parsimonia di elementi, solo così accade la magia.
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Tema centrale dell’album è l’amore, dipinto però con tonalità un po’ tormentate. Prima dicevi di esserti ispirata a un’esperienza personale: oggi nell’amore ci credi ancora?
E’ una storia personalissima che, vinta la timidezza, ho deciso di racchiudere in un disco, come una specie di scrigno-libro, con anche nascosti alcuni segreti, che forse un giorno svelerò. Un disco nato probabilmente dal dolore e dalle lacrime, che hanno trovato il modo di germogliare.
Cosa ha rappresentato nella tua vita Lucio Dalla?
L’incontro artistico più folgorante e fortunato che abbia mai fatto! Una specie di anno Zero nella mia vita. E’ l’artista al quale mi sento in assoluto più vicino, un po’ per affinità elettiva, un po’ per simpatia. Lucio è Lucio, inimitabile, irripetibile, un mago che gioca con tutti i colori: è folle, serio, leggero, irriverente, un alchimista.Da lui ho imparato che potevo dare sfogo alla mia anima cangiante con naturalezza, e senza curarmi troppo degli altri. Quando seppi che voleva conoscermi, e mi disse che voleva entrare nel progetto e coinvolgermi in alcuni progetti suoi, non potevo crederci e, soprattutto, non potevo non dedicargli questo album! Grazie Lucio per tutto quello che mi hai regalato e che siamo riusciti a realizzare insieme!
2. Roberta Giallo_foto di Mattia Pace
Ci sono altri artisti che ti hanno particolarmente influenzata?
Non saprei. E dico non saprei, perché tutto ciò che per me è bello probabilmente mi influenza.  E fare un elenco è impossibile. Posso citarne alcuni, oltre a Lucio naturalmente: Beatles, Edith Piaf, Battiato…
Interessante anche la tua immagine e il tuo look: a cosa ti ispiri?
Non lo so, alle forme della natura e ai fumetti. A volte mi scambiano per un cartoon giapponese o per Betty Boop! 
Oltre che cantautrice, sei performer teatrale, pittrice e scrittrice. C’è un ambito artistico che ti incuriosisce e che non hai ancora esplorato?
Il cinema. Vedremo…
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concerto di ribellione?
La ribellione è la profonda consapevolezza di te stesso che ti porta a trovare il modo più giusto per combattere ciò che non ti va, ma con i tuoi mezzi, con le tue misure, con la tua testa! Diventare se stessi in un mondo che ci vuole omologati e spersonalizzati, è la più grande forma di ribellione, per me, oggi.

BITS-CHAT: Sbaglio, quindi vivo. Quattro chiacchiere con… Ketty Passa

Parlare di musica urban in Italia significa un po’ addentrarsi in quella selva oscura che di solito prende il nome di indie, dove hip-hop, soul e R&B hanno la possibilità di incontrarsi e prendersi per mano, magari in mezzo a qualche distorsione.

Se si resta sulla superficie delle classifiche, molto difficilmente vi capiterà di trovare un artista urban nostrano. Cosa diversa se si va Oltreoceano, dove questa cultura gode di basi molto più consolidate, e regine del mainstream come Rihanna e Beyoncé possono tranquillamente passare da uno stile all’altro finendo sempre ai piani alti delle chart.

Chi sta provando ad aprirsi un varco in questa direzione qui in Italia è Ketty Passa.
Musicista, DJ, conduttrice radiofonica e recentemente anche responsabile della selezione musicale per il programma Rai Nemo – Nessuno escluso, dopo un primo album nel 2013 insieme ai Toxic Tuna, ha deciso di giocare il tutto per tutto e grazie al successo di una campagna di Music Raiser ha potuto dare alle stampe Era ora, il suo primo album solista, realizzato sotto la guida preziosa di Max Zanotti e Marco Zangirolami. Quello che ne è venuto fuori è una sintesi di attitudine urban e melodia pop, il tutto orgogliosamente in italiano.
Ma attenzione, qui di “sole, cuore e amore” non ne troverete neanche l’eco.
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Era ora
. Quanto lavoro ti è costato arrivare a questo disco?

Il titolo lo lascia intendere. Questo album per me è un punto di partenza: sono nel settore musicale da tempo, ma è la prima volta che metto completamente la mia faccia in un progetto. Ho ottenuto quello che volevo, ma che fatica! Sono una che ha sempre fatto tutto da sola, non ho mai avuto spinte, e per arrivare a questo traguardo sono riuscita a trovare tutta l’energia necessaria. Segno che ci tenevo davvero.
Cosa ci hai messo dentro?
Tutte le mie facce artistiche. Mi muovo nel pop, ma con un sacco di sfaccettature. Ho voluto marcare soprattutto su quella “zarra” e su quella romantica, perché sono quelle che mi caratterizzano di più. Soprattutto quando ero ragazzina, tendevo ad avere un atteggiamento un po’ polemico e poco seduto su ciò che mi veniva detto, e anche adesso sono così. La matrice sonora di tutti i brani comune è l’urban, un genere più melodico dell’hip-hop, ma con suoni duri che si avvicinano al rock, con le chitarre distorte ad esempio. Qui in Italia è poco praticato, ma in America è considerato mainstream: gli ultimi album di Rihanna e Beyoncé sono così, perché il pop là è vissuto con maggiore intraprendenza. Senza che sia una colpa, noi dobbiamo vedercela con una lingua più complessa e con una cultura melodica che non lascia arrivare questo tipo di impulsi. Ho accettato la sfida: ho superato i trent’anni, penso che sia arrivato il momento di fare quello che mi piace, altrimenti mi sarei fatta confezionare un prodotto più standard già alcuni anni fa.
Durante la lavorazione del disco mi parlavi della difficoltà di mettere insieme l’urban con l’italiano: ora che il lavoro è finito che bilancio puoi fare?
Forse inizialmente ho dovuto trovare un nuovo modo di scrivere, diverso da quelli canonici e da quelli che io stessa ho usato in precedenza. Ho volutamente evitato parole come “stelle”, “mare”, o espressioni come “ti penso”, “mi manchi”, che magari risultano più famigliari a chi ascolta, ma non si sposano con questo genere. Inoltre, ho imparato a scrivere come parlo, come succede nell’inglese, e ho usato termini come “wow”, “show”, “bon ton”, che restano in testa. Un po’ quello che ha fatto Gabbani, mescolando le lingue attraverso gli stilemi.
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Se ti guardi in giro, riesci a individuare una scena urban in Italia?
Non esiste. C’è chi lo fa come me, cioè mischiandolo ad altri generi, ma manca una vera cultura urban. Dovendo pensare ad altri artisti, mi vengono in mente Luana Corino o Marianne Mirage, anche se forse lei è un po’ più vicina al pop, ma usa quei loop di parole che piacciono anche a me e che in America si ritrovano nei pezzi di M.I.A. o Gwen Stefani. Qui in Italia è una strada nuova, e mi rendo conto che oltre alla difficoltà di non avere una base, c’è anche il problema di fidelizzare un pubblico: dove potrei presentare i miei brani? In apertura di un live di un altro artista, ma chi? Forse Cosmo o Levante. Il mio obiettivo sarebbe avere un album fatto tutto di pezzi come Sogna ed essere davvero la prima artista che si crea un percorso urban in Italia: per ora, ho messo dentro anche una buona dose di pop.
“Mi fa paura il buco nero della mia generazione” canti in Caterina. Di cosa soffre la tua generazione?
Quando parlo della mia generazione intendo quella nata negli anni ’80, quella che ha avuto il cellulare più tardi e che è abituata a pensare con un’altra testa rispetto a chi è nato dopo. Già chi è nato nell’87 ha una mente diversa. Il buco nero sta nel fatto che ad un certo punto ci siamo trovati davanti a un cambiamento enorme, che si allontanava da tutto ciò su cui avevamo messo le basi. Faccio parte di una generazione che ha ancora un piede nella cultura degli anni precedenti, che ci porta a scavare nelle cose, a usare profondità di pensiero, ma allo stesso tempo pensiamo sempre di dover cercare tutto e non ci accorgiamo di averlo sotto mano. Basta pensare alla musica: io i dischi ero abituata ad andare a comprarli nel negozio, non a scaricarli da casa. La tesi triennale l’ho fatta nel 2005 consultando i libri in biblioteca, quella del Master l’ho fatta in digitale. La tecnologia ci ha spiazzato, ci siamo un po’ persi. Di certo a me non verrebbe in mente di fare quello che fa gente come Sofia Viscardi su Youtube, pur avendo lo stesso carattere: è proprio una struttura mentale diversa, ed è una cosa di cui a volte un po’ soffro.
Ketty Passa_cover ERA ORA
Voglio di più invece gira attorno al dilemma tra assecondare l’ambizione e accontentarsi: tu a che punto sei?
Non lo so, quel pezzo è un grande punto di domanda. Forse sono più vicina all’accontentarmi, perché dopo i 30 anni è normale sia così. Ho capito che crescere ci indebolisce, non ci fortifica: fino ai 25 anni ci si sente invincibili, poi la parabola inizia a scendere e appena ti abitui a una condizione te ne piomba addosso un’altra. Di indole comunque, voglio sempre di più, ma non parlo di beni materiali, parlo di crescita.
Il sole tramonta mi sembra uno dei pezzi più personali dell’album, è corretto?
Sì, parlo della scomparsa di una delle mie nonne, anche se nella descrizione che faccio ho unito immagini di entrambe. Ho origini meridionali, ma sono cresciuta in Brianza, e il legame che avevo con le nonne era fortissimo, perché potevo vederle raramente. L’aneddoto della canzone riguarda mia nonna Concetta, quella di cui porto il nome: ho avuto la possibilità di vederla andar via, e l’ultima cosa che mi ha detto è stata di continuare a cantare. All’epoca stavo facendo un disco con un’altra band e non avevo ancora chiari certi punti della mia carriera, lei mi ha dato la spinta a far diventare il canto una priorità. Sembrerà paradossale, ma vederla morire è stata un’esperienza incredibile, perché mi ha fatto capire il senso delle cose e ho accettato che accadesse, come quando il sole tramonta. Scompare, ma tu sai che c’è ancora, da un’altra parte. Il sorriso buffo e le mani rugosissime appartenevano invece all’altra nonna, che è morta un po’ prima.
In Ho dato tutto chiedi di “portarti a sbagliare”: cosa vuol dire per te sbagliare?
Sbagliare vuol dire vivere. Voglio continuare a sbagliare per sentirmi umana, fino a quando non mi verranno istinti criminali. Sono molto autocritica, e quel pezzo è una sorta di esorcismo, perché guardandomi intorno non ho trovato poi così tanti fenomeni e ho capito che posso perdonarmi un po’.
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Di solito chiudo le interviste chiedendo di darmi una definizione di ribellione, ma a questa domanda avevi già risposto (qui il link). Quindi ti chiedo di scegliere una di queste parole e di dirmi cosa significa per te: amore, rancore, resistenza, bellezza, silenzio.
Scelgo il silenzio, perché non sono mai riuscita a utilizzarlo. Ho l’abitudine di parlare tanto, e senza volerlo mi sono spesso boicottata: è un po’ come nella musica, sono le pause a fare la differenza. Non serve dire sempre quello che si pensa, tu ti senti sincero, ma agli occhi degli altri rischi di passare per rompipalle. Ho imparato a non dare sempre la mia opinione, anche sui social: non scrivo sempre, sono forse l’unica a non aver parlato delle palme in piazza Duomo a Milano. A cosa serve? Da quando ho imparato a farlo mi annoio anche a leggere le opinioni di tutti su ogni minima cosa. Silenzio sarà la mia parole del 2017.

BITS-CHAT: Con il vento in faccia. Quattro chiacchiere con… Fabrizio Moro

A vederlo non si direbbe, e a sentirlo cantare con quel suo timbro viscerale neppure, ma Fabrizio Moro è piuttosto timido e, per sua stessa ammissione, piuttosto chiuso. Andare in tintoria, al ristorante o fare un’intervista con un gruppo di giornalisti era per lui più difficile di quanto possa sembrare.
Poi, negli ultimi anni, qualcosa è cambiato: complice anche la nascita della seconda figlia, Fabrizio ha iniziato a guardare all’esterno in maniera diversa, più libera, più pacifica.

Non è un caso che proprio Pace sia il titolo del suo nuovo album, che arriva a circa un mese dalla partecipazione a Sanremo con Portami via. Un disco in cui per la prima volta ha affidato la produzione ad altri e che prima di tutto è il frutto di un lavoro e di una ricerca interiori, un vero e proprio percorso verso l’equilibrio e la serenità, fatto di tappe tormentate, ma anche di ritorni all’infanzia.
Fino a rendersi conto che essere in pace con il mondo può voler dire semplicemente avere la possibilità di prendersi il vento in faccia nel traffico di Roma.
FABRIZIO MORO_credito fotografico di Fabrizio Cestari 5 b
Da quello che si sente nei nuovi brani, questo sembra essere l’album dei grandi cambiamenti: è così?

Questo è sicuramente il disco più egocentrico che ho fatto. Ho lavorato molto su me stesso durante la fase della pre-produzione. In questi due anni mi sono successe tante cose, tra cui la nuova paternità. Mi sono guardato indietro e per la prima volta dai tempi del primo album mi sono reso conto di aver costruito un’eredità forte. Tutto questo mi ha dato serenità. Ho iniziato a vivere in modo diverso la quotidianità, semplicemente andando in tintoria, accompagnando i figli a scuola, andando al ristorante, ho fatto cose che prima delegavo agli altri, perché sono sempre stato chiuso, avevo un rapporto difficile con l’esterno, e so che la pace che ho trovato adesso è una condizione passeggera, perché il mio carattere competitivo e battagliero mi porta ad avere sempre una meta da aggiungere.
È corretto vedere nell’album un percorso che dal tormento arriva alla quiete?
Quando ho ascoltato l’album dall’inizio alla fine mi sono reso conto che questo è un disco terapeutico, ma l’ho capito solo alla fine, dopo aver messo in ordine la scaletta dei brani già finiti, perché quando sei in fase di registrazione intorno c’è troppa frenesia e non senti nulla, ecco perché è stata importantissima la prima fase. Il disco si apre in minore e chiude in maggiore, e di certo non è stato un caso. Poi c’è una parola che torna spesso, e che all’inizio mi dava quasi fastidio, senza accorgermene, ed è paura. Scavando dentro di me, inizialmente avevo timore, non sapevo cosa avrei trovato, non sapevo quali prove mi attendevano, ma poi sono arrivate le conferme. Potrei quasi definire Pace un concept album.
copertina album Pace_Fabrizio Moro_b
La paternità ti ha fatto rivivere un po’ di infanzia?
Sì, soprattutto con mio figlio, il più grande. Mi somiglia molto caratterialmente e in lui ho ritrovato me bambino, anche solo accompagnandolo in un negozio di giocattoli. Jeeg Robot e Mazinga sono le prime persone con cui mi sono confrontato, ancora prima dei coetanei. Poi crescendo non ho mai trovato una stabilità sentimentale, e fin da quando avevo 15 anni sentivo di voler essere padre di una donna: per questo sento un legame particolare con mia figlia, ancora prima che nascesse, la idealizzo come la donna della mia vita. Portami via è infatti dedicata a lei.

A Sanremo com’è andata?
Direi al contrario di come pensavo: mi aspettavo una posizione più alta in classifica, ma un minore riscontro sul lungo termine, invece Portami via è arrivato al disco d’oro in due settimane. Tra l’altro, ho cantato piuttosto male: fin dalla prima serata avevo un groppo in gola che non sono riuscito a mandare via. Quest’anno ho sofferto il palco in maniera particolare, avevo una grande ansia da prestazione, che poi è sempre stato un mio limite che mi ha anche tenuto lontano dai riflettori. Aspettavo conferme da me stesso e sentivo che anche altri le aspettavano, e non mi sentivo completamente lucido, temevo di perdere quello che avevo costruito. Alla fine, è andata meglio così.
Amici ti ha aiutato nel rapporto con l’esterno?
Anche quella è stata un’esperienza terapeutica, mi ha aiutato ad aprirmi: solo qualche anno fa non sarei riuscito ad affrontare un’intervista con dieci giornalisti. Maria De Filippi mi chiamava da un paio d’anni, ma avevo sempre paura di confrontarmi con le critiche e con quel riflettore così grande, che fa risaltare ogni cosa che fai. Oggi ce la faccio. Sono fatto così, faccio quello che posso in un quel momento e il resto lo lascio al destino.
Pace fa rima con libertà?
Alcuni anni fa ho lavorato a una trasmissione della Rai, Sbarre, che era girata nel teatro del carcere di Rebibbia, proprio vicino a San Basilio, il quartiere in cui sono cresciuto. Sono andato lì ogni giorno, dalla mattina alla sera, per circa un mese, e ho parlato tanto con i detenuti della mia età, ma anche più piccoli, molti con condanne pesanti. Quando tornavo a casa, salivo in macchina o sul motorino, abbassavo il finestrino e prendevo tutta l’aria in faccia, perché mi rendevo conto della fortuna che avevo a poter vivere quella libertà, anche in mezzo al traffico di Roma. Un po’ come chi è in ospedale e apprezza la salute appena esce. La pace non è solo avere tranquillità economica, ma anche riuscire a percepire l’importanza dei gesti più piccoli, una sigaretta all’aria aperta, una bottiglia di vino con un amico, un giro alle giostre con tua figlia.
Il duetto con Bianca Guaccero come è nato?
Inizialmente il disco doveva avere dieci canzoni, questa è l’undicesima. Bianca mi ha chiamato tempo fa per chiedermi un pezzo per un suo film in uscita. Quando poi l’ho sentito cantato da lei, sono rimasto stupito, non sapevo che cantasse, e che cantasse così bene! Allora le ho proposto il duetto.
Come ti trovi in veste di autore per altri artisti?
Ho scritto sempre per me stesso, raccontando di me, anche in un pezzo come Sono solo parole, che ho regalato a Noemi. C’è stato un momento in cui non riuscivo a trovare un compromesso con le case discografiche e con con chi mi gravitava attorno, ma visto che mi arrivavano diverse richieste dai colleghi ho pensato di sfruttare l’occasione e usare i proventi SIAE dei miei brani per aprire un’etichetta, La Fattoria del Moro. L’unica volta che ho scritto pensando a un altro interprete è stato per Fiorella Mannoia, nei due pezzi che ho scritto per il suo ultimo album.
FABRIZIO MORO_credito fotografico di Fabrizio Cestari 3 b (1)Negli anni i tuoi ascolti sono cambiati?
No, alla fine ascolto sempre le stesse cose: rock internazionale, U2, Oasis, Coldplay, e poi tanto metal, gli Slayer, gli Anthrax, impensabile se poi senti quello faccio nei miei album.
Sui social come ti trovi?
Ultimamente mi lascio andare un po’ di più e ho imparato a divertirmi. Twitter però non riesco a usarlo: ho bisogno di spazio per esprimere un pensiero.
Per i live hai già pensato a qualcosa?
Durante gli ultimi due tour ho avuto dei momenti di noia, perché sono stati molto simili, non abbiamo mai toccato gli arrangiamenti. Per il nuovo tour invece riparto completamente da zero e da qualche mese stiamo lavorando alla scaletta. L’anteprima sarà al Fabrique di Milano il 20 aprile, poi farò un po’ di promozione, e riprenderò da Roma con due date il 26 e il 27 maggio al Palalottomatica, per poi girare in una ventina di città.

BITS-CHAT: "Dove sono le grandi canzoni?" Quattro chiacchiere con… i Decibel

“Questa musica non contiene groove di batteria preconfezionati e strumenti virtuali.”
È scritto proprio così nella pagina dei crediti dell’album. Un monito come quello – oggi sempre di più frequente – delle confezioni di alimenti per avvertire della possibile presenza di glutine, olio di palma o frutta con guscio.

Per i Decibel l’equivalente dell’olio di palma è l’omologazione, l’appiattimento, il luogo comune, tutti termini attorno ai quali girerà gran parte di questa intervista, rilasciata in occasione dell’uscita di Noblesse Oblige, il loro terzo album.

Il nucleo del gruppo nacque esattamente quarant’anni fa tra i banchi del liceo Berchet di Milano e si fece portatore del punk e della new wave in Italia. Nei pochi anni di attività, anche una partecipazione a Sanremo, con Contessa, sufficiente a lasciare traccia nel grande pubblico.
Dopo un lungo periodo di attività separate, lo scorso anno Enrico Ruggeri, Silvio Capeccia e Fulvio Muzio si sono ritrovati a Londra e lì ha preso corpo l’idea di far risorgere il gruppo. Niente nostalgia però, solo musica, con lo stesso orgoglio di essere una band di nicchia.
Ecco allora il nuovo album: 11 inediti e due cover nell’edizione standard e un’edizione limitata e numerata con altri tre brani, vinili e memorabilia vari.
Perché il rock di oggi è come la musica classica, parola di Ruggeri.

Decibel_55B3584_foto di Riccardo Ambrosio
A distanza di quarant’anni, che ambiente musicale vi ritrovate intorno?

Enrico: Non vorrei dire lo stesso, ma quasi. Quarant’anni fa, quando i Decibel pubblicavano l’album Punk, gli Homo Sapiens vincevano Sanremo con Bella da morire. Due anni dopo i Decibel andavano a Sanremo con Contessa e si trovavano di fianco Toto Cutugno, Pupo e i Collage. Erano i tempi dei capelli cotonati, le camicie con lo sbuffo, le voci in  falsetto, e noi eravamo come marziani. Prendevamo ispirazione dai viaggi a Londra, ogni volta tornavamo con una giacca diversa, un paio di occhiali, i capelli ossigenati: era facile fare i diversi. A noi oggi tornare sembrava più difficile, con Internet tutto viaggia velocissimo, ma l’impressione è la stessa di allora. Se accendi la radio senti sempre lo stesso pezzo, i groove, i pad. Siamo ancora mosche bianche, e questo ci riempie di orgoglio.
Come è maturata l’idea di tornare alla musica?
Silvio: In questi anni non ci siamo mai persi di vista, anche perché l’esperienza della band non si è chiusa per nostra volontà, ma per cause tra discografici. Ultimamente abbiamo suonato spesso insieme in eventi privati e poi ci siamo trovati a Londra in occasione delle celebrazioni per i quarant’anni di Kimono My House degli Sparks  e abbiamo pensato a qualcosa di più di qualche singolo concerto.
E: Quest’anno poi io festeggio 60 anni, sono 40 anni dal primo album dei Decibel, 30 da Quello che le donne non dicono e Si può dare di più. Tante ricorrenze che valeva la pena festeggiare. Di sicuro, sapevo che volevo evitare come la peste il disco di duetti, poi ho pensato ai Decibel: Silvio e Fulvio mi hanno passato dei pezzi e abbiamo iniziato a lavorarci, ma nell’ottica di fare qualcosa per pochi intimi. Un giorno li ho fatti sentire in macchina ad Andrea Rosi, presidente della Sony, ma prima di tutto amico: al terzo pezzo ha stoppato e ha detto “Nicchia un cazzo! Se non andate avanti vi ammazzo!”. Da lì tutto ha preso contorni sempre più grandi.
S: Nessuna idea di fare un’operazione discografica comunque, altrimenti avremmo potuto ripiegare su un album di cover.
Fulvio: Alla base di tutto, c’è un’identità di gusti e di intenti che abbiamo ritrovato intatta.
Ritrovarvi in studio insieme com’è stato?
F: Molto divertente, perché non avevamo l’ansia dell’operazione commerciale, mentre oggi fare un giro negli studi di registrazione vuol dire spesso assistere a una veglia funebre.
E: In studio abbiamo suonato davvero, senza computer.
Le nuove tracce sono nate nell’ultimo periodo o avevate cose già pronte?
F: C’erano già nuclei di ispirazione originaria, parti di brani precedenti che abbiamo ripreso e amalgamato. Molti dei nuovi pezzi sono nati proprio da fusioni di strofe e ritornelli di canzoni diverse, come si faceva una volta del resto, e ci sono tracce arrivate di recente, come Triste storia di un cantante.
S: Il fatto però che canzoni mie si amalgamassero bene con quelle di Fulvio non era per nulla scontato ed è sintomo di  quell’unità di gusti di cui si parlava prima.
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My My Generation ha un riferimento piuttosto chiaro al brano degli Who. Loro cantavano la voglia di esprimersi, voi come vedete la vostra generazione?
E: Gli Who parlavano della loro generazione, quella di cinquant’anni fa, che non aveva riferimenti a cinquant’anni prima. Noi oggi facciamo rock come si faceva in quel periodo, con la differenza che oggi il rock è la nuova musica classica, un genere di nicchia, ma sono in pochi ad ascoltarlo. Ed è per questo che fin dall’inizio ho chiesto a Sony di trattare questo album come un progetto di musica classica a tutti gli effetti: ecco allora la limited edition, il tour nei teatri a prezzi alti. In questo rientra anche il titolo dell’album.
Premesso che avete voluto evitare l’album di duetti, non c’era nessun ospite che avreste voluto avere nel disco?
E: Volendo sognare, ti direi Elvis Costello, John Cale o Jean-Jacques Burnel.
S: In un tuo disco ha suonato Andy Mackay dei Roxy Music, vero?
E:
 Ecco, potrebbe essere un’idea per il futuro… Tra gli italiani, l’unico che avrebbe avuto motivi artistici per entrare nell’album sarebbe stato Faust’O (pseudonimo di Fausto Rossi, ndr). Soprattutto sotto Natale i cantanti passano il tempo a visitarsi in studio uno con l’altro, magari detestandosi, e nei loro pezzi si sente una disperata ricerca di attenzione da parte delle radio e del pubblico.

Non si salva nemmeno la scena indipendente?
E: Non siamo informatissimi, ma l’impressione generale è che in giro manchino le grandi canzoni. Lou Reed ha fatto anche album pieni di rumore, ma prima aveva scritto Perfect Day. Se chiedevi a Picasso di disegnarti una Madonna, la faceva bellissima, poi ha inventato il Cubismo. Si può anche scegliere di fare i matti, gli indie, ma prima bisogna dimostrare di saper scrivere belle canzoni.
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C’è stato un momento o un fattore che ha portato all’appiattimento della musica di oggi?
E: La crisi discografica. Negli anni ’80 c’era più pazienza, le case discografiche ti mettevano sotto contratto per cinque album e tu avevi il tempo di crescere. Se guardiamo i grandi, quelli venuti fuori quarant’anni fa, è tutta gente che non ha sfondato al primo album. Oggi non sarebbe possibile, serve arrivare al successo subito. Il Fabrizio De Andrè del 2021 esiste, ma ha già smesso di suonare perché Linus non gli passava il pezzo in radio. Gli artisti capaci di scrivere le grandi canzoni ci sono, ma quelle canzoni non andrebbero in radio. In tutto questo, i talent non sono che una conseguenza, un patto scellerato tra le case discografiche e la televisione, ma tra Battiato, De Gregori, Vasco Rossi, Dalla, Paolo Conte quanti vincerebbero un talent? Forse Gianni Morandi.
Quindi è cambiato il gusto del pubblico?
S: E’ un loop: alla gente piace un genere perché può ascoltare solo quello. Noi vogliamo portare qualcosa di nuovo. Forse siamo più all’avanguardia oggi di quanto non lo fossimo quarant’anni fa.
Viviamo davvero nella società dell’apparire?
E: Ne parliamo in molte canzoni dell’album, da La bella e la bestia a Fashion. Oggi la gente crede di poter decidere, ma non ha capito che ormai viviamo sotto la dittatura delle televisione. Tutto è indotto dall’esterno, anche nella politica. Lo dicevamo già in Lavaggio del cervello, un brano che ha precorso i tempi, proprio come in Superstar parlavamo del rapporto malato tra l’artista e i fan pochi anni prima che Chapman uccidesse Lennon.
Oggi c’è qualcuno con le potenzialità di essere aggiunto all’elenco dei grandi nomi che fate in My My Generation?
S: Se avessimo potuto aggiungere una strofa avremmo inserito altri nomi, ma sempre di quel periodo e di quelle latitudini.
E: Oggi mancano i grandi progetti, le grandi linee musicali: una volta mettevi su una canzone e capivi subito di chi era, oggi è impossibile. Forse oggi solo i Red Hot Chili Peppers hanno ancora questa capacità di distinguersi, soprattutto per il basso.
Quel cervello sulla copertina che significato ha?
E: E’ un appello…
S: Eravamo incerti se mettere il cervello o l’orecchio, e abbiamo optato per entrambi, due cose che oggi mancano. E poi ci sono rimandi ad altri altre band, come i Kraftwek.
E: L’idea è un po’ anche quella di incuriosire chi in un futuro lontano, fatto di umanità bionica, guarderà il disco e davanti a un cranio sezionato scoprirà che dentro c’era spazio per un cervello.
Per il tour cosa avete preparato?
S: Semplicemente saliamo sul palco e suoniamo, con strumenti veri. Niente maxi-schermi, niente effetti speciali, niente esplosioni. Ovviamente senza computer, neanche nascosti, ed è raro, lo ribadiamo.
E: Anche nell’indie. E io non volerò sul pubblico!

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato date al concetto di ribellione?
F: Nel nostro lavoro è la scelta di aver fatto una musica diversa, senza l’uso delle tecnologia e senza aver chiamato i soliti produttori.
E: Il nemico di oggi è il luogo comune: non ci vedrete spaccare le vetrine, quello lo fanno i giovani, noi ci ribelliamo in un altro modo.
Ma davvero il luogo comune un tempo non era così imperante come oggi?
E: Almeno ce n’erano tanti! Quando eravamo ragazzi noi in giro c’erano i fricchettoni, quelli che ascoltavano gli Inti-Illimani, chi ascoltava il rock, e poi la musica era molto più connotata politicamente.
F: Le forme di conformismo appartenevano ai genitori, oggi è tutto molto omologato.
Queste le prossime date confermate del tour: 17 marzo a Castelleone – Cr (Teatro del Viale); 18 marzo a Pomezia – Rm (Club Duepuntozero); 25 marzo a Perugia (Teatro Morlacchi); 28 marzo a Torino (Club Le Roi); 29 marzo a Asti (Teatro Palco 19); 8 aprile a Genova (Teatro della Tosse); 10 aprile a Milano (Teatro della Luna); 26 aprile a Bologna (Teatro Il Celebrazioni); 18 maggio a Bergamo (Teatro Creberg); 19 maggio a Nova Gorica (Casinò Perla).

BITS-CHAT: Un nodo tra passato e futuro. Quattro chiacchiere con… Paolo Vallesi

Era il 1992 quando Paolo Vallesi presentò a Sanremo quello che sarebbe diventato il brano più importante della sua carriera, La forza della vita. Da allora, di anni e di musica ne sono passati tanti, abbastanza per fare il punto sul passato annodandolo al futuro con un filo robusto, Un filo senza fine, come il titolo del nuovo lavoro del cantautore fiorentino.
Un album non di soli inediti, ma anche di alcuni importanti ricordi rivisitati in chiave sinfonica o elettronica, come La forza della vita e Le persone inutili.
In apertura del disco c’è inoltre Pace, il bellissimo duetto con Amara che era stato presentato per Sanremo ma che ne è rimasto escluso, salvo essere poi stato voluto da Conti sul palco del Festival durante la serata finale per il suo messaggio.
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Partiamo dal titolo: che cos’è questo Filo senza fine?

Ha un doppio significato. È il titolo di una canzone dell’album, con un significato che tra un attimo ti spiego, e poi è il titolo che ho voluto dare al disco perché rappresenta il mio rapporto con la musica. Un filo che non si è mai spezzato: non importa che lo faccia per tante o poche persone, il rapporto che ho da sempre e resterà per sempre, e in questo disco ho voluto legare il passato, il presente e nuovi suoni elettronici che potrebbero rappresentare il mio futuro.
A proposito del brano invece?
Ho voluto metterlo subito dopo Pace perché sono un po’ le due facce della stessa medaglia. Nella canzone parlo della non violenza. Mi sono immaginato una persona che abbia iniziato a srotolare una matassa per arrivare a trovare l’origine, scoprire che ha dato inizio alla violenza che vediamo oggi intorno a noi. L’uso delle armi autorizza l’uso di altre armi, in un circolo che sempre a crescere. È una critica verso le armi e la violenza usate come soluzione ai problemi. L’accoglienza e il dialogo sono le uniche vere soluzioni.
Un album di inediti e canzoni del passato rivisitate: un nodo tra passato e futuro quindi?
Ho voluto fissare qualche punto. Quest’anno La forza della vita festeggia 25 anni, e la SIAE l’ha riconosciuta come un evergreen della musica italiana. È stata l’occasione per riprendere alcuni brani su cui non avevo mai lavorato, dal momento che erano dei successi e come tali non avevo mai pensato di toccarli e non avrei nemmeno saputo come rifarli: ho approfittato del fatto di avere a disposizione un’orchestra sinfonica per rivestirli completamente.
paolo-vallesi
Oggi, dopo 25 anni dalla pubblicazione, La forza della vita ha un significato diverso per te?
Oggi di sicuro non la riscriverei così, perché ogni canzone è figlia del suo tempo, e se qualche volta ho commesso un errore è stato proprio perché ho cercato di rifare qualcosa. Quando mi arrivano proposte di nuovi brani, spesso noto che sono dei cloni di cose che ho già fatto, invece ogni canzone dovrebbe avere una storia a sé. La forza della vita è attuale ancora oggi, il suo vero valore forse sta anche in quello: ricevo ancora tanti apprezzamenti, molta gente mi ringrazia dicendomi che questo brano è stato utile durante momenti difficili, e questa è la cosa di cui vado più orgoglioso. Per un cantautore non ci può essere soddisfazione più grande.
E per te c’è un cantautore di riferimento?
Fossati. Proprio per questo ho voluto omaggiarlo con Una notte in Italia, che è il suo brano che più di tutti gli altri mi ha fatto sognare.
Tra i momenti più intimi dell’album c’è I miei silenzi, che è anche un altro degli inediti.
Forse è il brano che più sento mio. L’ho scritto in solitudine. Oggi mi trovo a vivere la condizione di padre e figlio, e vedo come l’amore possa essere facilmente esternabile da una parte e difficilmente dall’altra, anche se ha la stessa forza in entrambe le direzioni. I silenzi hanno a volte un valore molto grande, perché nascondono tutto quello che non sappiamo manifestare.
Prendo spunto da Il mio amore, liberamente ispirato al Cantico delle creature, per chiederti che rapporto hai con la spiritualità.
Sono molto legato alla dimensione spirituale, pur non essendo in cattolico molto praticante. Chi fa questo lavoro è costretto a indagare molto dentro di sé, alla ricerca di risposte che spesso non esistono. Cerco di trarre insegnamento da tutto quello che vedo. Questo brano non l’ho scritto io, mi è arrivato con una musica completamente diversa, ma con un testo meraviglioso, e ho voluto lavorarci sopra. L’autore, Enrico Rialti, non è un musicista, ma un biologo che lavora all’Università di Bologna: ha scritto il testo quasi per gioco, senza pensare che sarebbe davvero finito in un disco. Io l’ho solo un po’ adattato e l’ho preso in prestito da lui, che a sua volta si è fatto ispirare da qualcuno di più grande.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Ribellione è libertà, e la libertà è il modo più bello di esternare la propria vita, senza alcuna costrizione. Non intendo la ribellione come un elemento sovversivo, ma come qualcosa che, andando contro, ti fa arrivare a una maggiore consapevolezza di te e di ciò che sta attorno.