Non basta Vasco Rossi (e Gaetano Curreri).
Non basta l'(ennesimo) inno all’indipendenza e all’emancipazione.
Non basta Emma.
Non basta e basta.
“La montagna ha partorito un topolino”, racconta un’antica favola, e così è successo per la strombazzata collaborazione tra Emma e Vasco: una collaborazione che ha preso la forma e le note di Io sono bella, singolo con cui l’artista pugliese ha annunciato il grande ritorno sulle scene (già annunciata anche l’uscita di un nuovo album nei prossimi mesi).
In passato, quando Vasco ha scelto di collaborare – come autore – con qualche collega, lo ha sempre fatto misurando le sue mosse e trovando un giusto compromesso tra la sua scrittura e l’identità dell’interprete.
Con le donne poi è stato capace di una sensibilità sopraffina, che ha dato vita a meraviglie e sorprese: con Paola Turci ha valorizzato un’indole fiera (Una sgommata e via); in Patty Pravo ha saputo cogliere la poesia e la malinconia (… E dimmi che non vuoi morire), l’aura algida e sofisticata (Una donna da sognare), ma anche la vena più giocosa (La luna); per Irene Grandi ha privilegiato l’irriverenza sbarazzina (La tua ragazza sempre); da Laura Pausini è riuscito a prendere un po’ di autentica grinta (Benedetta Passione); con l’interpretazione di Noemi ha saputo mettere in evidenza i dettagli sbavati della vita (Vuoto a perdere).
Un equilibrio sempre perfetto, un’ispirazione sempre a fuoco messa al servizio altrui, senza risultare ingombrante.
Poi arriva questa Io sono bella, che inizia subito con “Fammi godere adesso”, e la memoria corre dritta dritta all’ormai leggendario “La la la la la la la… fammi godere” di Rewind. A cantare è Emma, ma quello che salta fuori dalla canzone è soprattutto lui, Vasco. Prendete per esempio il ritornello: chiudete gli occhi e immaginatelo cantato in concerto dal Kom. La scena si fa da sé.
Tutto il resto è un rincorrersi di “già sentito”, tra rivendicazioni di orgoglio, autostima e volontà di piacersi e piacere all’istante, senza pensare al dopo, sesso senza amore. Come direbbe la Miranda del Diavolo veste Prada, “avanguardia pura!”.
Pensieri e concetti di cui francamente non si sentiva la mancanza: Emma a quello che canta sembra credere davvero, e buon per lei, ma se la collaborazione con Vasco doveva essere il suo ritorno scintillante… beh, la miccia non si è accesa come avrebbe dovuto.
La base pestatissima di rock ed elettronica, prodotta da Dardust su musica scritta da Curreri, Gerardo Pulli e Piero Romitelli, funziona anche molto bene, ed è questo problema: Io sono bella non è una brutta canzone, è una canzone potenzialmente rovente come la rosa della copertina, ma che si spegne in un testo qualunque.
Che è molto peggio, perché di una brutta canzone magari ci si ricorda.
Giorgia torna fan per Pop Heart. Dopo averci pensato per anni, il 16 novembre l’artista romana pubblica infatti il suo primo album di cover, con una tracklist dettata dalle scelte dell’istinto e del cuore: “Non ho voluto seguire un genere particolare e non c’è un ordine di tempo. Per me essere pop significa prima di tutto essere parte di un universo condiviso, e queste canzoni sono ormai tutte nella memoria della gente. Sono canzoni conosciute da tutti e sono quelle con cui sono cresciuta io: le ho scelte da ascoltatrice, mettendo al primo posto la voce, l’interpretazione. Ne avevo proposte più di 100, poi man mano la lista si è sfoltita. Da tempo nei miei live inserisco anche qualche cover, ma per questo album ho voluto eseguire anche pezzi che magari il pubblico non si aspetta da me”. E in effetti tra i 15 pezzi che vanno a comporre Pop Heart si spazia molto: da Jovanotti a Zucchero a Vasco Rossi, e poi Tiziano Ferro, Carmen Consoli, Mango, gli Eurythmics, Madonna e l’immancabile Whitney Houston: “Di tutto il suo repertorio ho scelto proprioI Will Always Love You perché è uno dei suoi pezzi più conosciuti. Forse non è il suo brano che amo di più, ma è il manifesto della sua carriera, tutti lo conoscono. Mi ricordo quando lo ascoltavo con il lettore CD portatile e l’ho amato così tanto che ancora oggi potrei riconoscere le diverse esibizioni live solo ascoltando le variazioni che Whitney fa sulle note. E’ un brano molto difficile, che mi ha dato un po’ di problemi: sono andata in ansia, mi sudavano le mani, non riuscivo più a cantarlo, e intanto il mio produttore, Michele Canova, era lì che aspettava. Poi ho fatto pace con la responsabilità, e l’ho cantato. Ho cercato di rispettare il più possibile la melodia e alla fine prendo fiato in un punto in cui lei non lo prendeva, ma pazienza, lei è Whitney Houston”.
La tracklist dell’album comprende classici italiani e internazionali degli anni ’70 e ’80 e successi più recenti, saltando quasi del tutto gli anni ’90: “In quel periodo lavoravo molto, ero già passata ‘dall’altra parte’, il mio ascolto era contaminato dall’attenzione per gli arrangiamenti, mentre negli anni ’80 ero semplicemente un’ascoltatrice”. Per ogni brano c’è un aneddoto o un ricordo: “Donna Summer è stata molto trasgressiva per l’epoca e so che quando è venuta in Italia ha avuto parole bellissime per me. La mia versione diI Feel Love è stata curata da Benny Benassi, che ho scoperto essere un mio ammiratore. Con Zucchero l’approccio è stato particolare, perché non ha neanche voluto sentire la cover, mi ha scritto solo un messaggio in cui mi ha detto ‘mi fido’. Per una come me, educata a scuola dalle suore,Dune mosse rappresentava un manifesto molto libertino con i suoi ‘grembi nudi lambi’, e poi ci ha suonato Miles Davis, non potevo non rifarla”. Tra i successi degli ultimi anni, oltre al singoloLe tasche piene di sassi (“Lorenzo ha scritto un pezzo personale, ma quelle parole esprimono un dolore universale”), ci sono Il conforto, Gli ostacoli del cuore e L’essenziale: “Più di una volta io e Tiziano siamo andati vicini a fare un duetto, ma non ci siamo mai riusciti: quando l’ho contattato e gli ho proposto Il conforto, lui era dall’altra parte del mondo ma ha accettato subito. La versione con Carmen era già bellissima, noi l’abbiamo rivisitata in chiave black, con sonorità che piacciono a entrambi. Per Gli ostacoli del cuore è stato matematico coinvolgere Elisa, che ha fatto la parte di Ligabue: mi piace molto che le nostre due voci si confondano e non si capisca chi tra le due sta cantando. L’essenziale è una canzone che avrei voluto scrivere io, e fin dalla prima volta che l’ho sentita a Sanremo ho capito che avrebbe vinto. E’ una canzone che mi fa pensare che nella vita non c’è matematica, la vita non ti avvisa quando le cose stanno per succedere, e per questo è importante capire quali sono le cose davvero essenziali. Con Marco c’è poi un rapporto speciale, perché lui ha più volte dichiarato di essere cresciuto ascoltando me, ma la distanza tra il fan e l’artista si è completamente azzerata già da quando abbiamo collaborato insieme a Come neve. Abbiamo due voci simili, molto alte, e quando gli ho comunicato che avevo ricantato L’essenziale gli ho detto che il risultato era ‘io che sembro te, che sembri me, che sembro te’. Ci abbiamo scherzato su, e lui mi ha risposto ‘sì, io sembro te, ma con molto più collagene’. Che simpatico!”.
La lista degli esclusivi è inevitabilmente lunga, e fra questi c’è James Taylor, che forse in molti si sarebbero aspettati di trovare (“Avevamo già cantato insieme a Sanremo l’anno scorso, e poi in questo disco ho voluto mettere cose che il pubblico non si aspettava”), ma anche Laura Pausini è rimasta fuori (“Avevo provato in Assenza di te, ma non mi veniva bene, non mi convinceva”).
Con le cover Giorgia ha imparato a familiarizzare fin dall’inizio della sua carriera, quando il padre le ha fatto conoscere i grandi interpreti della black music con le canzoni registrate sulle musicassette (è noto che il nome della cantante è stato ispirato da Georgia On My Mind di Ray Charles) e l’ha introdotta nel mondo del piano bar: “In casa potevo ascoltare solo artisti neri, vivevo un razzismo la contrario. Tra i bianchi ascoltavo solo Tom Jones, perché mio padre pensava che fosse nero”, scherza Giorgia. Con il tempo il suo repertorio si è fatto via via sempre più eclettico e tra le sue interpretazioni sono entrati pezzi di Jimi Hendrix, Diane Reeves, Etta James, “e facevo anche una discutibile versione di Foxy Lady. Quando studiavo canto avrei voluto provare a cimentarmi nella lirica, ma il mio maestro mi ha detto che non avevo il ‘fisico’ adatto e una cassa toracica abbastanza grande (scherzando con le mani indica un seno prosperoso, ndr), così ci siamo concentrati sul pop. Per molti anni ho cantato mantenendo un’impostazione rigida, di cui a un certo punto mi sono liberata, arrivando forse all’eccesso opposto. Oggi riesco a mediare: ho capito che non è tanto importante l’intonazione, ma la respirazione, perché è attraverso il respiro che passano le emozioni. La mente incide molto sulla voce: se si canta pensando troppo si canta male. Quello che deve arrivare al pubblico non ha un nome. L’allenamento è comunque importante, soprattutto quando devi fare un concerto, e anche se sono allenata più di concerti a settimana non riesco a farli. Ormai c’ho ‘na certa…“.
Guardando attentamente la copertina di Pop Heart, con quel cuore realizzato dall’artista romano Marco Bettini in un gioco grafico-semantico tra “art” e “heart”, si nota l’indicazione di un promettente “Vol. 1”: “Se il disco andrà bene, nessuno mi impedisce di fare un Volume due. Magari un Black Heart o un Classic Heart, spaziando tra i generi”.
Mentre per il tour c’è ancora tempo, perché partirà ad aprile (ma le prevendite sono già aperte), il 23 novembre Giorgia sarà protagonista di un evento benefico a favore dei bambini con disabilità organizzato dall’Associazione “Per Milano” in collaborazione con la Caritas Ambrosiana e che si svolgerà all’interno del Duomo di Milano: “Penso sia la prima la volta che il pop entra in Duomo, e finchè non sarò davvero lì non ci credo davvero. Sarò accompagnata dalla Roma Sinfonietta e il maestro Valeriano Chiaravalle si sta occupando degli arrangiamenti dei brani, che per l’occasione avranno una veste più sinfonica. Ci saranno E poi, Di sole e d’azzurro, Come saprei, Gocce di memoria, Credo, ma anche brani dal nuovo album come Le tasche piene di sassi, Anima. Interpreterò anche l’Ave Maria di Schubert, che sto studiando nella versione di Andrea Bocelli, e penso che farò anche (You Make Me Feel Like) A Natural Woman“.
Quello che Laura Pausini ha pensato per chiudere il Fatti sentire Worldwide Tour è una sorpresa che probabilmente in pochi si sarebbero aspettati.
Per la tappa conclusiva del 31 ottobre infatti, Laura sarà al Palalottomatica di Roma per uno speciale concerto che avrà per tema Halloween. Oltre due ore e mezza tra geyser, fontane luminose, coriandoli e streamers con scenografie pensate apposta per l’occasione e atmosfere suggestive.
A conclusione del tour, sabato 3 e domenica 4 novembre a al PalaSele di Eboli verranno recuperati i due concerti sold out rimandati a fine settembre.
Lo aveva lasciato intuire già a marzo, quando ha presentato alla stampa Fatti sentire, dichiarando che era da sempre un suo sogno, ma che non aveva mai avuto l’occasione di realizzarlo: Laura Pausini ha cantato a Cuba. Ospite del concerto dei Gente de Zona, la “Laurona” nazionale è salita sul palco della Ciudad Deportiva fasciata in abito Versace davanti a una folla di 250 mila persone e ha cantato La Soledad, versione spagnola de La Solitudine, e insieme al duo cubano si è scatenata sulle note di Nadie ha dicho, versione remixata e in spagnolo di Non è detto.
“Questo è un viaggio corto, ma ci tenevo a farlo con voi per farvi entrare per un giorno nella mia vita, fatta di voli in aereo anche tre volte al giorno”. Laura Pausini accoglie così gli oltre 100 giornalisti imbarcati sul volo Alitalia AZ 2045, partito nella mattinata di giovedì 15 marzo dall’aeroporto milanese di Linate con destinazione Fiumicino. Meta finale il Circo Massimo, location scelta non certo a caso, visto che l’anteprima del tour mondiale si svolgerà proprio lì il 21 e 22 luglio. Durante il tragitto in aereo Laura si è comportata da vera responsabile di cabina, leggendo gli annunci e servendo le bevande, ma soprattutto ha parlato per la prima volta di Fatti sentire, il suo tredicesimo disco in studio in italiano in uscita il 16 marzo. Un disco che arriva in un momento inaspettato: “La casa discografica si aspettava di uscire verso fine anno o addirittura l’anno prossimo, ma io i brani li avevo già pronti. Non è stato facile convincerli ad uscire adesso, ma sono contenta che alla fine mi abbiano appoggiato, anche nella scelta di comparire di spalle sulla copertina del singolo”.
Dentro al nuovo album c’è la Pausini che conosciamo, ma anche quella che non ti aspetti: non per niente questo è l’album più vario che ha fatto in 25 anni di carriera. Lei non ha dubbi: Fatti sentire fa un passo in più in là rispetto a Simili, sotto ogni punto di vista. Musicalmente un lavoro molto eterogeneo, il nuovo album vede anche la presenza di numerosi autori, molti già all’opera con Laura da diversi anni (si veda alle voci Niccolò Agliardi e Virginio), altri acquisiti di recente (Enrico Nigiotti, Tony Majello). Si passa dalla ballad, territorio in cui Laura è abituata a muoversi e che l’ha portata molto lontana anche all’estero, a brani più rock, fino all’elettronica di E.STA.A.TE. e al reggaeton, come testimonia Nuevo. Un genere a cui però Laura non è del tutto nuova: già in Simili ce n’era stato un primo assaggio con Innamorata, firmata da Lorenzo Jovanotti, ma in quell’occasione lei aveva voluto mischiarci dentro un po’ di pop: qui invece il DNA urbano è puro, e proprio per questo la canzone è stata lasciata in spagnolo, dal momento che l’italiano “sarebbe suonato troppo finto.”
La decisione di spingersi su queste sonorità si deve anche, e forse soprattutto, alla frequentazione con Miami, città statunitense sulla cartina, ma latina nell’animo: “Stando spesso a Miami ascolto molto la radio e conosco quasi tutto il repertorio reggaeton del momento. Inoltre il reggaeton mi permette di affrontare anche temi più frivoli, leggeri, mentre le ballad restano più adatte per tematiche più serie e delicate, dove tra l’altro io mi sento più a mio agio. Sarà che ho le corde vocali italiane, tricolore, che mi fanno spingere sul volume, ma più una canzone affronta un tema profondo e serio più io vado fuori di testa”. Una bella novità quindi: “Quando io ho iniziato, 25 anni fa, la ballate pop venivano criticate per essere troppo noiose, si preferiva altro, soprattutto all’estero. Oggi invece che imperversano le sonorità urbane, noi italiani siamo diventati più chic e raffinati”. È inoltre di pochi giorni fa l’uscita di un remix di Non è detto, opera della band cubana Gente de Zona: “Sono intervenuti sulla canzone cambiando anche testo e melodia, un’operazione forse mai fatta prima da un artista italiano. La collaborazione con loro mi inorgoglisce molto anche perché finalmente potrò andare a cantare a Cuba! Un sogno che ho da molti anni, ma che non ho mai potuto realizzare perché anche se oggi la situazione è più distesa che in passato, chi canta a Cuba ha poi difficoltà ad essere passato in radio a Miami: però mi hanno invitato loro, e non posso certo rifiutare! Accadrà molto, molto presto…”
Impossibile poi non soffermarsi su Francesca (piccola aliena), sicuramente il momento più intenso del disco: “È un brano dedicato alla mia nipotina, morta lo scorso anno per una rara malattia genetica. Sua madre Roberta la chiamava così, piccola aliena, e ha inventato una storia fantastica per accompagnarla nella sua vita. I proventi della canzone andranno in beneficenza alla Onlus Bimbo Tu”. Al di là della varietà, c’è però un denominatore comune che lega tutti i brani: “In queste nuove storie c’è sempre qualcuno che deve fare una scelta, a volte anche dolorosa. Anche le canzoni più leggere presentano sempre un bivio, una decisione da prendere. E qualunque scelta tu possa fare, non accontenterai mai tutti. Inutile tentare di piacere per forza.”
Infine, una piccola sorpresa: quello in uscita adesso è solo il primo volume di un progetto di cui è previsto – ancora non si sa quando – un seguito.
Sul fronte live, l’agenda dei prossimi mesi si prospetta parecchio fitta di appuntamenti: l’anteprima sarà riservata all’Italia, con i due concerti al Circo Massimo di Roma il 21 e 22 luglio: “Appena mi è stata proposta la location ho detto sì, presa dall’entusiasmo, poi a mente fredda mi sono venuti un sacco di dubbi. Il Circo Massimo non è mai stato proposto a un artista italiano, e il rischio era quello di non riuscire a riempirlo, tirandomi dietro anche l’accusa che le donne non sono in grado di fare i concerti nei grandi spazi. Poi ho visto il numero di biglietti venduti, e la paura è passata”. A seguire, una serie di date all’estero, tra America Latina e Stati Uniti, per tornare poi in Italia e in Europa da settembre. Per le date italiane, Laura apre le porte a tutti gli autori che hanno preso parte alla scrittura dei brani: “Seguendo il titolo dell’album, voglio che tutti loro abbiamo la possibilità di farsi sentire davanti al mio pubblico aprendo i miei concerti con la loro musica.” Lo spettacolo sarà sostanzialmente lo stesso per tutte le nazioni: ridimensionata la componente scenografica, che su richiesta dei fan più irriducibili si spoglia di ballerini e scenografie troppo imponenti per mettere al centro la musica. La vera difficoltà è ora quella di definire la scaletta: “Molti fan mi hanno chiesto di non fare più medley e di non mettere in scaletta i successi del passato, ma mi rendo conto che ci sono canzoni che non posso non portare in un mio live, perché so che c’è tutta un’altra parte del pubblico che se le aspetta. Di sicuro, voglio far sentire molto di questo disco.”
Non è detto. Invece purtroppo è stato detto detto, e pure cantato. Il singolo che segna il ritorno di Laura Pausini è qui, sotto il nostro naso e – ahimè – dentro le nostre orecchie. Non è detto anticipa il nuovo album, Fatti sentire, in arrivo il 16 marzo, e dopo i primi due fisiologici ascolti di rodaggio sorge una domanda: perché? Laura, perché tornare con una canzone che era già scontata dieci anni fa? Perché tornare con una canzone così pesantemente “pausiniana”, melensa e strappalacrime come nella più vetusta tradizione del pop italico? Perché, Laura, propinarci un brano che forse avrebbe potuto trovare una sua ragion d’essere in qualche b-side, e che tu invece eleggi a portabandiera di un nuovo progetto discografico?
Rimpiango i tempi di Benvenuto e dei duetti con Kylie… Altro brio, altro pop.
Era il 1976 e a Bologna partiva l’avventura Fonoprint Studios.
Nonostante il grande fermento musicale cittadino, all’epoca Bologna non offriva uno studio di registrazione professionale, ed ecco perché a 10 amici è venuta l’idea di crearne uno.
Lo studio Fonoprint nasce in via Schiavonìa dove si è registrato il primo 45 giri inciso da Vasco Rossi Jenny e Silvia e dove si firma il primo contratto con la Fonit Cetra. Grandi musicisti, arrangiatori e produttori iniziano a utilizzare la struttura: Paolo Zavallone, Henghel Gualdi, Francesco Guccini, Celso Valli… Erano gli anni delle grandi orchestre e dei gruppi che si esibivano nelle balere, le basi della grande “scuola bolognese” dei musicisti e dei cantautori. Iniziava il fenomeno della Disco Music e Marzio (in arte Macho) con gli arrangiamenti di Mauro Malavasi, altro nome storico di Fonoprint, sbarcava addirittura in America.
Passavano gli anni, si aggiungevano altri studi in Via de’ Coltelli, dove Zucchero registra Blue’s. Uno studio tecnologicamente all’avanguardia, dove musicalmente sono nati gli Stadio, nel 1983 è arrivato Dalla, poi Luca Carboni, Ron, Vasco Rossi ha inciso lì Bollicine, iMatia Bazar, i Pooh, Gianni Morandi e un giovanissimo Eros Ramazzotti reduce dal successo sanremese. Lucio Dalla ha inciso Carusoe diventa socio Fonoprint.
Con un grande investimento viene realizzata la sede attuale di Fonoprint in Via Bocca di Lupo, all’interno delle mura di un Convento del ‘400. L’offerta tecnologica è al top, gli studi londinesi e americani non fanno più paura. Tutti i grandi artisti italiani passano da qui. Gli ultimi vent’anni sono stati gli anni di un affermato Ramazzotti, Andrea Bocelli, Luca Barbarossa, una giovane Laura Pausini, Ivano Fossati, Paolo Conte, Francesco Guccini, Samuele Bersani e Carmen Consoli. Mina registra lì Amore disperato insieme a Lucio Dalla. Gli anni si rincorrono, grandi conferme e nuovi arrivi, da Cesare Cremonini ai Negramaro fino a Il Volo.
Ma Fonoprint non è solo storia, ma anche presente e futuro. A fine 2015 l’azienda entra nell’orbita dell’imprenditore Leopoldo Cavalli, grande appassionato di musica, ma soprattutto egli stesso tra i giovani cantautori a presentarsi vent’anni fa in studio portando la cassetta con una sua incisione. Cavalli è poi entrato nell’attività di famiglia e ha creato uno dei più importanti luxury brand al mondo nel settore del design, Visionnaire, ma il ricordo di quell’esperienza lo ha portato alla decisione di inserire nuovamente la sua Bologna al centro del palcoscenico musicale italiano con un duplice obiettivo: offrire ai professionisti del settore le più avanzate tecnologie nel campo dell’incisione, dell’arrangiamento, del montaggio audio e video e della masterizzazione, ed essere un riferimento nello scouting di giovani talenti, lavorare assiduamente con passione e competenza per mettere in luce il loro lato artistico migliore, prepararli sotto ogni punto di vista, vocale, musicale, di immagine fisica e digitale.
L’anima di Fonoprint 2.0 è anche una piattaforma online per lanciare giovani promesse e dove poter seguire le varie attività che si svolgono all’interno, i corsi di formazione, le audizioni, lo scouting, il percorso musicale di ogni singolo artista.
Il progetto FONOPRINT 2.0, oltre all’Academy e alla costante attività di studio di recording e mastering, prevede anche l’inizio dell’attività discografica: sono quattro i giovani talenti che si apprestano a pubblicare i loro nuovi singoli con questa etichetta. Gli artisti sono Carmen Alessandrello (Un Giorno Dopo L’altro, cover di Luigi Tenco), Jacopo Michelini (Guarda Chi C’è), Helle (Sinkin’, 18 novembre) e Tekla (Via, 25 novembre).
C’è un’aura dorata intorno a Giorgia. Un meraviglioso scintillio che traspare dai suoi occhi scuri e che riempie tutta l’aria intorno. È raggiante, totalmente serena con se stessa e trasmette un profondo senso di consapevolezza di sé.
È appena tornata sulle scene con Oronero, il suo decimo album di inediti, intitolato come il singolo che gli ha aperto la strada e che da solo faceva già intuire il tono personale che avrebbero avuto gli altri brani.
Un disco di 15 tracce, realizzato insieme al re Mida della produzione, quel Michele Canova con cui Giorgia aveva già lavorato e che tanti altri artisti nostrani cercano per dare alla propria musica una veste più internazionale. Un disco che se da un lato non lascia dubbi sul fatto che la voce di Giorgia sia tra le migliori in Europa, dall’altro mostra anche una grande libertà nel giocare tra elettronica e melodia, alternando momenti di ampio respiro ad altri di divertimento “da cubo”.
Un disco praticamente già pronto da mesi, ma che è stato lasciato fermo per un po’ per non dover dire “potevo far di meglio”.
Dopo tre anni, torni con un disco “generoso”, ricco e vario: una scelta specifica? No, non è stata una scelta: all’inizio pensavo a un disco di 11-13 pezzi, poi però non me la sono sentita di escludere gli altri, perché stavano bene nel racconto. Con il mio produttore, Michele Canova, avevo un’idea chiara del suono che volevo far emergere, con tanta elettronica. Un suono più compatto rispetto all’album precedente, Senza paura, dove invece c’erano elementi più eterogenei, con tante parti suonate. In questo caso ci siamo concessi libertà: chi lavora con Michele sa che lui usa molti arrangiamenti di respiro internazionale, ma in questo caso credo che lui sia uscito un po’ dalle regole.
Sarà difficile riproporre questa varietà dal vivo? No, sarà divertente! In un concerto è necessario alternare momenti diversi, mettere insieme i pezzi di oggi con quelli del passato: non ho ancora pensato alla scaletta, ma la varietà dei brani sarà sicuramente un elemento a favore.
Cos’è davvero questo “oronero”? Ha sicuramente a che fare con il petrolio, una risorsa preziosissima che può però diventare dannosa, velenosa se usata in maniera sbagliata, basta pensare alla plastica. È una metafora del mondo di oggi, della nostra società che ha così tanti modi per comunicare, ma che spesso li usa solo per distruggersi.
Per questo disco ti sei voluta prendere tutto il tempo a disposizione: come è avvenuta la scrittura dei brani? Mi sono voluta atteggiare un po’ a cantautrice: ho iniziato a scrivere quando mio figlio è andato in prima elementare. Mi sono trovata in un meccanismo che prevedeva la scuola, la spesa, la cura della casa e per scrivere mi sono imposta dei momenti della giornata. Volevo uscissero certe parole e non altre, e per fare questo mi sono dovuta confrontare anche con i suoni: ho ricevuto dei pezzi con la melodia già fatta, alcuni cantati in inglese, e il gioco è stato quello di mediare tra la musica e la mia lingua che è molto ricca ma con strutture molto diverse da quelle dell’inglese. Mai come in questo caso ho cercato di ignorare il giudizio esterno, quello che il pubblico voleva da me. Ho cercato di pulire tutto ciò che mi avrebbe impedito di essere sincera, eliminando ogni pudore.
È la prima volta che ti concedi così tanto spazio per lavorare a un disco? Sì, è stato un elemento nuovo per me. Raramente si ha il tempo di lasciar sedimentare le cose e riprenderle in un secondo momento. Invece sarebbe bene poterlo fare, perché riguardare ciò che si è fatto con uno sguardo più fresco ti aiuta a centrare meglio il punto, limare ciò che non serve, e magari ti stupisci anche di aver fatto cose che non ricordavi. Sono sempre arrivata alla chiusura di un disco correndo, invece questa volta ho voluto evitare quella brutta sensazione di riascoltare le canzoni e pensare che forse avrei potuto fare di meglio.
Hai scartato tanto materiale? Sì, ma non vado mai a riprenderlo, perché penso sempre che siano cose legate a quel momento e che non debbano tornare. Il passato è passato, mi dico sempre. È importante il momento in cui una canzone esce, ed è importante il momento in cui una canzone viene scritta: a volte succede che un bel disco va male semplicemente perché esce nel momento sbagliato. Non penso di avere nei cassetti un tesoro di gioielli da riscoprire, anche se forse ogni tanto farei bene a riascoltare le cose mai uscite…
Posso farcela e Non fa niente sono due brani di cui sei autrice sia della musica che dei testi: ne avevi altri che hai lasciato da parte? Paradossalmente, essere autrice di musica e parole è stato più semplice che realizzare un brano insieme ad altri, perché ho io tutto il controllo. I testi dell’album sono comunque quasi tutti miei e ogni canzone che scelgo di interpretare la sento mia. Sì, avevo altri brani completamente scritti da me, ma non ho sentito l’esigenza di inserirli nell’album, anche perché di solito non riesco a vederci la componente commerciabile, non li vedo come potenziali singoli. Per me sono semplicemente canzoni che dovevano stare nel disco ma come una sorta di spazio mio. Non fa niente non volevo nemmeno inserirla.
Qua e là nell’album parli di gente che giudica, gente che si erge a maestra di vita, ma dall’altra parte si sente una volontà di ritornare alla centralità del singolo individuo. Da dove arriva questa esigenza? Noi siamo parte di in tutto, sopratutto in questo tempo: se c’è un evento angosciante, tutti siamo angosciati. Ma questa unità troppo spesso la usiamo per farci del male. Dovremmo però pensare che alla fine si parte e si ritorna sempre a sé, si parte verso l’universale, ma poi tutto torna a noi, e se riusciamo a portare anche solo un piccolo cambiamento nella nostra vita, questo risuona come un’onda, anche se non sembra, anche se nessuno ti vede e ti dice “bravo”.
È una consapevolezza nuova? L’ho sempre avuta, ma adesso ci credo più di prima: la mia fiducia nell’essere umano rimane intatta, sono sicura che insieme possiamo fare tanto. Finora abbiamo fatto un gran casino, è evidente, ma chissà che non sia possibile dare una sterzata sul finale, usare un po’ più l’anima e meno la parte mentale. Il nostro destino non è il mondo: passiamo da qui, ma molto probabilmente siamo destinati altrove e quello che resta siamo solo noi, la nostra interiorità. Purtroppo è un lavoro interiore che nessuno ci insegna a fare, non ne abbiamo il tempo, i piccoli e grandi problemi quotidiani ci portano a pensare ad altro.
Recentemente è emersa sui giornali una tua presunta polemica sul movimento femminista: potresti spiegare meglio? Quell’intervista (pubblicata sul settimanale Io donna del 22 ottobre, ndr) è il frutto di un discorso molto ampio che poi è stato sintetizzato per poter essere pubblicato. Si partiva dalla considerazione che, a parità di condizioni, una donna deve lavorare il doppio per guadagnarsi credibilità e che mentre l’uomo fraternizza subito, la donna teme l’arrivo di un’altra donna, la vede come una minaccia al suo territorio. È una situazione che dura da millenni, ormai è un’impalcatura culturale. Le donne vengono limitate nei loro poteri e si fa di tutto per tenerle separate, mentre invece la solidarietà femminile è un elemento a cui tengo molto, sono cresciuta in una famiglia che esalta la donna, mia madre mi faceva leggere libri di donne impegnate per l’emancipazione femminile. Con le mie colleghe siamo riuscite a organizzare Amiche per l’Abruzzo, adesso capita che ci sentiamo, ci confrontiamo sul nostro lavoro, ma sono conquiste recenti. Nell’intervista si parlava anche di alcuni lavori del passato che sono stati supportati poco: ma chi se ne frega, eravamo tutti più giovani, mossi da altre logiche.
È come mai allora nell’album non ci sono duetti con altre donne? In Senza paura ho duettato con Alicia Keys, e ho fatto duetti anche con Gianna Nannini, Elisa, Laura Pausini. Non è stata una scelta quella di non inserire duetti, semplicemente le idee che giravano nell’aria non si sono concretizzate per varie ragioni. Però finalmente ho potuto collaborare con Pacifico, con cui erano anni che volevo lavorare.
Suoni internazionali, duetti internazionali, brani proposti in inglese: davvero nessuna intenzione di guardare all’estero? Io non prendo l’aereo! (ride, ndr) In realtà avrei dovuto lavorare all’estero vent’anni fa, solo che prima non mi sentivo pronta io, poi quando me la sarei sentita non ho avuto il supporto della casa discografica. Adesso però con Internet tutto è più vicino: ho saputo che il video di Oronero è stato in rotazione di VH1 in America, mi arrivano segnalazioni di apprezzamenti dall’estero e ho scoperto anche che Quincy Jones mi segue su Twitter, e io no! Michele Canova mi invita sempre a Los Angeles a suonare con i suoi musicisti: mi piacerebbe, perché ormai a questa età non ho più tante ambizioni di notorietà, mentre sono molto più interessata a sperimentare quel tipo di attività live nei club che c’è in America.
Che ruolo ha avuto Emanuel Lo in questo disco? È stato molto bravo a interpretare certe sensazioni, certi miei pensieri, ma probabilmente neanche lui se ne rende conto, gli arriva solo questa ispirazione e la riporta nelle parole delle canzoni (ride, ndr). Ci siamo confrontati molto e comunque mi sono presa degli spazi per lavorare da sola.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione? Ribellione è la capacità di non cedere al favore dell’esterno. Ribellione è coerenza e l’opposto di vanità e narcisismo. Un tempo essere ribelli voleva dire trasgredire, andare contro le regole, oggi invece sembra che il male sia un valore e il bene sia da sfigati. Ribellione è recuperare il bene, credere nel bene, non avere paura di essere buoni.
E mentre lo dice, il suo volto si apre in uno dei sorrisi più luminosi che abbia mai visto.
Tutto parte da una vicenda realmente accaduta nel 2001, un fatto di cronaca vero, ma talmente surreale da sembrar uscito da un romanzo: lo strano naufragio di una nave in avaria porta sulle spiagge di Sao Miguel, alle Azzorre, un carico di 540 kg di cocaina salpato dal Venezuela e destinato alle Canarie. Le conseguenze per i giovani di Sao Miguel sono devastanti, e ancora oggi se ne vedono gli strascichi.
Proprio alle Azzorre Pietro, il trentaduenne milanese protagonista di Ti devo un ritorno, scappa subito dopo la morte del padre e incontra il giovane Vasco. Da lì prende avvio la storia, con tutto ciò che deve succedere.
Così Niccolò Agliardi ha dato vita alla sua prima prova da autore di romanzo, intrecciando con disinvoltura realtà, finzione e “vita”. Lui che ha firmato canzoni celeberrime per Laura Pausini, Emma ed Emis Killa (giusto per fare un paio di esempi, ma la lista sarebbe lunghissima), adesso si è messo in gioco sul racconto lungo. Il risultato è Ti devo un ritorno*.
Contemporaneamente, Agliardi non ha tralasciato la musica, facendosi nuovamente autore della colonna sonora di Braccaletti rossi, la fiction di Ra1 giunta quest’anno alla terza stagione.
Un’esperienza che per il cantautore è andata in questi anni ben al di là del semplice lavoro…
Come ti è venuta l’idea di partire da quel caso di cronaca e costruirci sopra un romanzo? Avevo la sensazione di essere stato solo ascoltatore di questa storia bellissima che mi ha raccontato il mio amico Giovanni Gastel. Era una storia geniale, ma non sapevo come maneggiarla e per un po’ di anni l’ho lasciata ferma. Poi mi è arrivata la proposta di dar vita a un racconto e mi è tornata in mente: ho provato a scriverla, ma non funzionava. Aveva spunti interessanti, ma il testo non girava come volevo e avevo addirittura pensato di lasciar perdere, fino a quando mi sono ricordato di una mia compagna di Università, Maria Cristina Olati, che sapevo essere diventata un’ottima editor: l’ho contattata e prima ancora di conoscere la storia su cui volevo lavorare, mi ha chiesto di raccontarle un po’ di me, di quello che avevo fatto in questi anni. E come potevo non raccontare anche di Braccialetti rossi? A quel punto è stata lei che mi ha costruito sotto gli occhi la storia del romanzo, intrecciando elementi diversi, e ho capito che un libro così io lo avrei voluto leggere. A quel punto si è trattato di scriverlo, e non è stato come dirlo: ho dovuto mettere molto rigore, per la parte giornalistica mi sono affidato ad Andrea Amato che ha regimentato i dati reali, poi io ci ho messo dentro un po’ di vita, di mestiere, e anche di musica. È libro musicale questo, suona bene mentre lo si legge, ed è sicuramente la cosa più bella che ho fatto, figlia di tante esperienze.
Come ti sei trovato ad approcciarti alla scrittura di un romanzo rispetto alla creazione di una canzone? E’ stato totalmente diverso: in una canzone devi dire tutto in tre minuti e mezzo, in un romanzo devi diluire una sola storia in più di duecento pagine, con la paura di non avere nulla da dire. Ho passato intere giornate senza riuscire a scrivere nulla, e ho dovuto accettare la sconfitta di quei giorni vuoti. Con le canzoni non mi è mai successo, non mi sono mai sentito inadeguato verso una canzone, o almeno non più da molti anni, con il romanzo il senso di inadeguatezza l’ho avvertito. I personaggi come sono stati costruiti? Pietro parla come me, anche se è più piccolino, Vasco ha tanto del Brando di Braccialetti rossi, c’è tutta la sua romanità nelle battute, la passione per il surf. Ho attinto da quello che vedevo intorno.
Mi ha colpito molto una delle dediche del libro, “A chi pensava di farcela”… Non tutti ce la fanno, e vale la pena ricordarsi anche di loro. Non si parla necessariamente di morte: più semplicemente, nei grandi slanci che la vita ci obbliga a fare, qualcuno riesce a decollare, qualcun altro rimane a terra, ma hanno tutti la stessa dignità. Nel libro c’è qualcuno che non ce l’ha fatta.
“So bene che scappare è da vigliacchi, ma qualche volta ti salva la vita”: nel romanzo questa frase ha un significato ben preciso, ma anche per te è così? Io non sono mai scappato dalle cose importanti, non mi è mai capitata la fuga. Nel libro faccio fuggire Pietro, ma la fuga avviene all’inizio, poi il suo personaggio sa bene dove stare. È molto più difficile restare, ma è fondamentale: le grandi relazioni della mia vita, gli amori, le amicizie, sono quelle che ho costruito scegliendo di restare e dove anche l’altra persona ha scelto di restare, anche se era più difficile. “Non credo di essere destinato alla felicità”, dichiara un altro personaggio, Niccolò, ma per te la felicità esiste? Certo! Non è uno dei sentimenti che maneggio più facilmente e forse non dura molto, ma esiste e la possiamo raggiungere. Per Braccialetti rossi ho scritto una canzone che si intitola La tua felicità, in cui parlo di quando si è felici per la felicità degli altri. Non saprei come definire altrimenti quella sensazione che provo nel vedere felici certe persone a cui sono legato.
Che differenza c’è tra senso e ragione delle cose? Qui a parlare nel libro è Cristina, la madre di Vasco. La ragione è filtrata dall’intelletto, la si può analizzare, il senso invece è pancia, non è spiegabile. Sono entrambi importanti, ma forse nella vita il senso la vince un po’ di più.
Sei davvero convinto che, come scrivi, se ti fermi ci sarà sempre qualcuno che prima o poi passerà a riprenderti? Penso di sì, se lasci del bene qualcuno che ripasserà ci sarà sempre. Certo, può anche non succedere, ma devi proprio essere stato uno stronzo!
Tu sei mai ripassato a riprendere qualcuno? Tantissime volte.
Gli inediti della nuova colonna sonora di Braccialetti rossi quando sono stati scritti? Si sono molto diluiti nel tempo: ho iniziato a scrivere con Edwin un paio di anni fa, al termine della seconda stagione. Ci abbiamo lavorato tanto nell’estate del 2015, mentre negli ultimi mesi abbiamo chiuso Ti sembra poco, il brano che fa da traino all’album insieme a Simili di Laura Pausini e che incarna un po’ l’ultima serie.
Sono passati ormai più di tre anni da quando hai iniziato a occuparti di Braccialetti rossi: cosa ha significato per te far parte di questo progetto? Ho guadagnato una famiglia. Non c’è un giorno in cui non sento almeno alcuni dei ragazzi, vivo con loro le gioie e le crisi quotidiane, loro sanno tutto di me. Mi fanno sentire la loro vicinanza.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato ha per te il termine “ribellione”? Rendersi adatti a qualcosa di inadatto.
*Non sarà certo un caso che, scorrendo le canzoni dell’ultimo album di Laura Pausini, in Chiedilo al cielo, firmata da Agliardi, vengano pronunciate proprio queste parole…