Ti ho scritto una lettera. Quattro chiacchiere con… The Leading Guy


Non a tutti i musicisti capita di fare un esordio come quello di The Leading Guy: nel 2015 il suo primo album Memorandum è stato infatti accolto con pressoché unanime entusiasmo da tutta la critica, inaugurando così il suo personale percorso cantautorale.
Quattro anni dopo, per il bellunese Simone Zamperi è arrivato il momento di un nuovo lavoro, Twelve Letters, un album che ha attirato anche l’attenzione di una major come Sony Music e di un’artista come Elisa, che lo ha personalmente voluto per aprire i concerti del suo ultimo tour.
Un disco che ha lo spirito verace del folk e del rock, ma anche i contorni un po’ romantici di una lettera intima scritta a cuore aperto con carta e penna e indirizzata a un destinatario che forse non la riceverà mai o sceglierà di lasciare in sospeso la sua risposta.
Partiamo dall’inizio: chi è The Leading Guy?
Sono nato a Belluno e ho trascorso un lungo periodo in Irlanda, per poi fare ritorno in Italia a Trieste, la città che mi ha adottato. Musicalmente parlando arrivo da un disco d’esordio, Memorandum, molto diverso dal nuovo album.

Che cosa ti ha portato verso una nuova direzione?
Volendo avrei potuto fare un album simile al precedente, ma sentivo che sarebbe stato sbagliato, per cui mi sono preso il tempo per capire cosa volevo davvero comunicare. Quando ho avuto tra le mani i brani in versione chitarra e voce mi sono reso conto che erano molto diversi dagli altri nella struttura e ancora di più nel messaggio. Forse un po’ egoisticamente, le canzoni di Memorandum parlavano molto di me, erano come un’analisi, queste invece sono proiettate verso l’esterno, creano quasi un confronto, un dibattito. Da qui è arrivata anche la decisione di circondarmi di musicisti e di riempire il disco con molto suono: dopo tre anni passati a fare concerti sempre da solo avevo voglia di avere accanto qualcuno. Quello che ne è venuto fuori è un disco molto vario, in cui a ogni canzone è stato messo un vestito diverso.

Un disco molto vario che hai scelto di aprire con un brano cupo come Black: perché?
Suona molto bene come prima canzone di un disco: schiacci play e rimani colpito. Dura poco, ma è tuonante: può essere considerata come le tredicesima traccia di Memorandum, è il modo per riallacciarmi a dove ero rimasto con l’altro album e da lì ripartire. Metterla in mezzo avrebbe spezzato il racconto. E poi mi piaceva l’idea che la prima parola dell’album fosse proprio “black”, è un richiamo al mondo delle mie influenze. Qualcuno potrebbe magari spaventarsi, ma il resto del disco va verso la positività.

Non hai paura che qualcuno possa invece fermarsi lì e farsi un’idea sbagliata dell’album?
Ammetto che è una canzone abbastanza catastrofica, c’è un messaggio ambientale un po’ apocalittico, ma alla fine arriva anche la speranza. No, di paura non ne ho: in Memorandum non c’era nessun brano che potesse essere scelto come singolo, ma l’ho fatto lo stesso, per cui posso fare anche una canzone così.

Il titolo e la copertina dell’album mettono al centro il concetto della lettera “come si faceva una volta”: per te che significato ha?
Quando mi son ritrovato il disco finito tra le mani ho capito che il filo conduttore dei brani era quello di una lettera indirizzata a un destinatario, reale o simbolico: ad alcuni ho anche inviato davvero in anteprima la canzone in forma di lettera. Quando in passato si scrivevano le lettere, si aveva il tempo di pensare, correggere, e magari alla fine si decideva di non spedirla, ma le parole restavano lì. Credo che dovrebbe essere così per chi scrive canzoni: prendersi il tempo di scrivere, cancellare, rifare. Una lettera non è una mail che si può cestinare con un clic, la si può bruciare, ma il messaggio arriva comunque in modo diverso. E anche chi ascolta una canzone dovrebbe leggerla come si legge una lettera, tornarci su per capire se si è davvero capito tutto quello che c’è scritto. L’ultimo brano dell’album, Can You Hear Me Now?, è una richiesta d’aiuto, ma anche un modo per chiedere di ascoltare e capire bene quello che sto dicendo.

Tutti i brani hanno un destinatario preciso?
No, sono messaggi che possono essere rivolti a chiunque, ma tutti hanno alle spalle una lunga riflessione e tutti hanno uno stile diverso. Free To Decide può essere per esempio le lettera che invieresti a un amico, mentre Black è la lettera incazzata che invieresti al sindaco del tuo paese per dirgli che le cose non vanno. Un paio hanno invece dei destinatari eali, amici che non ci sono più.

Da quanto tempo non scrivi e non ricevi una lettera?
Almeno 13 anni, se si parla di una lettera vera e propria, scritta e imbucata con il francobollo. L’idea di portare la lettera nei brani mi è venuta proprio facendo questa riflessione. Ho 32 anni, sono cresciuto quando le lettere si scrivevano. Ho provato anche a fare un sondaggio tra i miei fan, e ho scoperto che alcuni di loro le spediscono ancora.

L’introspezione sembra essere un elemento che ti caratterizza. E’ così?
Nella vita sono un tipo abbastanza “caciarone”, posso avere molte maschere, ma nella musica non lascio entrare la confusione, tutto deve essere pensato e ponderato: solo quando suono e soprattutto quando scrivo riesco a trovare un’introspezione vera. Scrivere non è un hobby, è qualcosa che esige rispetto.

Metti molti filtri tra i tuoi pensieri e la tua scrittura?
Sì, c’è parecchio filtro tra quello che mostro e quello che scrivo, e spesso le persone si confondono ascoltando la mia musica. Succedeva soprattutto con Memorandum, dove svelavo molto di più del mio passato, cose di cui non avevo mai parlato. Forse è sbagliato, perché ci deve essere somiglianza tra ciò che sei e quello che scrivi, ma tutti abbiamo un lato oscuro da nascondere. Le mie canzoni sono solo una parte di me, una parte che cerco di esorcizzare. Se fossi solo quello che metto nelle canzoni forse mi sarei già impiccato! (ride, ndr) Metto la tristezza nella musica per trovare gioia nella vita.

Ma anche nel disco si vede la gioia…
Sì, e me ne sono stupito anch’io. Penso che sia dovuto alla voglia che avevo di condividere: forse per un periodo l’avevo dimentica e ora ho ritrovato la gioia di fare le cose insieme agli altri.

Tu ed Elisa come vi siete conosciuti?
Ho conosciuto prima suo marito, Andrea Rigonat, che è anche il suo chitarrista: eravamo entrambi giudici in un concorso per giovani musicisti, e sono riuscito e fargli sentire Black, e lui non si spaventato! (ride, ndr) Sapevo che Elisa stava per partire con il tour e sono riuscito a far sentire il brano anche a lei: le è piaciuta, e non era scontato, e così ha deciso di portarmi con lei per aprire i suoi concerti. Sarò impegnato per tutto il mese di maggio e penso che solo alla fine di questa esperienza riuscirò a realizzare meglio quello che è successo, ma sono sicuro che sarà una grande lezione per il futuro.

Un altro progetto in cui sei stato recentemente coinvolto è quello di Faber Nostrum, al quale hai partecipato con la cover di Se ti tagliassero a pezzetti. Quella che esperienza è stata?
Ci è stata lasciata grande libertà sulla scelta del brano, anche perché sarebbe stato crudele ritrovarsi a interpretare un brano di De Andrè imposto da altri. Ne ho provati molti, finché ho capito che con Se ti tagliassero a pezzetti mi sentivo più a mio agio, mi ritrovavo di più. Cantare in italiano è stato uno choc, non è stato facile convincermi che ci sarei riuscito, soprattutto con De Andrè, ma ho pensato che era meglio di iniziare con una bella canzone. Credo inoltre che progetti come questo sono importanti perché fanno conoscere De Andrè alle nuove generazioni: non è scontato che oggi un ventenne sappia chi è, ma mi fa piacere quando in rete leggo i commenti alla mia cover da parte di ragazzi molto più giovani.

Potrebbe quindi essere uno spunto per iniziare a scrivere e cantare in italiano?
Non è che non abbia voglia di farlo, ma credo di non essere pronto, tecnicamente più che umanamente. Cantare in italiano sarebbe come ripartire da zero, non basta traslare la parole: la tecnica e la respirazione sono completamente diverse, e l’italiano è una lingua molto difficile. Ci ho messo 14 anni a imparare a scrivere bene canzoni in inglese, adesso voglio farle ascoltare un po’. Per l’italiano posso aspettare.

Concludo con una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di “ribellione”?
La vera ribellione è smettere di vedere i propri sogni irrealizzabili: ho iniziato a vivere bene e stare meglio quando ho capito che non ci stavo riuscendo con la musica perché avevo paura di buttarmi. Non so nuotare, ma in estate lavoravo come tuttofare in uno stabilimento balneare, tenendomi l’inverno per la musica: il mio gesto di ribellione è stato mollare del tutto il lavoro e investire nella musica, che oggi è la mia vita. Spesso ci si lamenta per come vanno le cose e si dà la colpa agli altri, invece bisognerebbe iniziare a prendersi la responsabilità dei propri insuccessi e uscire dalla propria tranquillità. E a volte non sono neanche insuccessi, semplicemente non ci si prova nemmeno.