Babywoman, ovvero quando Naomi Campbell ha fatto un disco

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Forse non tutti, e i più piccolini in particolare, se lo ricordano, ma tra una falcata in passerella e una sfuriata capricciosa, Naomi Campbell ha trovato pure il tempo di fare un disco.

Ebbene sì, la Venere Nera ha lasciato la sua zampata anche nel mondo della musica. Stiamo parlando di parecchi anni fa, nello specifico del 1994: era il periodo delle super top, quelle create da Versace, Armani e Ferrè, quelle che poi sarebbero rimaste nella memoria anche dopo aver smesso di calcare il catwalk. Claudia, Cindy, Linda, Carla, Christy e, appunto, Naomi.
È stato proprio all’apice di questo periodo d’oro che la Campbell si è lasciata sedurre dalle lusinghe della musica e ha pubblicato Babywoman, primo -e per ora unico – album della sua carriera.
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Se però state già sbuffando e alzando gli occhi al cielo pensando che si tratti del solito progetto riempitivo per battere cassa, sappiate che vi state sbagliando: per realizzare questo album Naomi sembra averci messo davvero il cuore e una buona dose di impegno. Naturalmente, all’epoca le sue canzoni sono state velocemente liquidate con giudizi per lo più sprezzanti, forse dettati più da pregiudizi che non da un vero ascolto, e i risultati di vendita certo non brillarono: solo il Giappone si dimostrò interessato ad ascoltare la Naomi in versione di cantante, per il resto Babywoman ha dovuto accontentarsi delle briciole, riuscendo comunque a raggranellare un milioncino di copie vendute complessivamente nel mondo.
Riascoltandolo oggi, l’album si porta addosso i segni del tempo, immerso com’è in quella particolarissima commistione di pop e r’n’b che ha trovato il suo culmine proprio nel cuore degli anni ’90. Sonorità eleganti e a luci soffuse, che hanno marchiato anche alcuni album di superstar come  Madonna (penso in particolare ad Erotica e Bedtime Stories) e Janet Jackson, che probabilmente hanno contribuito non poco a dare ispirazione al disco di Naomi.

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Un pop che non ha proprio nulla da invidiare a certi prodotti odierni, magari di maggiore successo e oggetto di più lusinghiere recensioni. Eppure Naomi aveva fatto le cose per bene, fin dal primo, stupendo singolo Love & Tears, con le sue atmosfere al profumo d’incenso e i richiami all’Oriente, poi con la spinta dance di I Want To Live, secondo estratto. Ma in generale tutti i 10 brani (l’undicesimo è una reprise di I Want To Live) trovano una loro piacevole ragione di esistere: c’è tanta bella melodia che pervade l’intero album, tra ballate sontuose (When I Think About Love è di un candore commovente) e pezzi più movimentati, e la voce della Campbell, che pure di lavoro non fa la cantante, sa farsi molto apprezzare con il suo timbro felpato e sporco al punto giusto. Ciò che inoltre stupisce, e che conferma però l’intenzione di Naomi di fare un disco davvero pensato, è la presenza di alcune cover inaspettate. Mi riferisco in particolare a Ride A White Swan, un pezzo glam rock dei T. Rex datato 1970 e qui riproposto in versione decisivamente ingentilita,e poi Life Of Leisure dei Luscious Jackson; ma ci sono anche la super ballatona All Through The Night, remake di un brano di Donna Summer, e la splendente Sunshine On A Rainy Day dell’inglese Zoë.

Insomma, nonostante abbia lasciato dietro di sé una traccia piuttosto appannata e sia oggi confinato solo negli scaffali dei collezionisti, Babywoman è tutt’altro che un album di second’ordine, anche perché -ultima nota di prestigio – alla produzione sono stati chiamati personaggi del calibro di Gavin Friday (fondatore dei Virgin Prunes, ricordate?), Tim Simeon, Youth e Bruce Roberts, gente che tra gli anni ’80 e ’90 maneggiava i dischi dei grandissimi.
Purtroppo, ha dovuto scontare il pegno di essere il frutto musicale di una modella.

BITS-RECE: Gaika, Spaghetto EP

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Per lui i magazine internazionali hanno speso parole di elogio, arrivando a paragonare la forza della sua arte alle opere di Basquiat. Quello che è certo è che il mondo Gaika è quanto di più personale ed estremo ci possa essere.
Producer da dancefloor e performer inglese, Gaika ha da poco pubblicato Spaghetto, un EP di otto brani stilisticamente piuttosto indefinibili, fluttuanti tra il grime e l’r’nb. Ciò che però rende peculiare, e molto interessante, la musica di Gatika al di là della definizione di genere è la coltre di petrolio di che la avvolge.
Tutto nelle sue canzoni è deformato, febbricitante, sognante, o meglio onirico, perché più che di sogni sarebbe meglio parlare di incubo; una musica dall’atmosfera alterata, tra suoni notturni e ritmi trascinati. A tratti, la sensazione che si prova stando immersi in questi flutti oscuri è claustrofobica. Per sua stessa dichiarazione, quelle contenute nell’EP sono otto lettere d’amore metaforicamente indirizzate a persone che lui ha perso e amato.
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A tutto ciò, va poi aggiunto un amore di Gaika per le arti visuali, che lo porta ad accompagnare i suoi brani con clip di forte suggestione e impatto ruvido, talvolta al confine con la violenza visiva.
Pensato come una trilogia in atti separati, a completare il progetto di Spaghetto, Another Hole In Babylon, un mini film che condensa le emozioni dei brani, e Glad We Found It.
“Non puoi separare gli spaghetti dalla salsa. Non puoi separare le emozioni dal mondo. Non puoi separare l’arte dalla società”.
Benvenuti nel mondo secondo Gaika.

BITS-RECE: Tiziano Ferro,Il mestiere della vita. Vivi, ama, balla

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Da qualche tempo la musica di Tiziano Ferro aveva preso una strada che mi lasciava non poche perplessità: dopo i primi album ridondanti di influenze r’n’b e soul, il ragazzone di Latina si era sempre più lasciato andare a ballatone melense, spesso tendenti a umori in minore. Grande sfoggio vocale, non c’è che dire, e grandissimo apprezzamento da parte del pubblico, ma a me mancavano i tempi Xverso e Stop! Dimentica, quando Tiziano sapeva mostrare cosa significa prendere dei generi stranieri e portarli nella musica italiana senza cadere in banalità e provincialismi.

E se devo essere sincero, anche quando è uscito Potremmo ritornare, il singolo che ha anticipato il nuovo album, mi ero già immaginato un nuovo capitolo discografico fatto lacrime, downtempo e struggimenti del cuore. Che per un po’ può anche andare bene, perché Ferro le ballate e i lenti li sa fare con tutti i crismi, ma dalla sua musica io voglio sentire più mordente. Cerco, insomma, un po’ meno zucchero filato e un po’ più di croccantezza.
Fortunatamente, Il mestiere della vita, questo il titolo del disco, è stata in questo – se mai fosse possibile – una rivelazione, fin dall’intro di Epic: un album che finalmente tira fuori i denti e ricomincia a mordere con i suoi ritmi decisi, molto diversi da brano a brano, a tratti taglienti; ecco ritornare in primo piano il sound d’Oltreoceano, recuperato senza l’inutile pretesa di adattarlo alla melodia e al bel canto italiano. In questo Tiziano Ferro è sempre stato coraggioso, o meglio un innovatore, non ha cercato di mettere a tutti i costi lo spirito italiano dove non poteva starci, e si è adattato lui (e i suoi produttori, Canova su tutti) all’anima di quei suoni creandosi un ambiente musicale personale.
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In Il mestiere della vita il ragazzo spazia con invidiabile disinvoltura tra r’n’b, soul, hip hop e pop, fino alle lande dell’elettronica e, come in passato ha dimostrato di saper fare, ci unisce l’immensa componente umana dei testi, che ti fa venire il brividino per quelle due o tre parole messe in fila nel punto giusto; Tiziano la vita la sa guardare in faccia e sa raccontarla con trasparenza e sensibilità pura, e quando non è lui a scrivere i testi, sa scegliersi con acume gli autori giusti (vedi, per esempio, alla voce Emanuele Dabbono, che non a caso Tiziano ha legato a sé con contratto in esclusiva).
Questo suo sesto capitolo discografico è quindi in un certo senso un ritorno alle origini, a quelle atmosfere internazionali che ce lo avevano fatto conoscere giovanissimo, ma è anche un disco che sa stupire, soprattutto se si ascolta il duetto con Carmen Consoli in Il conforto, forse il brano più atipico in cui la cantantessa si sia cimentata. O, ancora, è un disco che fa strabuzzare gli occhi quando si scopre che dentro ci è finito anche My Steelo, in duetto con Tormento: chi non è proprio teenager forse ricorderà che costui è stato una delle due colonne portanti dei Sottotono, uno dei primi progetti di area rap italiani tra anni ’90 e primi ’00, e forse si ricorderà anche che prima di esordire con la sua musica il buon Tiziano era stato ingaggiato come corista proprio in un tour dei Sottotono. Scambio di favori? Boh. A me piace più vederlo come un ritorno alle origini.

Melodia, tanta melodia quindi, e soprattutto piena libertà data ai ritmi, declinati sotto una gran varietà di luci, e una presenza nei giusti termini di momenti “sentimentaloni”.
Assurto ormai a tutti gli effetti al rango di “grandissimo” del nostro patrimonio musicale, con questo disco Tiziano fa vedere come si possa fare un album di electro-r’n’b che oltre a far muovere i piedi riesce anche a spiegare come si maneggia questo complicato arnese chiamato vita. O almeno ne offre un lucido punto di vista.

BITS-RECE: Emeli Sandé, Long Live The Angels. Sopravvivere a se stessi

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Come si sopravvive al successo, quello inaspettato, sconvolgente, frastornante? Ne sa forse qualcosa Alanis Morissette, che dopo lo sconvolgimento portato da Jagged Little Pill ha dato ritrovare se stessa e rimettersi in moto, e più recentemente pare ne sappia qualcosina anche Adele, che non doveva proprio essere preparata alla valanga di 21. Ma ne può parlare, e anzi lo ha fatto, anche Emeli SandéL’artista inglese infatti si è ritrovata di punto in bianco nel 2012 al centro di un ciclone mediatico non previsto, dopo che il suo album d’esordio, Our Version Of Events, si è ritrovata a dover gestire un successo probabilmente neanche lontanamente previsto, con un album che è arrivato a vendere più di due milioni di copie nella sola Inghilterra.
Ecco, davanti a una prova del genere, reagire con nervi saldi è pressoché impossibile, tante sono le pressioni, le aspettative, le ansie. Per non parlare dei confronti con altri artisti (vedi alla voce Adele) che media e pubblico si sentono in dovere di mettere in pratica.
Nel corso di questi ultimi quattro anni, Emeli Sandé ha suonato un sacco in giro per il mondo, ma a un certo punto ha sentito il bisogno di fermarsi, quasi sparire, riannodare le fila sparpagliate del discorso e poi tornare. Un ritorno che ha visto la luce con Long Live The Angels, il secondo, generosissimo, album di inediti. Ben 15 tracce nell’edizione standard e 18 nella deluxe, tante erano le cose da raccontare.

Un disco in cui le influenze dance del primo album sono state messe da parte per lasciare spazio alle note più calde del soul: nessuna vampata sulla scia di Heaven quindi, ma una fiamma incandescente che si spande lenta, densissima, quasi in silenzio, mettendo al centro la voce e le parole. Gli interventi più carichi si riducono a una manciata  brani (Hurts, il primo singolo, Highs And Lows, Babe), ma nel resto dei brani si percepisce un calore raccolto, tra influenze di r’n’b e gospel.
Un nuovo viaggio che inizia tra i colori quasi misticheggianti di Selah (Try to hold my breath but it’s filling up my lungs/Try keep it quiet but it’s banging like a drum/And they’re shaking up my bones), prosegue con Breathing Underwater e poi Happen, tra cadute nel vuoto e sguardi rivolti verso l’alto, fino a Highs And Lows, manifesto di vittoria e rinascita personale.
Si fugge, ci si nasconde, ma sopravvivere si può, basta rifugiarsi in se stessi e guardarsi in faccia: la forza di riemergere è lì, davanti a noi. Anzi, siamo proprio noi.

#MUSICANUOVA: Aquadrop, Like A Movie feat. DeMaestro

Like a movie, realizzato in collaborazione con Michele Ranauro in arte DeMaestro, viene definito da Aquadrop “Future R’n’B”: una canzone fuori dagli schemi di genere che unisce elementi Future Bass, R’n’B e il sapore delle produzioni hip hop west coast.

Dopo aver pubblicato per le più importanti label americane di elettronica bass, tra cui la Mad Decent di Diplo, la Buygore di Borgore e la Dim Mak di Steve Aoki, il producer milanese Aquadrop sbarca su Armada, label olandese fondata da Armin Van Buuren e punto di riferimento per la scena dance internazionale.

#MUSICANUOVA: Alicia Keys, Blended Family, featuring A$AP Rocky

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Blended Family (What You Do For Love) è ispirata dal mio viaggio personale volto alla ricerca di una maggior comprensione, supporto e amore in famiglia, per me la famiglia non ha più un’unica definizione e la famiglia moderna è costituita da tutte quelle persone che sono semplicemente desiderose di mettere l’amore al primo posto”.

Il nuovo singolo di Alicia Keys fa parte di Here, il nuovo album in arrivo il 4 novembre.
Un album dove Alicia approfondisce tutti i temi che le stanno di più a cuore dalla condizione esistenziale umana alle politiche globali.

La maggior parte dei crediti di produzione di Here appartiene a un team creativo che la Keys ha soprannominato “the ILLuminaries”, composto da lei, dal cantautore/produttore Mark Batson, dal rapper/produttore Swizz Beatz e dal cantautore e storico collaboratore di Alicia Harold Lilly. Con questo album la Keys ha stilato una vera e propria lista di temi di cui desiderava parlare e il risultato è un viaggio approfondito sulle sue radici newyorkesi e sulla cultura hip-hop.
“In questo album, sono arrivata Here (‘Qui’),un posto dove sono pronta a guardarmi sinceramente allo specchio e a vedere con obiettività chi e che cosa siamo diventati in questo mondo: il buono, il brutto, le ombre e la luce. Mi sono resa conto che per crescere capendosi e accettandosi l’un l’altro dobbiamo riconoscere la complessità di ognuno di noi. Dobbiamo essere in grado di parlarne e incontrarci dove siamo, Here“.

BITS-RECE: Usher, Hard II Love

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Le prime parole mi sento di spenderle per la cover. Il volto di Usher come fosse un busto in marmo mangiucchiato dai vermi o corroso dal tempo. 

Venendo invece al disco, si intitola Hard II Love ed è un piacere ritrovare questo pilastro dell’hip hop /r’n’b dopo alcuni anni di silenzio. Ancora di più è bello ritrovarlo in così splendida forma.

Il rapper sembra aver lasciato tutta la scena all’interprete black, e l’album si snocciola tra pezzi di r’n’b caldissimo e fondente.
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Insomma, i tempi della super hit Yeah sembrano lontani…

Tra i migliori, No Limit, Let Me, FWM e Tell Me.

BITS-RECE: Laura Mvula, The Dreaming Room. Pop, ma non troppo

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Ci sono tante cose dentro a questo The Dreaming Room, secondo lavoro di Laura Mvula. C’è una buona dose di soul, una certa quantità di pop, dell’r’n’b, reminiscenze gospel, persino eco di afro music. E proprio per questo album sfugge a qualsiasi tipo di catalogazione, così come la sua interprete: non certo la più tipica “lady soul”, ma neppure una qualsiasi starletta del pop.

Senza essere un disco indimenticabile, The Dreaming Room è una piacevole dimostrazione di come si possa fare della buona musica fluttuando tra un genere e l’altro, e riuscendo a piazzare un paio di colpi vincenti come il singolo Overcome (guardatevi anche il video!), che vede l’intervento di Nile Rodgers, e la gaudente Let Me Fall.
In People fa capolino nientemeno che la London Symphony Orchestra, anche qui in un amalgama di stili spumoso che sì sale, ma non quanto si vorrebbe e ci si aspetterebbe.

Bene quindi nel complesso, ma la sensazione è che con questo “materiale di partenza” si potrebbe arrivare a tirare fuori qualcosa di molto più intrigante.

BITS-RECE: Beyoncé, Lemonade. Un “album bla bla”

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata i bit.
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Probabilmente l’avrei ascoltato lo stesso, perché comunque Beyoncé mi piace e la sua discografia è tutta presente nella mia collezione di CD. Ma di Lemonade se n’è parlato così tanto che ascoltarlo più che un piacere è sembrato quasi un obbligo.
L’album dell’anno! Ma che, del secolo! Vuoi forse perdertelo? Vuoi non dargli almeno un ascolto, anche solo per dire “anche io c’ero”?

Uscito su Tidal a fine aprile “a sorpresa”, come va tanto di moda negli ultimi tempi, anticipato a febbraio dal singolo Formation, Lemonade è stato presentato come l’album della rivincita, l’album della vendetta di Mrs Carter su Jay Z, marito fedifrago. Cioè, tuo marito ti mette le corna, e tu ci fai sopra un disco per far vedere quanto sei figa a superare il momentaccio?
Mmm…. Qui c’è odore di “album bla bla“.
Cos’è un “album bla bla”? Adesso ve lo spiego.

Andiamo con ordine: la telenovela famigliare dei Carter è iniziata con l’ormai famoso episodio dell’ascensore, quando il rapper sarebbe stato saccagnato di botte da Solange Knowles, sorella minore di Beyoncé, appunto durante un viaggio in ascensore al termine dei festeggiamenti per il Met Gala a New York, il 5 maggio 2014. Il tutto alla presenza della consorte, che nei 3 minuti di video diffusi in Rete appare immobile mentre il marito le prende di santa ragione dalla cognata senza far granché per difendersi. Per settimane i media si sono interrogati sul perché di quel fatto, senza essere mai arrivati a una vera, definitiva soluzione. Tradimento, si diceva, ma i dettagli erano oscuri. E così, sulla famiglia più famosa e influente d’America, dopo gli Obama, è calata un’ombra di sospetto.
Poi ecco arrivare il disco, dal titolo alquanto curioso, Limonata (lo spunto arriva da un insegnamento della nonna, che diceva che se ti offrono dei limoni ci devi fare una limonata, come a dire “prendi ciò che hai e sfruttalo al meglio”), e dentro una manciata di canzoni in cui il rapper/marito viene fatto a pezzi dalle parole taglienti come fuoco della moglie, incazzata nera, che riversa in un album tutta la rabbia che una qualunque signora di provincia avrebbe tradotto di lanci di pentole e stoviglie e imprecazioni tutt’altro che femminili.
“Beyoncé una di noi”, “anche le dive hanno le corna”, “dai Beyoncé, fagli vedere che comanda!” Sono stati più o meno questi i commenti subito arrivati in massa dopo l’uscita dell’album e dopo la visione del video/film che lo accompagnava, con Queen Bee armata di mazza da baseball in abito color polenta. Beyoncé eroina delle cornute, Beyoncé idola delle donne in cerca di riscatto: femminismo di quart’ordine, questo è.
Perché poi a tutto questo si sono aggiunti i fiumi di chiacchiere versati dai media, dai giornalisti e dai critici, tutti indistintamente a lodare l’emancipazione femminile che trasuda da questi nuovi brani.
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Ho provato a scorrere un po’ recensioni di Lemonade, pescandole tra magazine e siti web, e – salvo eccezioni – tutte giravano intorno alla telenovela di casa Carter e al fatto che si trattasse di un progetto audio/video (un visual album, come del resto lo era stato l’album precedente, con la differenza che qui c’è un unico mega video di oltre 60 minuti): quasi nessuno, eccetto pochi, che spendesse due righe a spiegare se questo benedetto disco fosse meritevole di qualche ascolto, non una parola sulla qualità dei brani. Solo chiacchiere sul presunto tradimento di lui, la vendetta di lei e molti interrogativi sull'”altra” (la Becky belli-capelli).
E sui social reazioni entusiaste, gente che si sperticava in lodi sbrodolate, ma non tanto su Lemonade, quanto piuttosto su Beyoncé, le sue strategie di marketing e il suo essere una vera indipendent woman.
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Quindi mi sono preso del tempo, e l’ho ascolto con calma, più di una volta. Per capire, e trovare la dose di genialità di cui tanto si parlava.
Beh, signori, lasciate che vi dica una cosa: se questa è la nuova Beyoncé, io non ci sto a incensarla. Cioè, voglio dire, stiamo parlando di una delle più talentuose artiste del pop universale, una che dopo gli anni gloriosi nelle Destiny’s Child ci ha dato pezzi come Crazy In Love, Halo, Single Ladies, Listen, Love On Top. E adesso che fa?? Dietro al pretesto di sputtanare il marito ci rifila un disco di una bruttezza sbalorditiva, un disco in cui non si riesce a trovare un appiglio, qualcosa che ci dica che quella lì che canta è proprio lei, la stessa Beyoncé che una volta ci faceva strabiliare con l’ugola d’oro e ancheggiare selvaggiamente, e che ora miagola parole di rancore e vendetta in matasse di suoni confuse come Pray You Catch Me, Sorry, o Formation? È proprio lei? Ancora lei? E a voi, pubblico che andava in visibilio per i suoi virtuosismi, piacciono sul serio queste dodici canzoni che non ti fanno muovere neanche l’unghia del mignolino?
Non dico di fare un disco alla Katy Perry o alla Taylor Swift, sei pur sempre Beyoncé, hai una dignità da difendere, ma cribbio, seguire i fili logici dei nuovi brani è davvero troppo complicato! Una roba come Sorry l’avrei vista al massimo come una interlude di massimo 60 secondi in un disco di tipico r’n’b, non come uno dei pezzi di maggior interesse del progetto.

E chissenefrega se il vero scopo del disco era mettere in piazza i panni sporchi di casa Carter! Io da un disco voglio musica, non chiacchiere: non siamo sulle pagine di un giornaletto gossipparo, siamo in un album di Beyoncé, la signora della black music dei giorni nostri! Anche perché ho come il sospetto che dietro a tutta la storia di botte, corna e rivincite, ci sia solo una mastodontica operazione pubblicitaria.

Vediamo un po’: tu e il marito siete in crisi nera, lo ammazzeresti di sprangate ma preferisci far uscire un album e urlare quanto lui è stato stronzo sputtanandolo in mondovisione. Ok, quindi cosa fai? Rilasci il tuo album in esclusiva su Tidal, la piattaforma streaming (a pagamento) ideata proprio da tuo marito?? Eh sì, proprio il gesto di una donna incazzata nera!
E poi che succede ancora? Che proprio lui, il marito fedifrago, solo alcune settimane dopo si ritrova a rappare di matrimonio e limonate in un altro brano (All The Way Up di Fat Joe). Chi non lo farebbe al suo posto, nella sua situazione?
Adesso ditemi, se l’unico valido motivo per ascoltare Lemonade era quello di sentire i versi rancorosi di Beyoncé verso Jay Z, ma si scoprisse davvero che era tutto finto, il valore di quest’album dove starebbe?
Non certo nella musica, quella pare solo un contorno, ed è pure brutta. Neppure nelle chiacchiere, che invece sono tante, troppe. E nemmeno nell’essere un visual album, perché ormai non è più una novità, o nell’essere apparso “a sorpresa” su Tidal, perché ormai l’hanno fatto quasi tutti.
Per questo Lemonade è un “album bla bla”.