BITS-CHAT: Guardare la vita da una panchina. Quattro chiacchiere con… i Ghost

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Dieci anni di musica e quattro album. I numeri dei fratelli Alex ed Enrico Magistri, meglio conosciuto come Ghost, iniziano a diventare importanti.
Per segnare in modo indelebile questo anniversario, la band ha scelto di farsi un gran bel regalo: dieci nuovi brani e fra questo due collaborazioni che definire illustri è decisamente poco.
Fra le canzoni di Il senso della vita, brillano infatti la titletrack e Hai una vita ancora, che vedono rispettivamente come ospiti Enrico Ruggeri e Ornella Vanoni.

Ma la ricchezza di questo disco si rispecchia anche nel messaggio presente nei testi, traboccanti di speranza, di amore e, sopra ogni cosa, di vita, osservata da una prospettiva molto particolare.
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Volevo partire dalla copertina: voi siete in due, ma nella foto c’è solo Alex, girato di spalle tra l’altro…

Alex: Quello in copertina potrei anche non essere io, potrei essere chiunque, non è importante. Non volevamo ritrarre noi due e quello che siamo,sono gli elementi presenti nell’immagine a essere importanti: la panchina, l’erba, la chitarra, l’acqua, il tramonto. La panchina per un bambino rappresenta il momento del gioco, con il genitore o il nonno che lo accompagna al parco, e infatti nella foto all’interno del CD c’è ancora la panchina con le nostre foto da piccoli. Abbiamo scelto quella panchina in particolare perché è artigianale, vissuta, non ne troverai un’altra identica, e richiama un po’ il rock. L’uomo della foto è semplicemente una persona che sta riflettendo con attorno gli elementi essenziali, la terra, l’acqua e la musica, sempre presente nella vita.
Enrico: Non sono i Ghost, ma solo una persona che sta riflettendo sulla vita e i suoi valori, per questo ci è sembrato giusto che ci fosse uno solo di noi, anche perché io in quel momento ero di fianco al fotografo e stavo tenendo fermo un cespuglio per non farlo entrare nell’immagine (ride, ndr). In generale, in questo album non abbiamo voluto dare importanza all’immagine, nel booklet non ci sono vere immagini, ma è piuttosto un percorso che va in parallelo con le canzoni, parte dalla terra, arriva al cuore fino alla pace finale.
Una parole chiave di questo disco e della vostra musica è vita: ma voi lo avete trovate il senso della vita?
A: No, non ci siamo arrivati. Questo album è un po’ una sorta di best of dei dieci anni precedenti, senza riprendere la musica del passato. Dieci canzoni che raccolgono le emozioni vissute in questi dieci anni in maniera semplice, nonostante un titolo così impegnativo. Probabilmente il senso dell’esistenza non lo si troverà neppure in punto di morte, ma ognuno ha la possibilità di costruirsi la propria esistenza vivendo al meglio.
E: Questo album chiude in un certo senso un percorso di dieci anni: siamo partiti con Ghost, un album giovanile, pieno di entusiasmo, forse anche un po’ improvvisato, poi c’è stato La vita è uno specchio, dove abbiamo iniziato a porci delle domande. Successivamente c’è stato un periodo difficile, nostro padre ha rischiato di morire, abbiamo perso un’amica e Alex ha subito un incidente che gli ha quasi compromesso la capacità di parlare e cantare.
A: Fortunatamente tutto è andato per il meglio, ma ho avuto la rotazione della laringe e un ematoma a una corda vocale, per cui non sapevo neppure se sarei riuscito più a parlare.
E: Siamo quindi ripartiti con Guardare lontano, in cui abbiamo voluto dare un messaggio positivo, un disco forse meno introspettivo dei precedenti, in cui ci portavamo dietro gli eventi vissuti.
A: Con Guardare lontano non avevamo ancora la leggerezza di oggi per affrontare un certo tipo di temi, invece in quest’ultimo album abbiamo messo una serenità e una consapevolezza nuova. Non a caso l’ultima frase del disco è “c’è un mondo di colori che non può finire”. Questo, forse, è il nostro senso della vita.
Ospiti d’eccezione del disco, Enrico Ruggeri e Ornella Vanoni: come hanno preso forma queste collaborazioni?
A: All’inizio dell’anno abbiamo deciso di farci un regalo: dopo dieci anni e arrivati al quarto album ci siamo sentiti pronti per un salto, perché non abbiamo mai fatto duetto all’interno dei nostri album, e abbiamo iniziato a parlarne con la nostra produzione. Cercavamo un artista maschile e un’artista femminile, ma mai avremmo pensato di poter attivare a nomi tanto illustri. Scegliendo i brani, volevamo far incontrare il nostro mondo con quello ben più grande di questi artisti, senza però fare una canzone “alla Vanoni” o “alla Ruggeri”, perché la musica si contamina da sola. Quando Ornella Vanoni ha cantato Hai una vita ancora è stata un’ulteriore prova di come la musica non abbia limiti, perché ha portato il suo mondo all’interno del nostro.
E: Con Ruggeri è andato tutto subito in porto, forse anche perché i nostri mondi sono più vicini, per noi lui è l’emblema del cantautore rock ed è una persona squisita, si è interessato al nostro percorso, gli è piaciuto molto il brano. Con Ornella inizialmente i rapporti sono stati un po’ distanti, ma poi abbiamo saputo che è rimasta molto contenta della canzone, ha voluto riscoprire la nostra storia e ha pubblicato anche un messaggio molto carino su di noi. È stato bellissimo vederla così partecipe, sentire con quanta enfasi ha interpretato il testo: il giorno in cui abbiamo ascoltato il brano in studio c’è stato un brivido generale.
A: Quello che tutti ci chiedevamo era come sarebbe uscito il duetto, come si sarebbero amalgamate le nostre due voci, proprio per la distanza di stili, e il risultato ci ha spiazzato completamente, si è completamente lasciata trasportare da quello che avevamo scritto, ed è stato bellissimo.
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A livello di testo, mi hanno colpito due brani: il primo è Le mie radici.
E: Nella sua profonda introspezione, è un brano speranzoso. Il testo recita “le mie radici sono stanche di lottare contro il nulla, contro l’aria e contro il tempo”, ma è da intendere come una lotta contro se stessi, contro chi non si dà la possibilità di sbagliare, chi sa solo aspettare un cambiamento senza mai cercarlo, chi si lascia chiudere in gabbie psicologiche o di mestiere. È un invito a ritrovare le proprie radici ed è forse il pezzo più autobiografico tra tutti quelli che abbiamo scritto fino ad oggi.
L’altro è Ho difeso il amore, cover di Nights In White Satin dei The Moody Blues.
A: Negli anni Sessanta questo brano è stato ripreso da numerosi artisti. Sono tanti i motivi per cui abbiamo scelto di inserirla nell’album: abbiamo rivisitato tante cover in questi anni, soprattutto live, cercando sempre di trovare una nostra via, senza ricalcare quello che hanno fatto gli altri artisti. In questo caso volevamo qualcosa di diverso, un brano che non avessimo mai fatto prima e visto che una versione famosa è quella dei Nomadi, è sembrata la scelta giusta: i Nomadi li sentiamo molto simili a noi, perché sono vicini alla gente, sono veri, semplici, senza sovrastrutture in quello che fanno. Inoltre, questa è una delle canzoni che nostro padre suonava in casa con una tastierina quando eravamo piccoli. Un ricordo delle nostre origini quindi. Infine, l’abbiamo scelta per il titolo: se c’è qualcosa per cui vale sempre la pena lottare, è l’amore, inteso nel suo significato più ampio. Questo brano è il cuore pulsante dell’album, messo proprio a metà.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato date al concetto di ribellione?
A: Sei ribelle quando riesci a trovare quel famoso “equilibrio sopra la follia”, perché essere folli non vuol dire essere ribelli, ma talvolta significa essere fragili, quasi malati. La ribellione invece è quella serenità interiore che trovi quando vai oltre al limite della follia.
E: Oggi ribellione è essere se stessi, non seguire l’imperante corrente che tutti seguono e che ci vorrebbe non pensanti.

BITS-CHAT: Una fotografia con Tiziano. Quattro chiacchiere con… Emanuele Dabbono

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Con la musica ha iniziato ad averci a che fare molto prima, ma probabilmente la maggior parte di noi ha conosciuto Emanuele Dabbono nel 2008, quando ha partecipato alla prima edizione italiana di X Factor, quella di Giusy Ferreri per capirci, classificandosi terzo.
Poi in televisione lo abbiamo visto pochissimo, anche se lui la musica non l’ha mai lasciata. Da allora di cose ne sono successe tante: cinque album, due libri e una nuova esperienza, quella di autore, arrivata dall’invito di una persona molto speciale, che di nome fa Tiziano e di cognome Ferro.
Un sodalizio iniziato nel 2013 con un brano scritto per Michele Bravi, e proseguito con un contratto in esclusiva che ha portato a Incanto, fino a Valore assoluto, Il conforto e Lento/Veloce, tre brani di Il mestiere della vita, ultimo album dell’artista di Latina.
Un percorso incredibile insomma.

Quello che manca adesso è solo una cosa, una piccolissima cosa: una fotografia, che però va meritata.
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Partiamo dall’inizio: come nasce la collaborazione con Tiziano Ferro?

È una storia abbastanza singolare, forse è la prima volta che la racconto: io e Tiziano ci conosciamo dal 1998, quando abbiamo partecipato entrambi al concorso dell’Accademia di Sanremo, che avrebbe poi portato al palco dell’Ariston tra le Nuove proposte del Festival. Siamo arrivati in finale, ma nessuno dei due è stato selezionato: siamo però stati contattati da Alberto Salerno (produttore discografico e marito di Mara Maionchi, ndr) e da quel momento abbiamo preso strade diverse. È capitato poi di incontrarci di nuovo qualche volta, come nel 2008, quando io arrivai in finale nella prima edizione di X Factor e presentai il mio inedito, Ci troveranno qui, mentre lui aveva scritto con Roberto Casalino l’inedito di Giusy Ferreri, Non ti scordar mai di me. Era già una superstar, io invece continuavo la mia gavetta nell’indie rock. Mi fece un sacco di complimenti e mi disse che non mi avrebbe perso di vista: al momento non ci ho dato troppo peso, mi sembrava una di quelle frasi di circostanza che si dicono, invece nel 2013 mi ha contattato per dirmi che gli avrebbe fatto piacere se avessi scritto un brano per Michele Bravi (vincitore della settima edizione di X Factor, ndr), perché gli piaceva la tenerezza che mettevo nella scrittura. Da lì è nata Non aver paura mai, e da quel momento lui ha deciso di mettermi sotto contratto come autore. Lo conosco da quasi vent’anni, e mi fa quasi sorridere pensare che non ho nemmeno una foto insieme a lui: non l’ho mai considerato come “vip”, ma ho sempre ammirato la sua dimensione umana. Credo sia anche per questo che mi apprezza e mi fa piacere che quando mi cita non mi definisce un suo autore, ma un suo amico.
Una storia davvero singolare, e molto bella!
Mi sembra un po’ una storia romanzesca di una volta, quando l’interprete aveva il suo autore di riferimento: un po’ come Vasco Rossi con Gaetano Curreri, io vorrei essere la sua firma. Se mai un giorno faremo una foto insieme, mi piace pensare che sarà lui a chiedermela, e allora vorrà dire che me la sono proprio meritata.
Di fatto, Tiziano Ferro è stata quindi la prima persona per cui hai scritto un brano.
Esatto: dopo il brano per Michele Bravi, Incanto è stata la seconda canzone che gli ho mandato ed è il mio primo vero successo, un po’ inaspettato tra l’altro, perché è un brano in tre quarti dalle atmosfere irlandesi. Il primo giorno di programmazione, su RTL dissero “Ecco il nuovo singolo di Tiziano Ferro, a metà strada tra i Tazenda e i Modena City Ramblers”, e in quel momento ho subito pensato che lo avrebbero tolto il giorno dopo dalla programmazione, invece il pubblico l’ha scelto e lo ha amato.
I tre brani che hai scritto per Il mestiere della vita sono stati composti pensandoli già per Tiziano?
Essendo il mio editore, devo fargli leggere tutto quello che scrivo: ogni volta che mi sembra di aver scritto qualcosa di buono glielo mando sperando che gli piaccia, ma finora non ho mai scritto pensando al destino della canzone, perché la strada che prende un brano è imprevedibile. Io so solo che devo fare del mio meglio, devo cercare qualcosa che abbia il germe della bellezza, che possa essere cantato in uno stadio e duri alle mode e al passare del tempo. La bellezza è l’unico diktat che ci siamo imposti, con la libertà di spaziare dal pop al rock, al soul al jazz. Dobbiamo schiacciare play e sentire noi per primi il brivido.

So che Il conforto non era stata pensata come un duetto.
È stato Tiziano a trasformarla: quando quest’estate ho sentito la versione finale del brano, in duetto con Carmen Consoli, è stata un’emozione indefinibile. Carmen è la prima artista femminile che canta qualcosa scritto da me: sono partito decisamente dall’alto!
Come nasce di solito un tuo brano? Da cosa parti quando scrivi?
Negli ultimi tre anni ho modificato drasticamente il mio modo di lavorare: sono un amanuense, scrivo tantissime canzoni, tutte catalogate in maniera forse un po’ maniacale, e oggi sono a quota 1571 brani. Una mole impressione, ma solo di una trentina vado davvero fiero. Da Capricorno, mi serve una “palestra enorme” per raggiungere un risultato minimo che mi soddisfi. Se agli altri bastano due o tre tentativi, a me ne servono almeno trenta. Scrivo da quando avevo 12 anni e mi piace mantenere la componente ludica: non ho orari o schemi prefissati, mi piace variare ogni volta, partendo dalle parole oppure da un giro di accordi di chitarra o basso, oppure usando Pro Tools, lo stimolo arriva sempre inaspettato. In genere, mi piace comunque avere un titolo da cui partire, come un chiodo a cui poter appendere un quadro.
Il conforto si chiude con troppo, troppo, troppo amore. Ma quand’è che l’amore diventa”troppo”?
L’amore è un’arma a doppio taglio, ci fa sentire migliori e in armonia con tutto ciò che ci circonda, ma è anche capace di toglierci il fiato e di farci sentire mancanti in qualcosa. Esiste un amore totalizzante e un amore destabilizzante, che diventa possesso, gelosia. Il conforto è anche una canzone sul coraggio di ammettere che una storia è finita, prendere in mano il proprio cuore significa prendere le distanze da una situazione che ci ha fatto soffrire.

A proposito del tuo lavoro, tu parli di “compito vitale” e il titolo del tuo ultimo libro è Musica per lottatori: come inquadri oggi la figura del cantautore all’interno della società?
Lottiamo sempre, fin dai primi istanti di vita, si viene al mondo tirando fuori i muscoli. Nel libro, la musica di cui parlo non è fatta di note, ma di parole. Penso che oggi il potere della musica non sia legato solo alle note, agli accordi, alla leggerezza o alla drammaticità che quelle note possono suscitare: oggi le canzoni devono trovare forza nelle parole, devono essere riscoperti i testi, perché se c’è una cosa che abbiamo ereditato dalla tradizione musicale e culturale italiana è proprio il bagaglio dei nostri cantautori, che sceglievano come spendere le proprie parole. Fossati ha detto che il futuro sarà di quella persona che un giorno userà una parola che nessuno ha ancora usato e la farà suonare come una cosa semplice per tutti. Credo molto nel potere curativo delle parole, unite alla musica possono fare del bene.
Negli ultimi anni hai suonato spesso all’estero, soprattutto in America, e hai anche inciso due album in inglese, Vonnegut, Andromeda & the tube heart geography e Songs For Claudia: mai avuta la voglia di tentare la strada fuori dall’Italia?
No, l’ho sognato, ma non ci ho mai davvero pensato. Sono abbastanza conscio dei miei limiti: suonare all’estero mi ha aiutato ad approcciarmi in maniera diversa alla scrittura e al pubblico e soprattutto mi ha fatto aprire la mente eliminando i paletti tra i generi, proprio come fa Tiziano, che passa dallo swing all’r’n’b al soul. Dovremmo imparare a farlo di più qui in Italia, perché spesso anche dai nostri grandi nomi arrivano tentativi un po’ provinciali di approcciarsi a generi diversi, si fatica ad uscire dal seminato. Per me suonare a Central Park o ad Harlem è servito soprattutto come esperienza personale, che ripeterei se ne capitasse l’occasione, ma senza cercare qualcosa di più.

In futuro su cosa vorresti concentrarti?
Sulla carriera da autore, senza per questo interrompere il lavoro da cantautore: come autore però sto provando un senso di libertà che prima raramente avevo vissuto. E poi veder arrivare nella vita delle persone qualcosa che hai scritto tu è una soddisfazione immensa: fa impressione sentire il pubblico di San Siro cantare qualcosa nato in una stanzina.
A questo punto, ho una curiosità da togliermi: che effetto fa sapere che il pubblico spesso non sa chi sia l’autore di un brano ma attribuisce le parole del testo solo all’interprete?
Io sono la persona sbagliata per rispondere, dovresti chiederlo a quegli autori che non vengono mai nominati dai loro interpreti. Posso dire di essere un privilegiato, perché Tiziano non perde occasione di fare il mio nome, addirittura lo ha fatto a Sanremo, roba che quando capita caschi dal divano. Mi sento totalmente appagato per quello che faccio.
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Per chi ti piacerebbe scrivere?
Purtroppo quelli per cui vorrei scrivere lo sanno fare benissimo da soli! (ride, ndr) Se dovessi pensare a una collaborazione, mi piacerebbe moltissimo lavorare con Niccolò Fabi, persona che stimo molto, e Francesco Gazze, il fratello di Max e autore dei suoi testi. Mentre dormi è una delle canzoni più belle scritte negli ultimi anni, che non ha nulla da invidiare a Il cielo in una stanza.

Hai già fatto programmi con i Terrarossa, la tua band?
L’anno prossimo dovremmo tornare con un nuovo album, abbiamo già scelto le canzoni e mi piacerebbe che fosse un disco acustico: ho un sacco di influenze che arrivano da quel mondo, Damien Rice, Counting Crows, ho suonato per le strade in Irlanda e mi piacerebbe far sentire un po’ di quell’esperienza, lontano dai featuring e dai tentativi di avvicinarmi alle radio. Vorrei fare un disco onesto, un piccolo gioiellino, magari registrato tra la sala e la cucina con i microfoni aperti.
Cosa ti resta oggi di X Factor?
Un’esperienza che mi ha dato popolarità e la possibilità di far diventare lavoro una passione, ma anche un’esperienza violenta, lontana dal mio modo di essere e di vivere la musica, perché mi sono dovuto confrontare con le cover ed è stato un po’ limitante. Essendo la prima edizione, non sapevo bene cosa mi aspettava e dopo la prima puntata volevo venir via, invece sono arrivato in finale. Considerando tutto, oggi non so se lo rifarei.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
La ribellione più grande oggi è essere se stessi: può sembrare una frase fatta, ma il più grande anticonformista è chi non guarda tanto fuori per vedere come sono o cosa chiedono gli altri, ma scava molto di più dentro se stesso. In tutti gli ambienti, musica compresa, si resta incanalati in parecchi schemi, e solo quando si va alla ricerca della propria essenza si fanno cose veramente originali, vale a dire uguali a ciò che si è. E essere uguali a se stessi è il più grande atto di “fanculo” che si può gridare al mondo.

Le Mosche all'esordio con Senza ali

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Dopo i primi due singoli, Mi assento e Talent, brano ironico e disilluso con la partecipazione di Nevruz, le Mosche pubblicano il loro primo disco, Senza ali.
“Questo disco è una dichiarazione di attaccamento alla realtà, di riconoscimento dei propri limiti e di scoperta del proprio potenziale di esseri umani. Senza ali è guardare al passato, al presente e al futuro con la massima attenzione e consapevolezza di sé. È ricerca della felicità. È la voglia di guardarsi dentro e confrontarlo con ciò che gli altri vedono dentro sé stessi.”
Tra le dieci tracce, anche una personale rivisitazione di Il mare d’inverno di Ruggeri.

BITS-RECE: Ligabue, Made In Italy. C'era una volta Riko…

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Si fa presto a dire Ligabue. Dopo più di 25 anni di canzoni, uno pensa di conoscerlo, almeno per un po’, per il suo modo di usare la voce, la scrittura, la stesura degli accordi. E lui invece ti spiazza pubblicando un disco al di fuori degli schemi, quantomeno i suoi, e lo intitola semplicemente Made In Italy. Roba che prima di ascoltarlo, uno si immaginava un album che raccontava l’Italia nelle sue vette e i suoi abissi, ma pur sempre nello stile “del Liga”. Invece…
Invece Ligabue è arrabbiato, forse come non lo era mai stato prima, neanche con Mondovisione, dove pure una certa rabbia veniva fuori. La sua è però una rabbia mista alla delusione per un paese “che fa finta di cambiare e intanto resta a guardare”, come canta in La vita facile, il pezzo che apre il disco. E poi c’è comunque l’amore per questa terra.

Una foschia di sensazioni che Luciano ha riversato in quello che, per sua stessa dichiarazione, si può considerare un concept album, il primo della sua carriera.
Il collante è proprio quello del racconto delle piccolezze e dei drammi italiani, non però dal punto di vista del cantautore Ligabue, ma di Riko, una sorta di suo alter ego, un uomo pressato dalla vita, quello che lui sarebbe diventato se la sua sorte non gli avesse riservato la vita che ha avuto. Quello arrabbiato che racconta è quindi idealmente questo Riko, è lui a prendersela con la superficialità dilagante, i politici che promettono “più figa e meno tasse”, ed è ancora lui quello che al venerdì intima agli altri di non rompergli i coglioni.
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E proprio in questo gioco di specchi viene il bello. Perché in Made In Italy, del Ligabue che eravamo abituati a sentire c’è poco. Non proprio nulla, ma molto, molto meno rispetto al solito. Già G come giungla avrebbe dovuto darci qualche sentore, perché un pezzo con quei suoni il Liga non lo aveva mai fatto.

Ci sono un po’ di suoni muscolari, potenti, molto belli tra l’altro, che avevano riempito la scena con Mondovisione, e ci sono alcuni pezzi classici “alla Ligabue”, come appunto La vita facile, Vittime e carnefici e anche il pezzo che dà il titolo all’album, ma in mezzo ci sono riferimenti molteplici, come The Who e il loro Quadrophenia. Ma non ci sono pezzi d’amore e mancano le rapide pennellate di parole con cui Ligabue era solito descrivere scene di realtà.
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La storia di Riko passa attraverso un matrimonio comatoso, un linguaggio duro come mai prima, la frustrazione per la politica e il mondo del lavoro sempre più precario, e poi una brutta avventura con un poliziotto che gli procura qualche punto in testa e qualche minuto di celebrità mediatica, fino al lieto fine di Un’altra realtà, questo sì in perfetto stile Ligabue: “non ho dormito / ma ho visto l’alba / ecco che spunta / un’altra realtà”.
Non so dire se tutta questa impalcatura del concept e di Riko mi ha davvero convinto, forse lo spaesamento è troppo grande e forse Made In Italy non è il lavoro di presa più immediata di Luciano Ligabue, ma suona piuttosto come un disco di passaggio.
Certo è che quando Ligabue “fa Ligabue” la stoffa del fuoriclasse torna fuori.

Divo Nerone Opera Rock: a Roma dal 1 giugno 2017 l’evento-colossal

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Nell’estate 2017 Nerone infiammerà ancora Roma
. A tempo di musica.

Dal 1 giugno 2017 al 31 agosto infatti, Roma tornerà a essere Caput Mundi e rivivrà, esattamente nei luoghi che hanno fatto la storia, i fasti imperiali dell’epoca neroniana.

Grazie alla partecipazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e allo sforzo produttivo di Artisti Associati & Partners, andrà in scena Divo Nerone Opera Rock il più sensazionale spettacolo d’intrattenimento made in Italy mai realizzato.
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L’anteprima mondiale si preannuncia una sfida realmente senza precedenti, che farà vivere un’esperienza irripetibile, in una location unica al mondo, mai destinata ad evento tanto spettacolare quanto maestoso.
L’opera rock offrirà uno scenario epico, affascinante ed unico, prendendo vita all’interno della Vigna Barberini sul Colle Palatino, affacciata direttamente sul Colosseo, e nell’area dove gli archeologi hanno portato alla luce resti della Coenatio Rotunda, la sala da pranzo della Domus Aurea di Nerone, che ruotava giorno e notte imitando i movimenti della Terra.
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Per la prima volta l’eccellenza italiana della musica, del teatro e del cinema, collabora per creare un progetto artistico destinato ad entrare nella storia: il vincitore di 2 Grammy Awards Franco Migliacci, il regista e coreografo dei più acclamati musical italiani Gino Landi, lo scenografo 3 volte Premio Oscar Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo anche lei 3 volte Premio Oscar per arredo e decoro, la stimata costumista Premio Oscar Gabriella Pescucci e con la partecipazione straordinaria alle musiche del Premio Oscar Luis Bacalov.
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Nella ex Vigna Barberini, loation dell’evento, sarà costruita ad hoc la Domus Arena, da circa 3.000 posti, suddivisa negli stessi ordini delle antiche arene romane: Platea Senatori, Gradinate Cavalieri, Miles e Colosseo.
Per tutti gli acquirenti dei biglietti, in accordo con il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, sarà riservato un percorso di accesso alla Domus Arena che permetterà l’affaccio sulla visione notturna dei Fori dall’alto della terrazza.

Lo spettacolo andrà in scena dal 1 giugno al 31 agosto nei giorni di martedì, giovedì, venerdì e domenica in lingua inglese sottotitolato in italiano e nei giorni di mercoledì e sabato in italiano sottotitolato in inglese, sempre alle ore 21:30.
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Biglietti:

Platea Senatori 180 € diritto di prevendita
1° Gradinata Cavalieri 125 € diritto di prevendita
2° Gradinata Miles 80 € diritto di prevendita
3° Gradinata Colosseo 45€ diritto di prevendita

Tutte le informazioni disponibili a questo link.

Le prevendite sono aperte sul sito www.divonerone.it, sul sito www.ticketone.it, presso i 1000 punti vendita del circuito e telefonicamente al numero 892.101.

Contestualmente la produzione lancia una nuova iniziativa per trovare l’ambiziosa imperatrice Poppea, personaggio chiave del Musical non ancora trovato nonostante i numerosi provini dei mesi scorsi.
Da gennaio, attraverso un contest, lanciato sui social network ed i canali ufficiali di DIVO NERONE Opera Rock, si andrà alla ricerca della protagonista.
I dettagli e le modalità verranno svelati nelle prossime settimane.


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#MUSICANUOVA: AFI, Snow Cats + White Offerings

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Gli AFI hanno annunciato l’uscita del decimo album, AFI (The Blood Album), il 20 gennaio 2017.
La notizia è stata accompagnata dalla pubblicazione di due nuove tracce, Snow Cats e White Offerings, già disponibili per il download su iTunes.

Registrato ai Megawatt Studios di Los Angeles, AFI (The Blood Album) è stato prodotto da Jade Puget e co-prodotto da Matt Hyde ed è il seguito dell’album Burials del 2013, che è entrato in Top 10 della Billboard 200.

BITS-RECE: Leonard Cohen, You Want It Darker. Magistrale solennità

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Quando un artista taglia il traguardo di una certa età e dà alle stampe la sua nuova opera, c’è una generale tendenza ad accogliere il lavoro con un po’ di leggerezza: è una tendenza non scritta, tacita, ma largamente diffusa.
Non è ben chiaro quale sia questo limite tra la giovinezza è la vecchiaia dell’arte, ma c’è, ammettiamolo. Si è un po’ generalmente convinti (troppo spesso a torto!) che i colpi migliori di una vita dedicata all’arte debbano arrivare entro una certa data, poi inevitabilmente, quasi per un fatto fisiologico, tutto quello che si fa è mediocre, scadente, comunque non degno di troppe attenzioni. È un fenomeno di cui si sta recentemente rendendo conto Madonna, che di primavere ne ha alle spalle 58: nonostante il suo ultimo Rebel Heart sia migliore di altri suoi dischi pubblicati anni addietro, è stata lei stessa ad accorgersi di essere vittima dell'”ageismo”, la discriminazione dell’età. 

Giusto dare spazio ai giovani, sacrosanto, ma non si può nemmeno arrivare all’opposto di fare dei dati anagrafici un termometro della qualità di un prodotto artistico. La musica è stata, è e sarà piena di esempi di album meravigliosi pubblicati da artisti nel – diciamo così – autunno della loro esistenza.

E se di discriminazione anagrafica ha iniziato a soffrire Madonna, figuriamoci in che situazione potrebbe trovarsi Leonard Cohen, che ha pubblicato il quattordicesimo album nel suo ottantaduesimo compleanno.
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Parliamoci chiaramente, anche se Cohen è uno di quei nomi davanti a cui le gambe dovrebbero iniziare a tremare, non c’è dubbio che per il mondo lui resterà quasi esclusivamente “quello di Hallelujah“, sempre che non la si voglia attribuire forzatamente a Jeff Buckey. La realtà è che la carriera di Cohen è stata fonte di ispirazione per una quantità incommensurabile di musicisti, ha posto una pietra miliare nella storia della musica per i suoi testi, le sue poesie, ben al di là di quelle gemma che porta il nome di Hallelujah.

You Want It Darker, questo il titolo dell’ultimo album, continua gloriosamente il percorso, essendo solo l’ultimo grandissimo album di un gigante della musica dei giorni nostri. 

C’è quasi un’atmosfera liturgica tra queste nuove tracce, un senso di misticismo artistico e di mistero nascosto dal lento incidere della voce cavernosa e a tratti oscura di Cohen, che più che abbandonarsi a un vero canto procede per passi poco più che recitati. 

È come assistere a una solenne salmodia, durante la quale ci si deve alzare in piedi togliendosi il cappello in segno di riverenza. Perché in You Want To Darker la forza espressiva di Cohen si percepisce in tutta la sua integrità, a cominciare dal momento sacrale della titketrack, accompagnata dal Cantor Gideon Zelermyer & The Shaar Synagogue Choir di Montreal.

Un album di nove tracce che restano avvolte in loro stesse, in un denso e oscuro defluire che non si concede tappe e deviazioni di troppo, ma si ricopre solo di essenziale.

#MUSICANUOVA: CNST, La morte avrà i tuoi occhi

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“Le donne aspettavano al porto l’arrivo dei loro uomini”.

Il mare entra in scena da protagonista. Un mare che dà sostegno e speranza, ma che allo stesso tempo, è un mostro antropofago che ruba la vita a marinai e pescatori. La battaglia dell’uomo nei confronti della natura, l’onnipotenza umana presunta stroncata dalla furia degli dei. Una vecchia storia, vecchia come il mondo che ricorda altre storie.

Un mare nero in piena tempesta, un cielo plumbeo minaccioso: è tutto La morte avrà i tuoi occhi, primo singolo che dà il titolo al nuovo album dei CieliNeriSopraTorino.

I CNST (CieliNeriSopraTorino) nascono agli inizi del 2010 da un idea di Mauro Caviglia (voce e chitarra) e Giampiero Morfino (batteria) dalle ceneri dei Sanlait, gruppo dal sapore elettrico settanta e novanta. Sempre su questa linea sonora che accompagna testi cantati in italiano, iniziano a comporre brani originali, suonando nei locali della zona. Partecipano a vari concorsi sul territorio nazionale aggiudicandosi alcuni premi con il brano “La morte avrò i tuoi occhi” nel 2013, e con “Pensiero Mattutino” l’anno successivo. Dopo vari cambi di formazione, alla fine del 2014, con l’entrata nella band di Gianluca Vaccarino alla chitarra e Federico Sannazzaro al basso, il gruppo trova il giusto equilibrio.

BITS-RECE: Lady Gaga, Joanne. Se la verità sta sotto un cappello rosa

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Quando ci affezioniamo a un artista, esattamente come succede nella vita con gli amori e le amicizie, non lo facciamo per scelta, ma perché nasce tra noi e il nostro idolo un’invisibile alchimia data da una speciale affinità di intenti e di spirito. Vuoi che sia la sua musica, i messaggi delle sue canzoni, il timbro della sua voce, il suo aspetto o più probabilmente un miscuglio di tutto questo più un ingrediente misterioso, quando prendiamo in simpatia un artista e ne diventiamo “fan” sappiamo di poterci fidare anche ad occhi chiusi e giuriamo a noi stessi di seguirlo ovunque andrà. Come in amore. Capita poi a volte che, per ragioni che probabilmente solo il nostro idolo conosce, lui/lei decida di cambiare strada, imboccare sentieri nuovi, diversi, talvolta molto diversi, da quelli a cui ci aveva abituati: a quel punto che si fa? Gli si va dietro o ci si ferma a riflettere se ne valga la pena?

Un po’ come quando si rivede un carissimo amico dopo un certo tempo e lo si ritrova profondamente cambiato: siamo noi a non averlo mai conosciuto davvero o è lui a porsi ora in una maniera nuova? La sensazione non può che essere di straniante spaesamento.

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Ecco, esattamente questo è ciò che provato ascoltando per la prima volta Joanne: quasi un senso di disagio, come se in quello che stavo sentendo mancasse qualcosa. Le canzoni mi “parlavano”, ma io non capivo, anche se a cantare era Lady Gaga, proprio quella di cui – musicalmente parlando – negli ultimi anni mi sono fidato di più. Perché sì, io di Lady Gaga posso tranquillamente dire di essere fan, pur non avendo mai messo in pratica certe follie che si sentono dire a volte di certi invasati. Sono un suo fan perché seguo tutto quello che fa, perché trovo in lei un punto sicuro, la sento un po’ mia, sento mie molte delle sue canzoni, perché sento che parlano la mia “lingua”. Adesso però, senza neanche avvisare con troppo anticipo, succede che Stefani toglie di mezzo tutti i ghirigori che aveva usato fino a qualche giorno fa e pubblica un album lontanissimo da ciò che è sempre stata. Così lontano, che se non ci fosse il suo profilo in copertina e la voce nei brani non avesse il suo timbro, si crederebbe tranquillamente che sia il disco di qualcun altro. 

Non saprei dire di che genere sia Joanne: non pop, ovviamente non dance, forse a sprazzi rock, e tanto country. Ma voi capite che non è semplice dire che Lady Gaga ha fatto in disco country… Non un disco di pop addobbato di country, ma proprio un album di country e pochi altri accessori addosso! Niente elettropop, niente elettronica in generale, se non forse in Perfect Illusion, che è però il brano musicalmente più distante dal resto: c’è tanta roba acustica, tante chitarre grezze, percussioni nude, bassi secchi e vibranti, ed è davvero, ma davvero difficile capire che si tratta della stessa cantante che nel 2008 esordì con Just Dance e poi fece ballare l’intero globo con Poker Face e Bad Romance

Dopo il rodaggio dei primi singoli, quando uscì The Fame Monster, Lady Gaga sembrava aver aperto una nuova epoca del pop femminile, un pop fatto di schiaffi diretti al pubblico, un pop immerso in un immaginario non per forza luminoso, sorridente e bello, un pop che assimilava elementi che non gli appartenevano e li riproponeva in una nuova, affascinante veste.

Con Joanne tutta questa impalcatura non c’è più: Lady Gaga recupera il country, per giunta nella sua dimensione più intima e nostalgica, e per farlo si è affidata alla produzione del tanto osannato Mark Ronson. Canzoni come la stessa Joanne, Million Reasons, Angel Down e Grigio Girls sembrano uscire dai bauli di qualche sperduta casa nella prateria, dove il vento soffia forte e il cielo è spesso coperto.

Ovviamente non so perché Lady Gaga abbia deciso di muoversi in quella direzione, ma quel che è certo è che – almeno per ora – si è staccata dalla masnada pop delle colleghe e si è rintanata in un cantuccio in disparte.

Probabilmente l’album venderà molto meno dei precedenti, e l’impressione è che sia lei che i suoi discografici ne siano perfettamente consci, eppure questa volta Lady Gaga ha deciso di prendere a schiaffi il pop stesso. Lei che se n’è nutrita in abbondanza, adesso lo mette da parte e si dedica ad altro, sapendolo fare, va detto, perché resta il fatto che questa ragazza ha dalla sua parte un talento che la fa arrivare dove molti altri possono solo immaginare.

Più che giusto domandarsi allora quale fosse la vera Gaga, se quella vestita di fettine di manzo o questa con il cappellone rosa da cowgirl, se quella del pop pestatissimo o questa a cui basta imbracciare una chitarra. Abbiamo sempre capito male noi o è stata lei a farci illudere?

E se da una parte parlo di illusione è perché dall’altra c’è delusione. Delusione per non aver ritrovato l’artista che da fan credevo di conoscere, delusione per non aver ritrovato la musica che volevo ascoltare. Perfect Illusion aveva fatto accendere il campanello d’allarme, adesso Joanne fa scattare la sirena.

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Ma al di là di tutte queste belle chiacchiere, com’è questo benedetto disco? Più bello di come lo pensavo e più brutto di come avrebbe dovuto essere.

La prima metà dell’album la si può tranquillamente tralasciare, ad eccezione della già citata Joanne, una ballata dal testo toccante dedicato alla zia paterna morta di lupus in giovane età: la situazione cambia e si risolleva con sollievo a partire da Million Reasons. Da lì le acque si smuovono e arrivano un po’ di stimoli interessanti, come Sinner’s Prayer e il suo giro di chitarra nerboruto. E poi, dicevo, Angel Down e soprattutto Grigio Girls, a cui senza esitazione consegno la medaglia d’oro. Un pezzo in cui sventola più alta che mai la bandiera del blue mood e che rischia seriamente di spingere fuori qualche lacrima (e poi c’è quel riferimento non troppo velato alle Spice… Colpo basso!). Perché sia finito solo nella deluxe edition, quando merita assolutamente il più ampio ascolto possibile, resta un altro mistero di questo album…

Peccato un po’ per Hey Girl, in duetto con Florence Welch, che si perde senza mordere come avrebbe dovuto.

Prima di ascoltare Joanne dimenticate tutto quello che sapevate (o pensavate di sapere) su Lady Gaga e prendete questo disco come il grande salto di una cantante che non ci ha pensato troppo ad azzardare. Qui dentro Lady Gaga non c’è. C’è una brava artista americana che ha stoffa da vendere, e la vende a chi vuole e come vuole, anche se ci fa corrucciare un po’ troppo la fronte. Se amate il country, forse amerete Joanne, se non lo amate ci dovrete sbattere violentemente il naso contro, ma potreste anche trovarci qualcosa di buono.

Insomma, per farci un bel bagno colorato nel pop, pare che dovremo aspettare il prossimo album di Katy Perry. Sempre che anche lei non abbia intenzione di indossare un cappello rosa.

#MUSICANUOVA: L’Introverso, Manie di grandezza

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“Il brano parla di chi da piccolo veniva marchiato come qualcuno dal futuro certamente negativo solo per il luogo di provenienza. Nel nostro caso la Barona, un quartiere della periferia sud di Milano. E’ una canzone contro i pregiudizi, è un brano di riscatto. Crescere, sognare in grande, impegnarsi, vincere, perdere, ritrovarsi persone normali”.

‎Così Nico Zagaria, voce de L’Introverso e autore del brano, parla di Manie di grandezza, terzo estratto dal secondo album della band, Una primavera.

“Non avevamo il budget per un altro video così ci siamo detti: Facciamolo da soli, a costo zero. Abbiamo buttato sul tavolo qualche idea e poi Futre, il nostro bassista, e Mauro Ferrarese, un caro amico d’infanzia, l’hanno realizzato”.