BITS-CHAT: Gli #Spostati, l'indie e l'elettrorock. Quattro chiacchiere con… i REMIDA

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Hanno fatto idealmente da colonna sonora al viaggio della coppia degli #Spostati durante l’ultima edizione di Pechino Express, l’adventure game di Rai2 giunto quest’anno alla quinta edizione.

I REMIDA, band pop-rock della scena indipendente modenese, hanno infatti raccolto l’invito di un amico e hanno realizzato Gli #Spostati, un brano dedicato proprio a Tina Cipollari e Simone Di Matteo, da molti considerati i vincitori morali del programma.
Un brano vivace, dalle sonorità latin e con un testo colorato come i personaggi di cui parla. Un progetto che la band considera come un ritorno al passato e una felice parentesi nel suo cammino musicale, in futuro diretto verso territori più elettronici, come spiega Davide Ognibene, cantante del gruppo.
Perché arrivati a un certo punto, non si può continuare a fare quello che il mercato vorrebbe da te, ma bisogna seguire musica che ti faccia venire i brividi.
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Come, quando e perché i REMIDA hanno deciso di dedicare una canzone agli Spostati?

Partiamo proprio dall’inizio: è nato tutto quest’estate da un’idea di Simone Pozzati, un autore con cui avevo già lavorato in passato e che lavorerà anche ad alcuni progetti futuri della band. Mi ha detto che una coppia di suoi carissimi amici stava per partire per un’avventura e voleva dare una musica a un testo che aveva scritto per loro. Io, con il classico mood da musicista che spesso mi contraddistingue, quando ho scoperto chi erano e di quale avventura si trattava, ho accantonato la cosa. Poi durante un giorno di pausa del tour ho riletto il testo e ho visto che in effetti aveva delle immagini molto divertenti, era assortito tanto quanto lo è poi stata la coppia. La melodia mi è quindi uscita quasi da sola, a Simone è piaciuta e noi REMIDA l’abbiamo incisa, prendendola con grande leggerezza, come un gioco.
Quindi tu non conoscevi Tina e Simone Di Matteo?
Esatto. Ci siamo conosciuti personalmente e professionalmente solo in seguito: ci hanno manifestato un grande apprezzamento per il brano e per noi è stato un motivo di orgoglio.
I tuoi dubbi iniziali sono spariti?
Come dico sempre, lo snobismo da musicisti andrebbe cancellato, ma non è facile, soprattutto oggi che l’ambiente televisivo è sempre più legato a quello musicale. Una vicinanza che paradossalmente porta molti artisti ad assumere atteggiamenti di chiusura, anche se in fondo stiamo facendo la stessa cosa, spettacolo. È un atteggiamento che ogni tanto riconosco in me, ma di cui non mi vanto assolutamente.
Come va considerato questo brano all’interno del percorso musicale dei REMIDA?
C’è un imprinting musicale completamente diverso: come band, negli ultimi due anni abbiamo cercato di fare quello che il mercato intorno a noi chiedeva, ma adesso abbiamo tagliato il traguardo dei 30 anni e non possiamo più permetterci di continuare a seguire questi meccanismi. Abbiamo scelto di fare quello che ci va, e già quest’estate con il singolo Luce delle stelle abbiamo intrapreso una strada con molta più elettronica, un sound internazionale che si rifà un po’ a One Republic e Coldplay, sempre in italiano. Con Gli Spostati abbiamo ripreso quel suono un po’ latino con cui abbiamo iniziato, e ci ha fatto quindi piacere realizzarlo.

Un nuovo corso per il futuro quindi?
Stiamo lavorando a un nuovo disco che uscirà forse l’anno prossimo e c’è già l’idea per il prossimo singolo: si intitolerà DeLorean, come la celebre automobile, e il testo farà fare un tuffo nel passato. Tutto il progetto sarà elettropop, con filo di rock.
La storia dei REMIDA è partita ormai dieci anni fa: come hai visto cambiare il panorama musicale in questo periodo?
Quando abbiamo iniziato, l’indie era davvero indie e nasceva dalla volontà di proporre qualcosa di diverso. Oggi l’indie è quasi più pop del pop, non c’è più ricerca: per carità, nulla di male, tutti lavorano e lo fanno per ottenere risultati, ma è evidente che oggi gli artisti ragionano molto pensando più a quello che può piacere all’esterno più che a se stessi. Per sfondare pare che si debba per forza fare un talent, che altro non è che un karaoke amplificato in cui ti impongono pure l’inedito, gli uffici stampa sembrano decidere per te quali brani far uscire, la radio hanno pochissima libertà di movimento, insomma tutto è piuttosto standardizzato. Fino a sei, sette anni nel circuito underground si trovavano ancora artisti che proponevano cose diverse, oggi lo riesce a fare solo qualcuno che si fa strada attraverso il web: non mi riferisco però al web alla maniera di Benji e Fede, ma al lavoro di artisti come Calcutta, Ermal Meta, Marta sui tubi, tutto quel panorama che in questi anni s è mosso sul web e ha fatto sentire qualcosa di bello.
Mai nessuna tentazione di fare un talent?
Sarei ipocrita a dire di no: come tutti i treni, abbiamo provato a prendere anche quello, senza però concretizzare niente. Non voglio giustificare il fatto di non essere mai stati presi, ma non eravamo davvero convinti e quando ci veniva chiesto dove ci sentivamo più fuori luogo, la nostra risposta era “qui”, il che ci escludeva direttamente dai giochi. Probabilmente non siamo il prodotto più adatto per quel mondo, abbiamo idee molto chiare su quello che vogliamo e non vogliamo fare: anni fa, quando dovevamo fare le selezioni per X Factor, il nostro vecchio produttore ci ha chiesto se riuscivamo a immaginarci Ligabue che cantava cover di Ramazzotti. Ecco, quella riflessione mi ha fatto capire tanto.
Ma allora perché uno come Manuel Agnelli ha scelto di metterci la faccia come giudice?
Per lui c’è convenienza: prima ho fatto un po’ di demagogia, ma non escludo che se fossi al posto forse accetterei anch’io di partecipare. La mia critica è verso il sistema che regge quei programmi e probabilmente lui ha trovato il modo giusto per starci. D’altronde, nessuno fa questo mestiere per suonare in cantina, tutti vogliamo arrivare al maggior pubblico possibile. Inoltre, gli Afterhours sono partiti dall’underground, ma con gli anni sono diventati la band più popolare di quel settore, i più pop dell’indie, non sono certo diventati famosi con X Factor. Dopo più di vent’anni di attività, per loro può essere un modo di trovare professionalmente nuove strade.
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Con chi ti piacerebbe lavorare tra gli artisti italiani e stranieri?
Tra gli italiani sarebbe una bella lotta: soprattutto però, Ligabue ha una bellissima penna, è vero in quello che fa, e poi Cesare Cremonini, che ultimamente ci ha incantati. Poi, come dicevo, c’è tutta una serie di artisti che apprezziamo molto, da Calcutta ai Marta sui tubi, i Tre allegri ragazzi morti, I ministri… A livello internazionale, un nome su tutti è quello dei Coldplay.
Una curiosità: perché REMIDA?
È nato da un insieme di tre note di uno dei nostri primi pezzi, re, mi e do, ma suonava male, così abbiamo cambiato il finale è l’abbiamo scritto in maiuscolo e tutto attaccato, pensando che nessuno lo avrebbe ricollegato al personaggio mitologico, invece è la prima cosa che ci chiedono.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Domanda “marzulliana”, perché ribellione può voler dire tutto e nulla. Per me, vuol dire riuscire a tirar fuori la vera natura senza cadere negli estremismi, e vale in tutto, musica, politica, vita quotidiana. La ribellione, quella vera, richiede intelligenza: non serve mettersi a strillare per far sentire le proprie ragioni, ma la rivoluzione va portata nel silenzio. Purtroppo, è il contrario di quello che sta accadendo oggi, con tutta quella “cagnara” che c’è lì fuori a cominciare al mondo politico.

BITS-RECE: Rebecca Ferguson, Superwoman. Scintillio di soul

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.

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Già arrivata al quarto album, Rebecca Ferguson si dimostra una gran dama del soul dei giorni nostri. La ragazza che solo cinque anni fa si è messa in luce a X Factor UK, è oggi un’artista in piena corsa e in piena autoaffermazione.La sua ultima fatica si intitola Superwoman ed è – come si può ben intuire – un inno alla forza e alla rinascita, prima di tutti sue, in secondo luogo di tutte le donne, infine di ognuno di noi.

Un album di grande carica e un concentrato di scintillio soul, che lo pervade dalla prima all’ultima traccia. La signora ci sa fare alla grande, e con la sua voce vagamente felpata dimostra di saper regalare meraviglie: d’altronde, non dimentichiamo che solo l’anno scorso la Ferguson si è cimentata in un coraggioso progetto di cover di Billie Holiday, uno dei suoi punti di riferimento artistico, indi per cui è facile capire quanto lo spirito del soul o del jazz trovino in lei salde radici nonostante la giovanissima età.

A cominciare dal singolo Bones, cover di Ginny Blackmore, per poi passare a Mistress, Superwoman, Stars, Don’t Want You Back, Withou A Woman si assiste a lucenti esplosioni di musica, tripudi di declinazioni tra pop e soul, inni di battaglia di un’anima che è caduta, si è rialzata e vuole gridare forte la sua vittoria.

Un album di altissimi voli.

“La nostra elettronica in minore”: arriva Detachment, il primo album degli Urban Strangers

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Li avevamo lasciati a dicembre con la vittoria sfumata nella nona edizione di X Factor, anche se poi si erano rifatti con il successo dell’EP Runaway. Adesso per gli Urban Strangers è tempo di ritorno. Il primo album si intitola Detachment, ed è una delle cose più lontanamente italiane che siano state finora partorite da ex concorrenti di talent. Forse solo Madh li aveva in questo anticipati.

Un disco molto poco italiano non solo per la lingua in cui sono cantati i 10 nuovi brani, l’inglese, ma anche per le ispirazioni elettropop che trasudano in ogni singola traccia e che a un ascolto ad occhi chiusi farebbero pensare all’ultimo lavoro di due teen idol d’Oltreoceano: “Forse nella musica italiana non c’è qualcosa di simile a ciò che proponiamo noi. Ascoltiamo tanta musica italiana, ma non ne siamo influenzati. Vorremmo riuscire a puntare all’Europa: è una sfida, perché il pubblico europeo è come una bestia che dobbiamo attaccare”.

I punti d’interesse di Detachment però non finiscono qui: il titolo infatti, che nella madrelingua suona come “Distacco”, fa riferimento alla voglia dei due ragazzi di esplorare le varie forme di allontanamento fisico, psichico e metaforico che si possono sperimentare nella vita. Un’esigenza che, come raccontano, è nata proprio in seguito alla partecipazione al talent di Sky, al termine del quale si sono ritrovati catapultati in una dimensione frenetica, con nuove pressioni da parte di discografici e fan, i tempi di lavoro ristretti, conseguenze fisiologiche della popolarità acquisita: “Dovevano prendere coscienza di quello che stava succedendo e di quello che stavamo facendo: la scrittura dei nuovi brani ha segnato in questo una ripresa e ci ha aiutati. Quando siamo andati a X Factor lo abbiamo fatto con la consapevolezza di ciò che eravamo e sapevamo fare, senza logiche di mercato: il programma comunque non ci ha plasmato, perché in questi casi sei tu a dover plasmare il programma, non viceversa”.
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Stupisce anche quell’aura di pessimismo e di dubbio che pervade i testi, tutte quelle domande esistenziali che di solito non si sentono nei lavori di altri ragazzi della loro (giovanissima) età: sentimenti freddi, nuvole emotive, incertezze sulla realtà e sul senso stessa dell’esistenza. Nel primo singolo, Bones, il protagonista chiede se l’altra persona lo riconoscerà anche quando di lui resteranno solo delle ossa fredde. Un po’ come si domandava tanti anni fa Eric Clapton, ma qui suona molto più sinistro e un po’ meno poetico.

Amiamo distruggerci con il pensiero, abbiamo l’attitudine a farci domande e spesso tendiamo ai suoni in minore, ma non siamo depressi, sappiamo anche divertirci”. E in effetti il mondo degli Urban Strangers è fatto di contrasti e abbinamenti talvolta singolari. Se già il loro nome racchiude un ossimoro, non può sfuggire la collocazione di un pezzo come Intro piazzato proprio sul finale: “Fa parte del nostro modo di vedere la realtà, capovolgendo le cose, è un’espressione del non sense in cui viviamo, la voglia di non avere regole e divertirci”.
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Tra le forme di distacco di cui si parla, anche quella sensoriale della marijuana, raccontata in Bare Black Tree: “Come molti adolescenti, anche noi ne facciamo uso, e quel brano è stato scritto in uno di quei momenti, è un’immagine nata da quella suggestione: anche questa è una forma di distacco dalla realtà”.

Nessun brano in italiano per ora: “Ci stiamo provando, ma non ci siamo ancora arrivati. Forse in futuro, e chissà, magari lo scriveremo in maggiore”.

BITS-CHAT: Imparare dal dolore. Quattro chiacchiere con… Antonella Lo Coco

La delusione che si trasforma in forza dopo la fine di una storia fatta di bugie. Parla di questo Non ho più lacrime, l’ultimo singolo di Antonella Lo Coco.
Un brano potente, che segna una virata verso sonorità rock, dopo i variegati colori pop dei suoi primi album. Ma Non ho più lacrime è anche il primo frutto dell’incontro tra Antonella e Fiorella Mannoia, che del brano ha scelto di curare la produzione.

Un brano che mette al centro il dolore, ma che si conclude con una dichiarazione di libertà. Perché dal dolore si impara sempre.
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Non ho più lacrime nasce dall’incontro con Fiorella Mannoia: come siete entrate in contatto? E come si è sviluppata l’idea di dar vita prima a questo singolo e poi all’album, che vedrà proprio la produzione di Fiorella?
Siamo entrate in contatto alla finale di X Factor nel 2012..in quell’occasione duettammo su una sua canzone. Successivamente Fiorella mi contattò perché aveva una bramo che riteneva perfetto per me: ci incontrammo per ascoltarlo insieme e da lì iniziammo il progetto. Proseguire oltre il brano è stata un’idea nata spontaneamente per dare una continuità al primo singolo. Sono felice di avere questa opportunità di lavorare con Fiorella e il suo team di lavoro soprattutto perché lavoreremo anche su alcuni brani da me scritti.

Il singolo sembra aprire un nuovo capitolo anche per quanto riguarda i suoni, che dal pop si spostano su un versante più rock: è così? L’album avrà questo taglio?
Assolutamente si. Le sfumature rock sono sempre state in me e finalmente posso tirare fuori al mia anima musicale. L’album è ben rappresentato dalle sonorità di Non ho più lacrime.

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Quali artisti, italiani e internazionali, vedi come punti di riferimento?
Negli anni i punti di riferimento sono cambiati e sono tanti. Gli spunti internazionali hanno influenzato molto la mia scrittura, ho sempre ascoltato molto Tori Amos, i Depeche Mode, i Muse.

Credi che sia vero che il tempo aggiusta le cose e cura dal dolore?
Credo che il tempo aiuti a essere più lucidi per poi affrontare le situazioni che la vita ci pone davanti. Ci sono vari tipi di dolore: il dolore per la fine di una storia d’amore è destinato a finire e a svanire con il tempo, il dolore per la perdita di una persona cara credo possa attenuarsi, ma mai finire.

In genere come ti poni di fronte alle situazioni dolorose: le affronti, pur sapendo a cosa porteranno, oppure cerchi il più possibile di evitarti di soffrire?
Il mio carattere e la mia indole istintiva mi portano sempre a prendere di petto tutte le situazioni, positive e negative, e quindi a vivere le emozioni fino in fondo nel bene e nel male.

Per quella che è stata la tua esperienza, cosa hai imparato dalle esperienze dolorose? Il dolore è in qualche modo terapeutico?
Le esperienze dolorose insegnano sempre qualcosa. Non credo che il dolore sia terapeutico, ma dal dolore si può imparare.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: cosa significa per te il termine “ribellione”?
Il mio soprannome da sempre è Ribella, quindi direi che di ribellione ne ho masticata. Una ribellione adolescenziale sana e costruttiva che mi ha sempre portato a raggiungere i miei obiettivi.

#NUOVAMUSICA: Mosche feat. Nevruz Joku, Talent

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“L’artista viene spesso messo nello stesso grande calderone di chi non ha la minima cognizione di cosa sia l’arte (intesa in tutte le sue accezioni) ma ha solo interesse ad apparire e a farsi plasmare per far ingrassare le major. Assistendo all’ennesima dimostrazione di un’Italia in cui non viene premiata la meritocrazia, l’unico posto dove far sentire la propria voce resta la strada”. 

Così le Mosche raccontano il loro nuovo singolo, Talent, che vede anche la partecipazione di Nevruz Joku, noto al pubblico per essersi guadagnato il terzo posto proprio grazie a un talent show, X Factor.

Il progetto Mosche nasce nell’ottobre 2014 a Roma e si manifesta come naturale bisogno di esprimere, come osservatori esterni, la disillusione che caratterizza gli inizi di questo secondo millennio. Le persone credono e cercano continuamente di sentirsi al centro del mondo, celebrando invece un isolamento ed una povertà spirituale potenti: non cercano mai dentro se stessi la causa del proprio malessere.
Attraverso un “ronzio” ad alto volume, le Mosche fanno luce sul “letame” attorno al quale volano e di cui sempre si sono per necessità nutrite.
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