“Vorrei sentire ancora così tanta energia. Vorrei continuare a giocare”.

Credo in questa affermazione sia ben racchiuso tutto il senso del fare musica secondo Cosmo. La pronuncia lui stesso verso la fine di Antipop, il documentario incentrato sui primissimi anni della sua carriera, in cui si rivedono le sue prime esperienze in gruppo con gli amici, nate per gioco negli anni dell’adolescenza a Ivrea, fino alla svolta, arrivata con il secondo album del suo progetto solista. Un album che nelle intenzioni doveva l’ultimo – L’ultima festa, appunto – ma che, come spesso succede, il caso della vita ha trasformato in una sorta di pietra d’angolo.

Antipop è arrivato in streaming sulla piattaforma MUBI il 1 marzo, due settimane prima dell’uscita del nuovo album del producer di Ivrea, Sulle ali del cavallo bianco.
Ovvio che le due cose non sono per nulla casuali, ma penso che sarebbe un errore vederci dietro solo un’operazione di marketing.

Antipop è una lente per guardare più a fondo nel mondo di un artista atipico del panorama italiano; è una chiave di lettura per comprendere meglio il passato e il futuro della sua carriera.

Nei 60 minuti del documentario non c’è un dettaglio, un frame, una parola che assomigli anche lontanamente all’autocelebrazione: basti pensare che del protagonista si sente solo la voce fuori campo, mentre le immagini – salvo qualche spezzone live – sono raccolte dalle registrazioni amatoriali degli anni della gioventù. Si vedono invece i suoi amici, quelli storici, quelli che hanno iniziato a suonare con lui nelle camerette, nelle cantine, quelli degli anni della gavetta, di quanto la musica la si fa perché ci si crede davvero, e la si fa perché si ha semplicemente voglia di farla insieme.

E si vede la sua famiglia, suo padre, sua madre, suo fratello, i suoi nonni, che in un momento di follia giovanile si sono licenziati dalla Olivetti – perché la storia è pur sempre ambientata a Ivrea – e si sono trasferiti nello Sri Lanka. A fare cosa e come sia andata quell’esperienza lo lascio scoprire a chi avrà voglia di guardare il documentario.

La storia di Cosmo è una storia comune, ordinaria, in cui non c’è proprio niente di speciale o di eroico: è una storia di provincia, che si porta dietro tutti gli elementi tipici delle storie giovanili di provincia. Comprese le ombre, ovviamente, che a volte sono molto scure.

Le lunghe sessioni musicali casalinghe, i concerti davanti a una decina di paganti, la morte di un amico, le strade che si dividono. Ancora una volta, il caso.

La copertina del secondo album di Cosmo, “L’ultima festa”

E poi… poi succede che gli anni passano e si inizia a chiedersi se non sia ora di diventare adulti, trovarsi un lavoro “vero”, “mettere la testa a posto”, qualunque cosa questo voglia dire.
Ci siete passati anche voi, vero?
Per Cosmo quel momento ha coinciso con il secondo disco da solista, a 34 anni, nel 2016. Un ultimatum: o andava bene o basta con la musica. Se però doveva essere un’uscita di scena, che almeno fosse fatta bene. Ecco allora L’ultima festa.

Come siano poi andate lo possiamo ben immaginare.

La festa era bel lontana dal terminare, il tempo per giocare era tutt’altro che finito. Anzi, lo spettacolo più bello stava per iniziare proprio in quel momento. C’erano ancora tanti balli da scrivere, tanto amore e tanta libertà da raccontare, tanti voli sonori a cui aggrapparsi.

“Quelli che ballavano erano visti come pazzi da quelli che non sentivano la musica”, recita un aforisma di Nietzsche.
Figuriamoci cosa direbbero oggi, se li vedessero ballare sulle ali di un cavallo bianco.

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