#MUSICANUOVA: Gigi D’Agostino e Terraròss, “Tarantella tarantella”
Cosa succede quando la musica popolare pugliese incontra la console di uno dei più iconici DJ d’Italia?
Succede che l’estate si infiamma sulle note di Tarantella tarantella, il nuovo singolo firmato da Gigi D’Agostino e Terraròss, uno dei gruppi indie-folk più interessanti del momento (tra gli altri, si è accorta di loro anche Madonna).
Da un lato i bpm inconfondibili “lento violento” di Gigi Dag, il Capitano della musica dance, non nuovo a contaminazioni con la musica della tradizione popolare italiana (ricordiamo Radici Dag, che riprendeva un celebre pezzo di un altro gruppo pugliese, i Sud Sound System), dall’altro i Terraròss, gruppo popolare impegnato nell’interpretazione e nel riadattamento dei brani della tradizione pugliese e nella composizione di nuovi secondo i medesimi canoni.
Il risultato è un brano dance che fonde mondi diametralmente opposti, ma che trovano qui un’inedita connessione.
Gigi D’Agostino è il deejay italiano più amato e più noto a livello internazionale. Con le sue innumerevoli hit e tormentoni e le cifre da capogiro raggiunte nel corso della sua carriera è entrato di fatto nell’olimpo dei guru della dance culture. È l’unico deejay italiano ad aver superato il miliardo di stream con un unico singolo (In my mind, 1.3 miliardi di ascolti solo su Spotify, e doppio Disco di Platino solo in Italia).
Tra le sue storiche hit, L’amour toujour, La passion, The riddle, Another way, Bla bla bla.
BITS-RECE: Romina Falconi, “Rottincuore”. Un Louvre alla rovescia
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
“È stato bello anche schiantarsi e pensare di volare, e mi manca soprattutto quello che non è successo”
La cover del CD di “Rottincuore”
In Il ritratto di Dorian Gray, romanzo capolavoro di Oscar Wilde, il protagonista, un giovane bellissimo la cui morale viene corrotta dalla frequentazione con la nobiltà della Londra vittoriana, rimane abbagliato dalla bellezza che vede in suo ritratto, e al solo pensiero di invecchiare e di vedersi sfiorire sceglie di vendere la propria anima pur di preservare il suo corpo dalla decadenza fisica.
Lui resterà bello e aitante per sempre, mentre il dipinto invecchierà al posto suo e diventerà lo specchio dell’abbruttimento della sua anima. Tanto Dorian rimarrà esteriormente meraviglioso per via del sortilegio, tanto il quadro – nascosto alla vista di tutti – diventerà sempre più orripilante. Credo di non fare uno spoiler se scrivo che la storia finisce abbastanza male: Dorian viene sopraffatto dal senso di colpa e, in un rimorso di coscienza, pugnala il ritratto e così facendo rompe l’incantesimo. Il quadro torna all’aspetto originario, mentre il protagonista si imbruttisce e muore con le sembianze di un vecchio.
Facendo un po’ di psicologia spicciola si può dire che una delle morali dell’opera sia che nascondere le proprie magagne, i propri lati oscuri e mostrare agli altri solo la facciata più levigata e accomodante può funzionare per un po’, ma alla lunga nuoce, a noi e agli altri. Senza contare che nessun segreto vive troppo a lungo e prima o poi le crepe dell’anima sono destinate a manifestarsi.
Ecco, se nella musica c’è qualcuno che questa cosa ce l’ha insegnata è Romina Falconi, la più nera e spietata delle popstar di casa nostra. Perché se tradizionalmente (e a torto) il pop è il genere rassicurante e accomodante per antonomasia, fin dal suo primo album (era il 2015 quando uscì Certi sogni si fanno attraverso un filo d’odio, un manuale di cattivi pensieri confezionato in una carta di paiettes) Romina ha dimostrato che il pop può essere tagliente, crudele e sanguinario esattamente come l’hip-hop e il metal, affilato per affondare la lama nell’anima e scandagliare i suoi fondali senza perdere un grammo di glamour e luccichio. “Psicopop” lo avevo chiamato qualche anno fa. Che il pop avesse anche questo potere all’estero forse lo sapevano già, qui in Italia invece eravamo più abituati a vederlo abbinato alle canzoni d’amore, tutt’alpiù ai tormentoni estivi.
Ora per la Falconi è arrivato il tempo di un nuovo lavoro, il terzo. Un progetto partito ormai alcuni anni fa e che non sarebbe giusto circoscrivere solo a un album, visto che i singoli che hanno anticipato l’uscita del disco sono stati accompagnati ciascuno da un magazine (il Rottocalco) e l’intero album è stato portato nelle sale cinematografiche sotto forma di mediometraggio. Ma chi conosce Romina sa che rompere le regole del sistema è nel suo DNA.
Il titolo del disco è abbastanza eloquente, Rottincuore. Un progetto concepito per mettere in luce le ombre che ciascuno di noi inevitabilmente ha, svelare i lati più scomodi della nostra anima, dare la parola ai reietti, in un modo che celebra solo eroi e paladini positivi.
La cover del vinile di “Rottincuore”
E chi sono i rottincuore? Sono coloro che hanno fallito, che sono caduti nelle proprie debolezze, che hanno spento l’amor proprio per dare voce alle voragini della disperazione, coloro che almeno una volta si sono trovati “nudi davanti all’angelo che era il più bello”. I Rottincuore siamo, insomma, semplicemente noi, quando chiudiamo la porta di casa, ci disconnettiamo da Instagram e ci ritroviamo faccia a faccia davanti allo specchio. O meglio, rottincuore lo siamo sempre, ma è in quei momenti che siamo disposti a dircelo. Non c’è giudizio, ma solo voglia di prendere consapevolezza che fragili, oscuri e malefici lo siamo tutti, chi in un modo chi nell’altro. Ognuno afflitto dalla propria colpa, dal proprio peccato, schiacciato dalla propria croce e dalle proprie miserie. E infatti Rottincuore è proprio questo, una galleria di peccatori, una sfilata di talenti neri, di campioni dell’errore.
Ascoltandolo attraversiamo una sorta di Grande Galerie di “un Louvre alla rovescia”, in cui al posto di una successione di capolavori di bellezza assistiamo a una sfilata di ritratti da censurare. Ma se nel romanzo di Wilde Dorian Gray nascondeva il suo per ingannare il prossimo, Romina Falconi sceglie di esporre le sue opere nella sala più luminosa del museo. Dipendenza affettiva, sindrome dell’impostore, depressione, malinconia, atteggiamento passivo-aggressivo, affetto tossico, anaffettività, disturbo ossessivo, pensiero magico, il campionario dei casi umani rappresentati copre praticamente tutte le sfumature della psiche umana. Ogni canzone è come una sezione di un grande polittico dedicato alla natura umana. Ciascuno si vedrà riflesso in un brano, o forse ci si sorprenderà a riconoscersi in due, tre o anche quattro canzoni diverse.
Ma sarebbe un errore vedere in un Rottincuore una presa di coscienza del fallimento del genere umano, perché questo disco – musicalmente pop all’ennesima potenza – è in realtà una celebrazione della vita, un invito a vivere fino in fondo, a tenerci per mano e a guardare con più indulgenza le nostre mancanze e quelle altrui.
E credo che non sia un caso che il disco si apra e si chiuda con due brani che sono l’eco l’uno dell’altro: se Rottincuore Lacrimosa apre le danze inneggiando alla vita drammaticamente (“c’ho una voglia sfrenata di mangiare la vita”), Magari muori utilizza l’ironia e i ritmi leggeri del reggaeton per esorcizzare la morte e celebrare ogni istante dell’esistenza.
L’ignoranza genera paura, ma se prendiamo consapevolezza di chi siamo davvero e siamo disposti a raccontarlo agli altri i nodi dell’anima si scioglieranno più facilmente. Riprendendo le parole di Romina, se nella vita sbagliare è la cosa che ci è riuscita meglio, forse dovevamo peccare di più.
“… e piroetterò trafitta dai peccati miei, cosa hai campato a fare se non sei rottincuore?”
BITS-RECE: GIMA “JOMO”. Una stanza (per ballare) tutta per sé
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
“I keep dancing on my own” cantava – ormai un po’ di anni fa – Robyn, in quello che è diventato una vero e proprio manifesto alla solitudine da dancefloor. Ma certo Robyn non è stata la prima né l’ultima a contribuire alla narrazione della pista da ballo come luogo intimi, introspettivo, talvolta addirittura spazio per riversare le proprie lacrime.
Perché lo sappiamo bene, anche quando siamo immersi nella folla, anche quando ci troviamo in un luogo gremito, anche quando l’aria l’aria investita dei bpm lanciato dal DJ in console, capita di sentirsi soli, estraniati da tutta la vita che ci si muove attorno. A volte è una situazione che provoca disagio, a volte è davvero un’esigenza. Desiderare sparire, godere di quel momento solo per noi, respirarlo fino all’ultimo palpito di sudore provocato da un ballo che è molto di più di una semplice occasione di evasione, ma diventa un’esigenza di sopravvivenza.
Ed è un po’ questo il messaggio che emerge dalle cinque tracce di JOMO, il primo EP di GIMA, uno dei nomi emergenti più promettenti della scena club italiana. Che il producer fosse promotore di questa filosofia lo si era già capito dai brani che hanno anticipato la release (Come si fa?, Bugatti), e ancora prima nel singolo Tempesta. Usare l’elettronica per ritagliarsi uno spazio tutto per sé, non assecondare la corrente, ma risalirla per creare una narrazione personale.
Il titolo è l’acronimo di “joy of missing out” (la gioia dell’essere tagliati fuori), chiaro contraltare della FOMO, di cui oggi siamo troppo spesso schiavi, ovvero la paura di restare tagliati fuori, di non essere abbastanza connessi con l’esterno, di perderci l’essenziale.
Sotto ai suoi potenti muri di bpm, il producer avellinese costruisce un racconto diverso, all’insegna della volontà di stare al passo seguendo però sentieri meno frequentati: “Avevo bisogno di scappare dalla frenesia di Milano, la città in cui vivo da un po’ di tempo, per scrivere un EP che raccogliesse quel senso di smania urbana ma la rendesse intima”, racconta GIMA. “L’artwork e la creatività raccontano questo. Mi sono concentrato sulla mia assenza, sulla mia JOMO, lasciando che l’artista che c’è in me si rifugiasse nell’unico luogo – seppur metaforico – in cui sono davvero presente: la musica”.
E allora balliamo, selvaggiamente, forsennatamente, seguendo però solo il ritmo della nostra essenza.
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Sulla copertina del suo secondo album, il volto di La Niña, dipinto sulla superficie di un tamburello, osserva l’ascoltatore con aria severa, e in quello sguardo convivono antichità e tragedia, radici e fierezza. Proprio come le 10 canzoni che compongono Furèsta, il secondo lavoro di Carola Moccia, vero nome dell’artista partenopea.
“Furèsta” non semplicemente a richiamare uno spazio verde abitato dagli alberi, ma un’entità selvaggia, poco incline alle regole domestiche, che in comune con gli alberi ha profonde radici affondate nella propria terra, pur slanciandosi verso l’alto, alla scoperta di qualcosa lontano.
Furèsta è esattamente questo, un disco imbevuto della storia e dell’orgoglio di Napoli, della sua eredità sonora, della sua anima popolare e indomita, arcaica e persino sacrale, ma che non perde il contatto con il presente. Un disco pieno di rabbia e di amore, di tradizione e contaminazione (accanto a mandolino e tamburello spuntano qua e là anche il suono del clavicembalo e le cadenze dell’urban), un disco che più di tutto fa pensare a un messaggio di accoglienza, perché La Niña sembra voler dare voce a tutti. E che si tratti di un progetto di stampo corale è proprio nella dichiarazione di intenti dell’artista.
Se l’immensa eredità della musica di Napoli è la solida base su cui tutto poggia, ogni singolo brano racconta una storia a sé e il disco si allarga in un abbraccio cosmopolita: si va così da O ballo d’ ‘e ‘mpennate, tutto costruito sul suono degli zoccoli dei cavalli, ad Ahi!, che pesca invece dal bolero e da certe sonorità latine; Tremm’ prende spunto dall’atavico fenomeno del bradisismo di Pozzuoli per parlare del tremendo e pacifico senso di impotenza che si prova davanti alla forza della Natura, scatenando un baccanale di percussioni, accompagnato dalla voce di KUKII, artista egiziano-iraniana. Si spinge ancora più lontano nello spazio Sanghe, brano di aura ancestrale, quasi liturgica, incentrato sul tema tremendo della guerra e che mescola napoletano e arabo grazie alla presenza di Abdullah Miniawy.
Con il suo ritmo incalzante, quasi da marcia militare, Figlia d’a tempesta è un autentico e amaro manifesto di denuncia della condizione femminile.
A chiudere è Pica pica, uno dei momenti più interessanti: se da una parte il titolo fa riferimento al nome scientifico della gazza ladra (di cui si sente il suono), dall’altra l’espressione partenopea “pica pica” è usata per indicare la tigna di chi non demorde nel perseguire la propria strada. Musicalmente, a emergere in trasparenza sono sonorità medievali, ancora una volta in un gioco di rimandi tra passato e presente.
Nonostante sia un lavoro ricchissimo di influenze e stratificato, Furèsta è un album che si fa capire subito, perché parla un linguaggio universale, pop(olare) nel vero senso della parola. La Niña canta per tutti.
Odio l’estate è il singolo che segna il ritorno sulle scene di Karter, nome d’arte del cantautore polistrumentista Andrea Biolcati Rinaldi, in collaborazione con Luca Urbani, amico e nome fondante dell’underground musicale degli anni ’90 con i Soerba.
Non solo un titolo, ma una dichiarazione di disagio, un sentimento nato da esperienze vissute nell’adolescenza. Lontano dall’immaginario spensierato che accompagna di solito questa stagione, con le sue sonorità elettroniche e cupe, il brano esplora l’ansia e il senso di oppressione che l’estate può portare.
Un nuovo singolo che arriva a ridosso delle prime giornate di luce, un anticipo di un nuovo disco.
Andrea Biolcati Rinaldi, in arte Karter, è un cantautore polistrumentista, classe ‘68, milanese di nascita e ferrarese di adozione. Fin da giovanissimo si appassiona alla musica intraprendendo a soli 13 anni il suo percorso e diventando poi parte di diverse band della scena locale, quali Radioluna, Lo stato delle cose, Olsen e Paradox.
Il suo stile spazia dal post-punk, new wave, shoegaze fino ad arrivare al pop rock. Tra il 1997 e il 2000 lavora come backliner nel tour “Metallo non metallo” dei Bluvertigo, vivendo da vicino l’esperienza dei grandi palchi e continuando a coltivare, in parallelo, la sua carriera artistica, pubblica ben tre album: Fiori elettrici, Vivendo di gioia riflessa e L’uomo vola la sua ombra a terra.
Versatchy (It’s Versace!) è il personalissimo omaggio di Protopapa a uno dei brand italiani più famosi al mondo.
Sonorità nu-disco, melodie e suoni della tradizione dance italiana traggono ispirazione dal mondo glamour con fare irriverente, accompagnato dalla voce di Tanzer che riprende la celebre frase di Donatella “Versatchy? It’s Versace!”, per poi interpretare e citare anche l’iconica Kate Moss – “This is Milan 1995…” – in un’intervista a Vogue.
Con questo nuovo singolo, Protopapa dà il via alla sua DISCOMAGIA, un viaggio che lo porterà ad esplorare mondi immaginifici attraverso “nuovi occhi” e gli permetterà di portare la sua musica in giro per l’Europa.
DJ e icona queer, che da oltre 10 anni infiamma i dancefloor di tutto il mondo, Protopapa è un punto di riferimento della musica elettronica e della nightlife italiana, di base a Milano.
Ha condiviso consolle con artisti come Hercules & Love Affair, Nicolas Jaar e Miss Kittin.
Come direttore creativo ha curato serate, festival e club negli ultimi 15 anni. Ha a cuore la comunità LGBTQIA+, della quale fa parte.
Ha collaborato con brand come: ETRO, Armani, DIOR, Dolce & Gabbana, YSL Beauty, Versace, Tommy Hilfiger, MTV, Moleskine, Rossella Jardini, Campomarzio70, Caruso, Simon Cracker, Camera Nazionale della Moda Italiana, Best Events Awards Italia…
Nel 2020 è uscito il suo primo singolo, Nina, diventata colonna sonora di sfilate e spettacoli.
Dal 2020 divide con Pierpaolo ilromantico Moschino la paternità della label FLUIDOSTUDIO, etichetta discografica con base a Milano nata con l’obiettivo di raccontare storie inconsuete ed eccezionali nel panorama musicale italiano e dare voce a chi non ha spazi per farlo.
L’etichetta discografica include infatti artistə molto diversə per generi, che spaziano dal pop al reggaeton, dall’elettronica alla disco, ma unitə da valori condivisi come l’inclusività, il sostegno alla cultura queer e alle minoranze, già radici dell’esperienza personale dei due founder.
FLUIDOSTUDIO crede nel valore educativo dell’espressione musicale.
Banco del Mutuo Soccorso: il nuovo album è “Storie invisibili”
Anticipato dal singolo Il mietitore, esce Storie Invisibili, il nuovo album del Banco del Mutuo Soccorso, in Italia e sul mercato internazionale (etichetta The Saifam Group).
Il nuovo album è l’ideale completamento di una trilogia dedicata all’esistenza umana iniziata con Transiberiana (2019) e proseguita con Orlando: le forme dell’amore (2022): un concept album con 12 storie individuali di personaggi comuni, donne e uomini reali fotografati in momenti delle loro vite, nelle loro vicende personali, o all’interno di periodi storici del genere umano, attraverso le quali poter parlare di tutti noi, spesso alludendo ai grandi temi dei nostri tempi.
L’idea di realizzare la trilogia è nata nel 2015, un anno molto duro per il Banco, con la scomparsa di Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese, e l’emorragia cerebrale che colpisce Vittorio Nocenzi.
Ma la storia del gruppo è destinata a rinnovarsi e a ripartire, con la voglia di progettare qualcosa di mai fatto prima: un racconto molto più ampio del solito, tre album collegati uno all’altro in modo da formare un quadro unico.
Racconta Vittorio Nocenzi: “Sento che la gente chiede di nuovo idee, sentimenti, prospettive a misura d’uomo … Viviamo in un mondo sempre più complicato, dove però dobbiamo trovare un posto anche per la parte più importante della nostra vita, i nostri ideali.
La poesia e la musica possono (preferirei dire devono) anche condannare quello che non si condivide! Sicuramente questo non cambierà la realtà delle cose, ma può far circolare un’idea diversa da quelle programmate e diffuse dal sistema globale… E io posso, con il mio lavoro, dare un contributo per spingere gli altri ad usare maggiore lucidità, o magari convincerli a vedere le dinamiche del nostro tempo ‘fuori dal coro’, perché ho sempre creduto nella necessità di punti di osservazione diversi fra loro, per cercare di avvicinarci alla verità delle cose. Ed allora ecco la voglia di progettare, come musicista, qualcosa che non avevo mai fatto prima: un racconto molto più ampio del solito, addirittura una trilogia, un quadro ispirativo unico ma articolato in tre parti ben distinte ed allo stesso tempo fortemente connesse fra loro”.
Storie invisibili è stato ideato dal leader e fondatore del Banco Vittorio Nocenzi, che firma musiche e testi, insieme a Michelangelo Nocenzi e Paolo Logli rispettivamente (così come per i due precedenti album).
“Storie invisibili” è disponibile nelle seguenti versioni: CD Digipack e Vinile giallo trasparente, entrambe in limited edition in 1000 copie di ogni formato, numerate e autografate da Vittorio Nocenzi, con libretto di 32 pagine il CD Digipack e di 16 pagine il vinile, contenente tutti i testi e commenti sull’album in italiano e in inglese. Sul mercato internazionale le due versioni escono in edizione standard con lo stesso libretto; in digital edition su tutti i portali digitali.
“Quando ho iniziato a lavorare su Bugatti sono partito dalla sua strumentale in modo particolarmente libero, senza imposizioni o direzioni precise da dare al pezzo.
Sapevo soltanto di volerci dentro un groove spezzato e veloce che portasse ad un immaginario frenetico, rapido, che corre nel buio come una Bugatti. L’ho immaginato come un brano da club ma anche da riprodurre mentre si sfreccia in auto. Sempre molto elettronico, vicino alla drum ‘n’ bass”.
Solo dammi un’ora per stare bene, ritornare qui dentro di me Come puoi vivere di giorno se dai tutta te stessa la notte? Non puoi, non puoi
Nel nuovo singolo Bugatti, GIMA appoggia su un tappeto di bpm acidi e frenetici una dichiarazione poetica alla ricerca di uno spazio per sé, per rallentare, anche solo per un momento, “per un’ora”. Prima di ributtarsi nel vortice.
BITS-RECE: Keyra, “Femmena”. Orgoglio urban made in Campania
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit
Questo è quello che definirei un esordio promettente, e fossi in voi mi segnerei il nome di Keyra perché è facile che ne risentirete parlare.
Classe ’98, nata a Salerno, all’anagrafe Annapaola Giannattasio, arriva alla pubblicazione del suo primo EP dopo aver pubblicato una manciata di singoli con cui ha definito il proprio stile: un urban verace ambientato per le strade della sua città, con testi che rispecchiano i sogni e gli sfoghi di chi sta vivendo i proprio anni Venti.
Il titolo dell’EP – Femmena – è già una dichiarazione di orgoglio e di personalità, mentre le sei tracce che lo compongono raccontano il mondo agrodolce di una ragazza alle prese con relazioni sbagliate, rimorsi, storie da riparare, desiderio di dichiarare l’amore per sé stessa e volontà di affermare la propria indipendenza come donna. Anzi, come un femmena.
A prendersi maggiormente l’attenzione sono Femmena, personale rilettura del celeberrimo brano di Totò, Piccirè (“Non sono più una bambina, ma una donna. Il messaggio è: lasciami, lasciami cadere, che tanto mi so rialzare da sola”) e Tabi (“è il mio inno da Amazzone degli anni Venti”).
C’è parecchio potenziale inespresso, e questo mi fa sperare che Keyra ci darà belle soddisfazioni. Diamole il tempo.
“Non sono bravo a raccontare le mie sensazioni, preferisco comporle. E quando ho scritto Come si fa? ero genuinamente incazzato. Con me stesso, con gli altri e con quello che mi circondava.
L’ho scritta di getto perché, come le emozioni più sismiche, è esplosa all’improvviso”.
DJ e producer avellinese, classe ‘96, indicato da VEVO Italia come uno dei nomi della nuova scena elettronica italiana da tenere d’occhio, GIMA torna con un inno da club arrabbiato e malinconico, scandito da un interrogativo ciclico che chiede spiegazioni: come si fa ad amare qualcuno col cuore di un altro, a non smarrire la propria identità e nemmeno il legame che ci unisce.
L’interrogativo di chi sta vivendo i propri anni Venti con un senso di smarrimento verso il presente.