BITS-RECE: St. Vincent, “All Born Screaming”. Ovvero, come (non) perdersi nel bosco da soli

BITS-RECE: St. Vincent, “All Born Screaming”. Ovvero, come (non) perdersi nel bosco da soli

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una mancata di bit.

Ma quindi, chi è St. Vincent?

Arrivata al suo settimo album, quando pensavamo di averla inquadrata (per un quanto un artista che possa definirsi tale possa e voglia essere inquadrato), ecco che rilascia un disco che ci prende un po’ alla sprovvista. Sarà che lei è una che di fronte alla nuove sfide non si è mai tirata indietro, sarà che questo è il suo primi (!) album totalmente autoprodotto, ma insomma, quella che ritroviamo in queste nuove 10 tracce è una St. Vincent in un certo senso inedita.

Ci sono alcuni posti, dentro di noi, che possiamo raggiungere solo se attraversiamo il bosco da soli, per scoprire quello che il nostro cuore ha da dire”, ha dichiarato a proposito dell’album la Clark. “Suona reale perché è reale”.
E lei il bosco ha voluto proprio attraversarlo da sola, chiamando attorno a sé solo alcuni fidatissimi amici, tra cui – per fare solo due nomi – Dave Grohl, che suona le batterie nei due singoli Flea e Broken Man, Cate Le Bon, che ha coscritto Big Time Nothing e appare nella traccia di chiusura, che dà il titolo all’album.

Ovvero, All Born Screaming. E in questo titolo c’è esattamente il mood e il messaggio che Anne Erin Clark – il nome con cui la conoscono all’anagrafe – voleva lanciare.
Un album cupo, a tratti tranquillamente apocalittico, che non si premura di mettere l’ascoltare a particolare agio.
Nasciamo tutti urlando, quanto è vero, e stando alla narrazione del disco, questo sembrerebbe essere un (cattivo) presagio di quello che ci aspetta in questo mondo.

Ma quindi, com’è questo album?

Poderoso, muscolare, incendiario e piacevolmente variegato. Se l’alt-pop non è del tutto messo da parte – bellissima la traccia di apertura, Hell Is Near, che ha dispetto del titolo suona piuttosto angelica -, a colpire l’ascolto è soprattutto il graffio dell’industrial rock, che si scatena in particolare nella prima metà del disco (ma, per esempio, in Big Time Nothing fa capolino anche il funk). Più ibrida invece la seconda parte, dove l’elettronica e le divagazioni stilistiche guadagnano terreno e si tira un po’ di più il fiato.

Un po’ ovunque si respira un forte tributo pagato alla scena rock/alt-rock della seconda metà degli anni ’90. Personalmente, più le tracce andavano avanti durate l’ascolto più mi la mente mi riportava ai Garbage. Sarà per la sensualità del canto, che St. Vincent non perde mai, proprio come non la perde(va) Shirley Manson, sarà per i suoni, ma tant’è. Quando si arriva poi a Violent Times si fa davvero fatica a non fare un parallelismo con The World Is Not Enough, brano composto dai Garbage per la colonna sonora dell’omonimo film di 007 (correva l’anno 1999), di cui non manca nemmeno lo slancio orchestrale.

In Sweetest Fruit , traccia scintillante di chitarre ed elementi elettronici, c’è anche un tributo a SOPHIE, la producer scozzese tragicamente morta ad Atene nel 2021 per una caduta da un edificio, su cui era salita – pare – per osservare meglio la luna.

So Many Planets attacca con l’organo e farebbe pensare che sbuchi fuori qualcosa di gospel, invece spiazza virando sul reggae.

Infine, All Born Screaming si prende tutto il tempo necessario (6.55 minuti) per divagare in un coro. E così, l’album della “traversata nel bosco” in solitaria, chiude significativamente con un canto collettivo.

Ed è proprio qui, sul finale, che si nasconde l’ultima sorpresa architettata da St. Vincent. Come espressamente dichiarato dall’artista infatti, il lavoro dell’album è avvenuto per sottrazione, partendo da lunghe session di registrazione da cui è stato eliminato tutto il superfluo: in termini di arrangiamento ma, ovviamente, anche in termini di durata. Ecco che allora i 41:14 minuti totali non sono forse palindromi a caso, ma – e se davvero così fosse sarebbe un colpo di genio – sono l’indicazione che anche il disco può essere letto al contrario.
Se la tracklist ufficiale parte dalla solitudine per chiudere in corale e inizia con la minaccia di un imminente inferno per arrivare a cieli più sereni, la lettura “alla rovescia” tratteggerebbe un viaggio di gruppo che si fa solitario e una lenta discesa verso l’oscurità.

Ecco, quindi, chi è St. Vincent. Una che è sempre un gran piacere rincontrare. Che sia in un bosco o un nuovo album.

 

BITS-RECE: Mazzariello, “Antisommossa”. À la guerre comme à la vie

BITS-RECE: Mazzariello, “Antisommossa”. À la guerre comme à la vie

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.

“À la guerre comme à la guerre”, recita un celebre adagio. Ovvero, prendi le cose per quel che sono. E se proprio devi andare in guerra, preparati a combattere, perché altro non potrai aspettarti.

Sia che la guerra sia reale, all’esterno, sia che tu la senta dentro.

Lo sappiamo bene, essere giovani, trovarsi a crescere, non è mai stato un gioco; e non lo è a maggior ragione in questi tempi, fatti di un futuro che si può declinare solo al condizionale. Inquietudini, paure, ossessioni, aspettative. Se questo scenario non è una guerra, come lo si può chiamare?

Sarà forse anche per questo che nel suo nuovo EP, Mazzariello ha usato un lessico lessico da combattimento, a cominciare dal titolo del disco, Antisommossa. Che di per sé è l’atteggiamento di chi lo scontro cerca di evitarlo, ma che sembra piuttosto nascondere un senso di rassegnazione verso qualcosa che non si può cambiare. In ogni caso, un termine plumbeo, “pesante”, come il mood generale del disco.

A confermarlo arrivano poi titoli come Atti estremi in luogo pubblico, Blindati, Bombe carta, infilati uno dopo l’altro nelle prime tre tracce.

In 6 brani, e in poco meno di 20 minuti, nelle canzoni di Antisommossa si fanno strada amori, frenesie, abbandoni, mancanze: un ritratto stropicciato di una generazione che cerca il proprio posto, che non sa stare ferma ma che non sa neanche dove andare.

Lo stile gira attorno a un elettro rock bello carico, un funky pop allegrotto e influenze indie, che non mancano mai, specie quando il mood si veste di tinte uggiose.

E allora, “À la guerre comme à la guerre”, dicevamo. Forse, sarebbe meglio dire “À la guerre comme à la vie”. Ma anche vicersa.

#MUSICANUOVA: St. Vincent, “Big Time Nothing”

#MUSICANUOVA: St. Vincent, “Big Time Nothing”

Dopo aver infuocato gli animi con le prime due anticipazioni di Broken Man e Flea, St. Vincent rilascia Big Time Nothing, la terza traccia che farà del suo nuovo album, All Born Screaming.


All Born Screaming arriva il 26 aprile, su Total Pleasure Records via Virgin Music Group.
Pre-order a questo link.

A pochissimi giorni dall’uscita del nuovo album, Annie Clark, meglio nota come St. Vincent, svela i dettagli del suo settimo album in studio.
All Born Screaming sarà il il primo album autoprodotto dall’artista, che in questo lavoro ha scelto di mostrarsi senza alcun tipo di filtro.


In quanto unica produttrice dell’album, è riuscita a imprimere immediatamente su nastro quei suoni nati nella sua mente, nel suo cuore e tra le sue mani: “Ci sono alcuni posti, dentro di noi, che possiamo raggiungere solo se attraversiamo il bosco da soli, per scoprire quello che il nostro cuore ha da dire. Suona reale perché è reale”.

BITS-RECE: Bartolini, “TILT”. Il tempo passa, la musica salva

BITS-RECE: Bartolini, “TILT”. Il tempo passa, la musica salva

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

C’è un momento cruciale che attraversa la vita di ognuno: il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Una tappa inevitabile, che ogni essere umano vive a modo suo: per alcuni arriva prima, per altri più tardi; alcuni cercano e sospirano questo traguardo fin da quando sono bambini, altri non si rendono neppure conto di averlo già raggiunto, Altri ancora, semplicemente, lo subiscono e lo vivono come qualcosa a cui è impossibile sfuggire, anche se ne avrebbero volentieri fatto a meno.

Giuseppe Bartolini – in arte semplicemente Bartolini – sembra appartenere a quest’ultima categoria, per sua stessa ammissione: “Dopo Forever [il suo secondo album, ndr], ho scelto nuovamente il mio vissuto come punto di partenza del racconto, ma in una chiave differente e più profonda. Dove Forever descriveva il mio rifugio ideale attraverso le sensazioni della mia adolescenza e delle mie origini, TILT racconta il momento di inevitabile confronto con la vita adulta e con ciò che la definisce: la musica, una relazione e anche la stessa città di Roma. Un delicato equilibrio, una pila di bicchieri che a volte riesco a tenere in piedi e altre no”.

Ecco, TILT, scelto come titolo del suo nuovo lavoro, fa riferimento proprio a questo passaggio, questo cambiamento umano e personale.

Per raccontarlo, il cantautore calabrese si è rifatto alle sonorità indie e rock di chiara matrice anni ’90, dalla cui maglie sbucano qua e là anche rimandi alla vecchia scuola dell’r’n’b.

L’elemento interessante dell’album è la sua impostazione su un doppio livello, una caratteristica che accomuna ogni traccia.
Un primo livello, più immediato, è costituito dalla musica, dalle sonorità.
TILT è un disco musicalmente vivace, luminoso, arioso, leggero. I brani si rincorrono scorrevoli uno dopo l’altro senza inciampi e senza lasciare vuoti. Per farsene un’idea basta ascoltare pezzi come ADHD o Paris McDonald’s, oppure Chicco, in cui insieme a Tripolare Bartolini rende omaggio al tempo felice della fanciullezza.

Basta però soffermarsi un attimo sulle parole dei testi ed ecco emergere il secondo livello del disco, quello più profondo e personale. Dentro alle parole di TILT si nascono infatti i pensieri di un ragazzo che si affaccia per la prima volta alla vita con uno sguardo adulto e una maggiore consapevolezza. Ci sono le paure, le ansie, le delusioni, gli equilibri precari da tenere insieme. C’è persino spazio per alcune riflessioni sulla morte, come in Ultima volta e Cimitero.

Proprio questo doppio livello di lettura, se da una parte conferisce ai brani maggiore spessore, dall’altra permette di metabolizzare anche i racconti più difficili.

Significativo che l’unico momento di completa malinconia venga riservato all’ultima traccia, Heath Ledger, una sorta di dichiarazione d’intenti posta però in finale d’opera:

“Volevo solo non farmi male
tornare a casa per respirare
Ormai non so più come respirare
Nel loro specchio solo vuoto
perché mi lasci solo
Fanculo questo gioco…”

#MUSICANUOVA: Caspio, “Cinico”

#MUSICANUOVA: Caspio, “Cinico”

Si intitola Cinico il nuovo singolo di Caspio, primo estratto dal prossimo album, in uscita alla fine del 2024.

Un brano di stampo rock anni ‘90 che riflette sulla nostra incapacità di dire di no a un mondo che sembra volersi prendere tutto di noi: il tempo, lo spazio, il futuro.
Crediamo di essere davvero liberi, ma non lo siamo mai fino in fondo se continuiamo a collezionare rimpianti.

Nonostante sia musicalmente diverso dalle passate pubblicazioni, il nuovo singolo rappresenta di fatto l’anello di congiunzione con il precedente EP fugit (pubblicato due anni fa).
Il disco si chiudeva infatti con il brano non è la fine, dove si ripete infatti lo stesso riff di Cinico.

“La mia storia musicale inizia con l’adolescenza, quando ormai gli anni ‘90 stavano volgendo al termine. Ma gli anni ‘90, a quel punto, c’erano stati, eccome se c’erano stati!
Così, legati un po’ al passato, io e la mia musica siamo perennemente fuori, non di tendenza. Proprio per tornare a quelle che considero le mie radici, oggi chiudo con l’elettronica e torno all’essenziale, al grunge, al rock, alla musica suonata davvero, talvolta distorta, talvolta pure imprecisa.
Lo faccio nel tentativo di raccontare la mia generazione e per rivolgermi a quelle successive, per raccontare a tutti di quel futuro tanto promesso ma che non arriva mai, per raccontare un mondo tutt’altro che perfetto che, però, ti chiede di esserlo.”

BITS-RECE: Amalfitano, “Tienimi la mano, Diva!” Se Dioniso s’innamora

BITS-RECE: Amalfitano, “Tienimi la mano, Diva!” Se Dioniso s’innamora

 

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Se appena appena avete qualche familiarità con la cultura classica, vi sarà capitato di sentir parlare della dualità fra apollineo e dionisiaco, due elementi complementari alla base della natura dell’Uomo: due spiriti contrapposti, rivali, ma necessari l’uno all’altro per mantenere un equilibrio vitale.

Da una parte l’apollineo, la sfera razionale, luminosa, ordinata, ubbidiente; dall’altra il dionisiaco, lo spirito folle, ombroso, disordinato e ribelle. Due forze ataviche in costante lotta.

Ad apollineo e dionisiaco Nietzsche ha dedicato alcune delle sue pagine più celebri: secondo il filosofo tedesco, nella fase aurea della tragedia greca – massima espressione della cultura classica – si poteva riconoscere il trionfo del dionisiaco, che soccombendo progressivamente all’apollineo avrebbe portato alla corruzione del dramma.

Il dionisiaco è la forza dell’amore che arriva, devasta, fulmina, brucia, rende assetati; è la bellezza che acceca e quasi spaventa. E non c’è dubbio che ci sia stato proprio lo spirito dionisiaco ad animare l’ispirazione di Amalfitano per il suo nuovo album.

Il lavoro si intitola Tienimi la mano, Diva!, proprio come recita il primo verso della prima traccia, che è stata anche il primo singolo presentato al pubblico, Fosforo: un incipit epico, altisonante, spirituale, una dichiarazione d’intenti fin troppo chiara.
Se Omero – sempre per restare nel classico – invocava la Musa perché gli infondesse l’ispirazione per cantare le mitiche imprese degli eroi, Amalfitano sembra chiamare la sua dea perché corra a soccorrerlo, a sostenerlo, a tenergli la mano appunto, perché a lui “ballo lo sguardo”, proprio a causa di un amore che lo ha folgorato, un amore che brucia come il fosforo.

Ma nonostante tutto, potremo mai fare a meno di amare? Potremo mai rinunciare alla bellezza, alla sua forza disarmante? Ovviamente no.

Ed è proprio sui temi dell’amore e della bellezza che si concentra il cantautore romano nel suo secondo album: lo fa impregnando gli otto brani di rock e di blues, marchiando ogni canzone con il suo canto viscerale, stropicciato e sincero.

L’apertura con Fosforo è fulminante: sicuramente, uno dei migliori brani italiani usciti negli ultimi anni. Un pezzo incandescente, costruito su un climax che sembra tendere alle stelle. La collaborazione con Francesco Bianconi, che dell’album è anche produttore insieme a Ivan A. Rossi, calza alla perfezione: è la manifestazione al quadrato del dionisiaco.

Al posto di cimbali e crotali, tradizionali strumenti del corteo dionisiaco, di brano in brano Amalfitano conduce la sua danza pagana tra chitarre e archi: ogni pezzo è un concentrato di tensione, furore, erotismo, sarcasmo.

Tenerezza, ancora con Bianconi, ha il sapore intimo e agrodolce di una caramella che si scioglie lenta; E… ancora tu! ha il tocco di una carezza urticante; Cafona suona stralunata come una composizione di dallaniana memoria, mentre Battisti riecheggia nelle note di Lisbona.

Ma fino alla fine il disco non risparmia sorprese, quando Faccia di caffè, forse l’episodio dal tocco più felpato, si carica di pathos e si spalanca in una trionfale conclusione che guarda all’universo imaginifico dei Pink Floyd.

Tienici la mano, Diva, qui si canta d’amore.

“Orchestra di silenzi”, l’urgenza di scrittura di Pugni

Ho capito chi sono veramente quando ho smesso di raccontarmi per quello che credevo di essere.
Orchestra di silenzi è un invito ad abbandonare l’immagine che abbiamo di noi stessi per aprirci al cambiamento, alla trasformazione e all’evoluzione. Nasciamo partendo da un nucleo meraviglioso e fragile, cresciamo aggiungendo strati protettivi che, nel tempo, si induriscono come roccia.
È anche un invito al maschio, figlio sano del patriarcato (di cui mi sento pienamente parte), ad abbandonare l’immaginario dell’uomo forte, stabile, a cui non è concesso aprirsi troppo perché fuori luogo, fuori ruolo.

Orchestra di silenzi è il singolo d’esordio di Pugni.
gni nota è intenzionale, ogni parola ponderata. Gli echi grunge si intrecciano con il pop in un modo che va oltre la mera fusione di suoni, ma piuttosto si trasforma in un’esperienza narrativa. Le liriche sono dense di significato, mentre la struttura e la voce si svelano come un viaggio emozionale nella rabbia e nella bellezza, sfidando le convenzioni e portando avanti il concetto di autenticità nella musica pop contemporanea.

Il singolo, che anticipa l’album d’esordio dell’artista previsto per ottobre 2024, esce non a caso l’8 marzo.
Racconta il cantautore: “La piaga della violenza sulle donne è spesso uno specchio della violenza, fisica e psicologica, a cui sono stati sottoposti gli uomini durante la crescita. Il patriarcato esercita sul maschio una pressione insostenibile che rischia troppo spesso di esplodere in rabbia e violenza. C’è sicuramente necessità di denunciare, ma anche di rieducare, comprendere e curare.
In questo giorno così importante, faccio la mia piccolissima parte dicendo che non è possibile curarsi guardandosi allo specchio. Il “ce la faccio da solo” è l’ennesimo tentativo di mantenere un’immagine di sé costruita su principi vecchi e malati.
Puoi smettere di orchestrare i tuoi mostri nascondendoti e rimanendo in silenzio. Non c’è da
vergognarsi. Parlane, confrontati, fatti aiutare. Non sarai meno uomo per questo.
Questa incapacità di trattare le emozioni porta alla necessità di nasconderle nei cessi delle feste e dei concerti, dove le droghe abbondano come sedativi e diversivi alla libera espressione di sé.
Dentro questo pezzo c’è anche il significato del mio nome d’arte: Pugni, oltre ad essere un gioco di parole col mio cognome, è il ricordo di un periodo in cui la rabbia e l’aggressività mi impedivano di cogliere la complessità e la bellezza di tutti i vari colori emotivi che non mi permettevo di usare per dipingere i miei giorni.
Questo pezzo è nato in studio, di pari passo con la produzione. Assieme a Kendo abbiamo cercato di esprimere una sensazione di liberazione, come una corsa in riva al mare dopo essere stati incarcerati per anni.
È probabilmente il mio pezzo preferito, quello che mi fa urlare fuori i blocchi emotivi.

 

Lorenzo Pagni, in arte Pugni, nasce a Pisa il 19/06/1993.
Si avvicina allo studio della musica a 11 anni, suonando la batteria come primo strumento, che nel corso degli anni sostituisce con la chitarra per poter avere più possibilità espressive, ma per anni la sue principale attività è lo sport. Passa le giornate in canoa, sorretto dall’acqua e circondato dagli alberi del suo caro fiume Arno, ripetendo e affinando lo stesso gesto milioni di volte.
La musica rimane sempre con lui, ma è una cosa troppo bella che non riesce a concedersi totalmente. Col tempo, però, si accorge di quanto sia ampio il divario tra i suoi desideri e le sue azioni quotidiane.
Le sue canzoni rimangono segretamente nascoste in camera sua per anni, nel frattempo Pugni inizia a lavorare nei locali notturni come barman, musicista e dj e recupera la mondanità e il divertimento perso durante l’adolescenza, forse pure troppo.
Nel 2020 saluta il fiume, il mare e i pescatori per spostarsi a Torino.
È qua che Pugni inizia a esprimersi per quello che è.
L’incontro con Danny Bronzini (Jovanotti, Willie Peyote, Venerus), suo concittadino trasferitosi a Torino, è determinante nel proprio percorso di crescita artistica e nell’adozione di una visione matura del processo creativo.
Parallelamente all’attività di musicista, Lorenzo si laurea in psicologia e inizia a lavorare come psicologo in una clinica psichiatrica, dove ascolta storie di vita al limite del credibile.
La complessità delle persone che incontra gli fornisce il materiale emotivo per scrivere, che diventa non solo una necessità espressiva, ma un vero e proprio strumento terapeutico con cui poter esorcizzare il dolore.

L’amore secondo Amalfitano


Prende sempre più forma il nuovo progetto discografico di Amalfitano, la cui uscita è prevista per il prossimo 22 marzo.

Dopo la prima, potentissima, anticipazione con il singolo Fosforo, scritto e interpretato insieme a Francesco Bianconi, il cantautore romano torna ora non con uno, bensì con due nuovissimi brani.

Una doppia uscita che lascia ben sperare in quella che sarà la natura dell’album: un cantautorato pop-rock teso e viscerale, che canta la forza immensa dell’amore con un romanticismo personale, dalla parvenza forse più ruvida che dolce, ma profondamente sincero.

E…Ancora Tu racconta di come tutto potrebbe essere messo in discussione, tutto potrebbe essere opinabile, tranne la bellezza.

In Quanto dolore ci servirà per smettere d’Amare, il titolo è invece una domanda su cui si interroga l’artista.
Una domanda scomoda e paradossale, perché lo sappiamo, l’amore sa fare male, ma mentre il dolore offre sempre una via di uscita, dall’amore difficilmente si esce.

E quindi? Davvero il dolore è l’unico antidoto all’amore?

 

Amalfitano e Francesco Bianconi: bruciare d’amore. Anzi, di fosforo

Amalfitano e Francesco Bianconi: bruciare d’amore. Anzi, di fosforo

 

Hai mai provato l’effetto fosforo?
Io l’ho sperimentato diverse volte, sempre con le canzoni, ma magari tu lo hai provato con un film, o con un quadro. Con il tempo ho anche imparato a riconoscerlo da subito.
Non sapendo come definirlo, lo chiamerò “effetto fosforo”, e ti spiego anche il perchè.

Succede così: sento una canzone per la prima volta e penso “bah…”. Cioè, non è che non mi piaccia proprio, ma tutto sommato mi lascia indifferente. Anzi no, non è esattamente indifferenza, è più un “sì, carina, ma nulla di che”.

Poi, dopo qualche giorno, o la riascolto per caso o mi si ripresenta in testa da sola, ed è lì che si innesca “l’effetto fosforo“. Perchè inizio a capire che in quella canzone c’è qualcosa di magnetico, qualcosa che non so spiegare: forse è nel giro melodico, forse nel canto, forse in uno strumento, ogni volta può cambiare, e mi accorgo che quel brano lo voglio riascoltare, e ancora, e poi ancora, a loop, anche per giorni, fino a quando mi si pianta in testa e capisco che sarà amore. Anzi, lo è già.

Negli anni questa cosa mi è capitata diverse volte: andando a memoria, con “That don’t impress me much” di Shania Twain, “Bruci la città” di Irene Grandi, “Stand inside your love” degli Smashing Pumpkins, ma persino con “Poker face” di Lady Gaga.
Ogni volta sono farfalle nello stomaco.

Ovvio che col passare del tempo l’entusiasmo si ridimensiona, ma il bello sta proprio in quei primi momenti in cui capisci che da un “meh..” stai passando a un “WOW!!”

Come dicevo, con il tempo ho imparato a capire subito quando una canzone mi provocherà ‘l’effetto fosforo”. Ed è proprio quello che è successo in questi giorni – appunto – con “Fosforo” di Amalfitano e Francesco Bianconi.

L’ho sentita giorni fa, non mi ha colpito, ma sapevo che lo avrebbe fatto, e così è stato. Ci ha messo quasi una settimana, ma poi è esplosa come un’atomica, e lo ha fatto senza che forzassi nulla.

È entrata a gomitate nel cervello, e ancora adesso sta ferma lì. Anzi, non sta ferma per nulla, gira vorticosamente!
“Fosforo” è un brano matto, disgraziato, di quelli che ti fanno ridere e gridare.
“Tienimi la mano diva / che mi balla lo sguardo”, un incipit che sa di moderna saga epica. Una suggestione abbagliante che dura giusto il tempo di un lampo, prima che si inneschi la detonazione sonora: percussioni, chitarre, basso, persino archi. Tutto freme, arde, si scalda, brucia.
Il giro armonico è una giostra selvaggia, le note crescono e si scaldano mano a mano, mentre sotto scalpita e si agita una commistione salmastra di sensualità ustionante e disperazione d’amore.
Perché “Fosforo” è anche la più folle canzone d’amore uscita negli ultimi anni. Anzi, “Fosforo” è soprattutto una canzone d’amore.

Io l’amore non potrei immaginarlo diversamente, un’onda incandescente che ti arriva addosso “e mi prende la testa e scende giù nel cuore / e poi risale come di rimbalzo e mi fa lacrimare”.

Che sia anche questo l’effetto fosforo?

“Canzoni d’Amore Nascoste”, 2 inediti nella nuova raccolta di Fabrizio Moro

“Come indica il titolo, questa è una raccolta di alcune canzoni d’amore che ho scritto durante il mio percorso. Ci sono le mie storie più importanti, quelle che sono rimaste irrisolte e quelle da cui sono nati i miei figli. Ci sono le storie che mi hanno fatto male e quelle che mi hanno migliorato come uomo. Ci sono tanti frammenti fondamentali del mio passato o fra queste parole, canzoni che sono rimaste sconosciute al grande pubblico e che ho voluto ri-arrangiare, ri-produrre e soprattutto ri-cantare con la vita accumulata fino ad oggi…canzoni d’amore nascoste parla di me, parla di tanti di voi, ma soprattutto parla d’amore”.

La nuova raccolta di Fabrizio MoroCanzoni d’Amore Nascoste, è disponibile in versione CD e vinile, in digitale e sulle piattaforme streaming. Prevista anche una special Edition a tiratura limitata e numerata, disponibile solo nello shop ufficiale. Il vinile sarà autografato e conterrà la riproduzione del manoscritto originale di “Nun c’ho niente”, una foto inedita e autografata e un’esclusiva bandana.
La accolta contiene 2 brani inediti, Nun c’ho niente e Voglio stare con te, e altre 9 canzoni ricantate, risuonate e con nuovi arrangiamenti, ed è stata anticipata a maggio dalla nuova versione di Il Senso di Ogni Cosa, pubblicato originariamente nel 2009. La copertina dell’album è firmata da Giada Domenicone.

Questa la tracklist:
Melodia di giugno
Domani
Nun c’ho niente (inedito)
Il senso di ogni cosa
Canzone giusta
Sangue nelle vene
Intanto
21 anni
Voglio stare con te (inedito)
L’illusione (sempre w l’amore)
Non è la stessa cosa

Da sempre molto attento alle tematiche sociali, Fabrizio Moro, attualmente è impegnato nella sceneggiatura di un film insieme al regista Alessio De Leonardis La trama è incentrata sulla vita di un pugile, a Roma, in un quartiere immaginario, che uscirà nelle sale cinematografiche nel 2021.