BITS-RECE: Romina Falconi, “Rottincuore”. Un Louvre alla rovescia

BITS-RECE: Romina Falconi, “Rottincuore”. Un Louvre alla rovescia

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

“È stato bello anche schiantarsi
e pensare di volare,
e mi manca soprattutto

quello che non è successo”

La cover del CD di “Rottincuore”

In Il ritratto di Dorian Gray, romanzo capolavoro di Oscar Wilde, il protagonista, un giovane bellissimo la cui morale viene corrotta dalla frequentazione con la nobiltà della Londra vittoriana, rimane abbagliato dalla bellezza che vede in suo ritratto, e al solo pensiero di invecchiare e di vedersi sfiorire sceglie di vendere la propria anima pur di preservare il suo corpo dalla decadenza fisica.

Lui resterà bello e aitante per sempre, mentre il dipinto invecchierà al posto suo e diventerà lo specchio dell’abbruttimento della sua anima. Tanto Dorian rimarrà esteriormente meraviglioso per via del sortilegio, tanto il quadro – nascosto alla vista di tutti – diventerà sempre più orripilante. Credo di non fare uno spoiler se scrivo che la storia finisce abbastanza male: Dorian viene sopraffatto dal senso di colpa e, in un rimorso di coscienza, pugnala il ritratto e così facendo rompe l’incantesimo. Il quadro torna all’aspetto originario, mentre il protagonista si imbruttisce e muore con le sembianze di un vecchio.

Facendo un po’ di psicologia spicciola si può dire che una delle morali dell’opera sia che nascondere le proprie magagne, i propri lati oscuri e mostrare agli altri solo la facciata più levigata e accomodante può funzionare per un po’, ma alla lunga nuoce, a noi e agli altri. Senza contare che nessun segreto vive troppo a lungo e prima o poi le crepe dell’anima sono destinate a manifestarsi.

Ecco, se nella musica c’è qualcuno che questa cosa ce l’ha insegnata è Romina Falconi, la più nera e spietata delle popstar di casa nostra. Perché se tradizionalmente (e a torto) il pop è il genere rassicurante e accomodante per antonomasia, fin dal suo primo album (era il 2015 quando uscì Certi sogni si fanno attraverso un filo d’odio, un manuale di cattivi pensieri confezionato in una carta di paiettes) Romina ha dimostrato che il pop può essere tagliente, crudele e sanguinario esattamente come l’hip-hop e il metal, affilato per affondare la lama nell’anima e scandagliare i suoi fondali senza perdere un grammo di glamour e luccichio. “Psicopop” lo avevo chiamato qualche anno fa.
Che il pop avesse anche questo potere all’estero forse lo sapevano già, qui in Italia invece eravamo più abituati a vederlo abbinato alle canzoni d’amore, tutt’alpiù ai tormentoni estivi.

Ora per la Falconi è arrivato il tempo di un nuovo lavoro, il terzo. Un progetto partito ormai alcuni anni fa e che non sarebbe giusto circoscrivere solo a un album, visto che i singoli che hanno anticipato l’uscita del disco sono stati accompagnati ciascuno da un magazine (il Rottocalco) e l’intero album è stato portato nelle sale cinematografiche sotto forma di mediometraggio.
Ma chi conosce Romina sa che rompere le regole del sistema è nel suo DNA.

Il titolo del disco è abbastanza eloquente, Rottincuore. Un progetto concepito per mettere in luce le ombre che ciascuno di noi inevitabilmente ha, svelare i lati più scomodi della nostra anima, dare la parola ai reietti, in un modo che celebra solo eroi e paladini positivi.

La cover del vinile di “Rottincuore”

E chi sono i rottincuore? Sono coloro che hanno fallito, che sono caduti nelle proprie debolezze, che hanno spento l’amor proprio per dare voce alle voragini della disperazione, coloro che almeno una volta si sono trovati “nudi davanti all’angelo che era il più bello”. I Rottincuore siamo, insomma, semplicemente noi, quando chiudiamo la porta di casa, ci disconnettiamo da Instagram e ci ritroviamo faccia a faccia davanti allo specchio.
O meglio, rottincuore lo siamo sempre, ma è in quei momenti che siamo disposti a dircelo.
Non c’è giudizio, ma solo voglia di prendere consapevolezza che fragili, oscuri e malefici lo siamo tutti, chi in un modo chi nell’altro. Ognuno afflitto dalla propria colpa, dal proprio peccato, schiacciato dalla propria croce e dalle proprie miserie.
E infatti Rottincuore è proprio questo, una galleria di peccatori, una sfilata di talenti neri, di campioni dell’errore.

Ascoltandolo attraversiamo una sorta di Grande Galerie di “un Louvre alla rovescia”, in cui al posto di una successione di capolavori di bellezza assistiamo a una sfilata di ritratti da censurare. Ma se nel romanzo di Wilde Dorian Gray nascondeva il suo per ingannare il prossimo, Romina Falconi sceglie di esporre le sue opere nella sala più luminosa del museo.
Dipendenza affettiva, sindrome dell’impostore, depressione, malinconia, atteggiamento passivo-aggressivo, affetto tossico, anaffettività, disturbo ossessivo, pensiero magico, il campionario dei casi umani rappresentati copre praticamente tutte le sfumature della psiche umana. Ogni canzone è come una sezione di un grande polittico dedicato alla natura umana. Ciascuno si vedrà riflesso in un brano, o forse ci si sorprenderà a riconoscersi in due, tre o anche quattro canzoni diverse.

Ma sarebbe un errore vedere in un Rottincuore una presa di coscienza del fallimento del genere umano, perché questo disco – musicalmente pop all’ennesima potenza – è in realtà una celebrazione della vita, un invito a vivere fino in fondo, a tenerci per mano e a guardare con più indulgenza le nostre mancanze e quelle altrui.

E credo che non sia un caso che il disco si apra e si chiuda con due brani che sono l’eco l’uno dell’altro: se Rottincuore Lacrimosa apre le danze inneggiando alla vita drammaticamente (“c’ho una voglia sfrenata di mangiare la vita”), Magari muori utilizza l’ironia e i ritmi leggeri del reggaeton per esorcizzare la morte e celebrare ogni istante dell’esistenza.

L’ignoranza genera paura, ma se prendiamo consapevolezza di chi siamo davvero e siamo disposti a raccontarlo agli altri i nodi dell’anima si scioglieranno più facilmente. Riprendendo le parole di Romina, se nella vita sbagliare è la cosa che ci è riuscita meglio, forse dovevamo peccare di più.

“… e piroetterò
trafitta dai peccati miei,
cosa hai campato a fare

se non sei rottincuore?”

BITS-RECE: Tamino, “Every Dawn’s a Mountain”. Dolcissimo, come la malinconia

BITS-RECE: Tamino, “Every Dawn’s a Mountain”. Dolcissimo, come la malinconia

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Qual è il confine tra la poesia e la canzone?
Cos’è quell’elemento che permette di dare agli infiniti orizzonti della parola poetica un’inedita tridimensionalità? Il segreto sta forse in una successione di accordi, o in una voce capace di strappare la mente dalla realtà e trasportarla in un universo parallelo.
Dall’alba dei tempi, musica e poesia sono due mitologiche sorelle che sono sempre andate molto d’accordo, ma nonostante tutto si resta ancora esterrefatti quando si vede cosa sono capaci di fare insieme. Quando, cioè, si realizza quella delicatissima congiunzione astrale che eleva al quadro la loro forza.

Ascoltare la musica di Tamino è un buon modo per rendersene conto. Con lui ogni volta è come se prendesse forma una magia, un incantesimo dolcissimo che solo quell’unione di musica e parole possono realizzare, ed è così fin dal meraviglioso esordio di Amir, che ci ha fatto conoscere la malinconia cantata da questo ragazzo belga (e di padre egiziano) dalla voce dorata.

Giunto ora al terzo album, Tamino mantiene quella che all’inizio poteva essere solo una promessa: è cresciuto, tanto, si è preso il suo spazio, ha arricchito il suo mondo imaginifico con spunti cantautorali che si sono innestati perfettamente nelle sue suggestioni esotiche, mai venute meno. Qui, per esempio, oltre alle densissime melodie fuori dal tempo, roventi come i tramonti mediorientali, c’è il suono dell’oud, tipico strumento di quelle terre, mentre le composizioni richiamano il cantautorato folk e indie (impossibile non cogliere in filigrana le influenze di Jeff Buckely, o di Thom Yorke, giusto per fare un nome).

Every Dawn’s a Mountain – questo il titolo del nuovo lavoro – è un disco incentrato sul distacco e sulla perdite, ma non è un disco senza speranza: anzi, come l’artista ha dichiarato a Rolling Stone, il titolo (“Ogni alba ha una montagna”, ma anche “Ogni alba è una montagna”) vuole proprio fare riferimento al fatto che ogni giorno offre una nuova sfida e una nuova opportunità.
A raccontarlo è anche un brano struggente come Willow, che parte dall’immagine del salice piangente per spiegare come a volte sia necessario morire per “vedere il sole”.

Più legate al tema del distacco e dell’alienazione sono invece Babylon, uno dei pilastri dell’album, e Dissolve: la moderna Babilonia a cui allude il titolo della prima è New York, città in cui Tamino si è trasferito e in cui ha potuto godere del privilegio dell’essere un anonimo cittadino immerso in quella giungla urbana. E poi c’è Sanctuary, in cui la voce del nostro si rincorre con quella dell’americana Mitski, unica presenza esterna nell’album.

I reside in the ruins
of the sanctuary
where a man praised a woman
and she loved him holy
it shakes me

Every Dawn’s a Mountain è album che avanza lento, cade morbido e denso come una goccia di miele, si prende tutto il tempo per spalancare il proprio orizzonte malinconico e dolcissimo.
Emana la sua luce intensa e vivida, fatta di parole e di suoni provenienti da un mondo bellissimo. Che sta proprio lì, dietro alla montagna.

BITS-RECE: La Niña, “Furèsta”. Anima universale

BITS-RECE: La Niña, “Furèsta”. Anima universale

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Sulla copertina del suo secondo album, il volto di La Niña, dipinto sulla superficie di un tamburello, osserva l’ascoltatore con aria severa, e in quello sguardo convivono antichità e tragedia, radici e fierezza. Proprio come le 10 canzoni che compongono Furèsta, il secondo lavoro di Carola Moccia, vero nome dell’artista partenopea.

“Furèsta” non semplicemente a richiamare uno spazio verde abitato dagli alberi, ma un’entità selvaggia, poco incline alle regole domestiche, che in comune con gli alberi ha profonde radici affondate nella propria terra, pur slanciandosi verso l’alto, alla scoperta di qualcosa lontano.

Furèsta è esattamente questo, un disco imbevuto della storia e dell’orgoglio di Napoli, della sua eredità sonora, della sua anima popolare e indomita, arcaica e persino sacrale, ma che non perde il contatto con il presente. Un disco pieno di rabbia e di amore, di tradizione e contaminazione (accanto a mandolino e tamburello spuntano qua e là anche il suono del clavicembalo e le cadenze dell’urban), un disco che più di tutto fa pensare a un messaggio di accoglienza, perché La Niña sembra voler dare voce a tutti. E che si tratti di un progetto di stampo corale è proprio nella dichiarazione di intenti dell’artista.

Se l’immensa eredità della musica di Napoli è la solida base su cui tutto poggia, ogni singolo brano racconta una storia a sé e il disco si allarga in un abbraccio cosmopolita: si va così da O ballo d’ ‘e ‘mpennate, tutto costruito sul suono degli zoccoli dei cavalli, ad Ahi!, che pesca invece dal bolero e da certe sonorità latine; Tremm’ prende spunto dall’atavico fenomeno del bradisismo di Pozzuoli per parlare del tremendo e pacifico senso di impotenza che si prova davanti alla forza della Natura, scatenando un baccanale di percussioni, accompagnato dalla voce di KUKII, artista egiziano-iraniana. Si spinge ancora più lontano nello spazio Sanghe, brano di aura ancestrale, quasi liturgica, incentrato sul tema tremendo della guerra e che mescola napoletano e arabo grazie alla presenza di Abdullah Miniawy.

Con il suo ritmo incalzante, quasi da marcia militare, Figlia d’a tempesta è un autentico e amaro manifesto di denuncia della condizione femminile.

A chiudere è Pica pica, uno dei momenti più interessanti: se da una parte il titolo fa riferimento al nome scientifico della gazza ladra (di cui si sente il suono), dall’altra l’espressione partenopea “pica pica” è usata per indicare la tigna di chi non demorde nel perseguire la propria strada. Musicalmente, a emergere in trasparenza sono sonorità medievali, ancora una volta in un gioco di rimandi tra passato e presente.

Nonostante sia un lavoro ricchissimo di influenze e stratificato, Furèsta è un album che si fa capire subito, perché parla un linguaggio universale, pop(olare) nel vero senso della parola.
La Niña canta per tutti.

#MUSICANUOVA: Tamino, “Willow”

#MUSICANUOVA: Tamino, “Willow”

In attesa del nuovo album Every Dawn’s a Mountain in arrivo il prossimo 21 marzoTamino condivide il singolo Willow.

“Il paradosso del salice è che quando muore e perde tutti i suoi rami pendenti, il tronco riesce a vedere il sole”, spiega Tamino. “In altre parole, il suo cuore prende una nuova vita. L’albero non piange più e trova finalmente conforto nel bagliore del sole”. 

Prodotto da Tamino e PJ Maertens, suo collaboratore di lunga data, con la co-produzione di Eric Heigle (Arcade Fire, Dawn Richard) e Alessandro Buccellati (Arlo Parks, SZA), e la produzione aggiuntiva di Chris Messina (Bon Iver, Big Red Machine), Zach Hanson (Bon Iver, Sylvan Esso) e Jo Francken, il nuovo disco si preannuncia incentrato sui temi della perdita, dello spostamento, della separazione e dell’abbandono, lasciando però spazio all’arrivo della luce di un nuovo giorno, e proprio in canzoni come Willow si può trovare il senso di liberazione, rinnovamento e ricostruzione.

Tracklist:
My Heroine
Babylon
Every Dawn’s a Mountain
Sanpaku
Sanctuary
Raven
Willow
Elegy
Dissolve
Amsterdam

Tamino ha scritto Every Dawn’s a Mountain a New York, dove ora vive.
Per farlo, ha utilizzato uno strumento tipico medio-orientale, l’oud: “L’oud arabo, che suono ormai da diversi anni, è di nuovo uno strumento importante e un pilastro sonoro fondamentale per l’album. Appare in quasi tutte le canzoni, a volte come strumento principale, soprattutto in Sanpaku. I brani Raven, My Heroine e Dissolve sono stati tutti scritti su di esso e hanno lo strumento al centro, con il resto degli arrangiamenti costruiti intorno alla spina dorsale del mio suono di oud e della voce.”

Banco del Mutuo Soccorso: il nuovo album è “Storie invisibili”

Banco del Mutuo Soccorso: il nuovo album è “Storie invisibili”

Anticipato dal singolo Il mietitore, esce Storie Invisibili, il nuovo album del Banco del Mutuo Soccorso, in Italia e sul mercato internazionale (etichetta The Saifam Group).

Il nuovo album è l’ideale completamento di una trilogia dedicata all’esistenza umana iniziata con Transiberiana (2019) e proseguita con Orlando: le forme dell’amore (2022): un concept album con 12 storie individuali di personaggi comuni, donne e uomini reali fotografati in momenti delle loro vite, nelle loro vicende personali, o all’interno di periodi storici del genere umano, attraverso le quali poter parlare di tutti noi, spesso alludendo ai grandi temi dei nostri tempi.

L’idea di realizzare la trilogia è nata nel 2015, un anno molto duro per il Banco, con la scomparsa di Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese, e l’emorragia cerebrale che colpisce Vittorio Nocenzi.

Ma la storia del gruppo è destinata a rinnovarsi e a ripartire, con la voglia di progettare qualcosa di mai fatto prima: un racconto molto più ampio del solito, tre album collegati uno all’altro in modo da formare un quadro unico.

Racconta Vittorio Nocenzi: “Sento che la gente chiede di nuovo idee, sentimenti, prospettive a misura d’uomo … Viviamo in un mondo sempre più complicato, dove però dobbiamo trovare un posto anche per la parte più importante della nostra vita, i nostri ideali.

La poesia e la musica possono (preferirei dire devono) anche condannare quello che non si condivide! Sicuramente questo non cambierà la realtà delle cose, ma può far circolare un’idea diversa da quelle programmate e diffuse dal sistema globale… E io posso, con il mio lavoro, dare un contributo per spingere gli altri ad usare maggiore lucidità, o magari convincerli a vedere le dinamiche del nostro tempo ‘fuori dal coro’, perché ho sempre creduto nella necessità di punti di osservazione diversi fra loro, per cercare di avvicinarci alla verità delle cose. Ed allora ecco la voglia di progettare, come musicista, qualcosa che non avevo mai fatto prima: un racconto molto più ampio del solito, addirittura una trilogia, un quadro ispirativo unico ma articolato in tre parti ben distinte ed allo stesso tempo fortemente connesse fra loro”.

Storie invisibili è stato ideato dal leader e fondatore del Banco Vittorio Nocenzi, che firma musiche e testi, insieme a Michelangelo Nocenzi e Paolo Logli rispettivamente (così come per i due precedenti album).

Storie invisibili” è disponibile nelle seguenti versioni: CD Digipack e Vinile giallo trasparente, entrambe in limited edition in 1000 copie di ogni formato, numerate e autografate da Vittorio Nocenzi, con libretto di 32 pagine il CD Digipack e di 16 pagine il vinile, contenente tutti i testi e commenti sull’album in italiano e in inglese. Sul mercato internazionale le due versioni escono in edizione standard con lo stesso libretto; in digital edition su tutti i portali digitali.

Per Jovanotti è tempo di ripartire: esce il nuovo album “Il corpo umano”

Per Jovanotti è tempo di ripartire: esce il nuovo album “Il corpo umano”

Nella carriera di un musicista ci sono ritorni che sono “più ritorni” di altri. Vuoi per un cambio di stile, o perché è sgorgata una nuova vena creativa, oppure per un evento personale che ha coinvolto l’artista. Insomma, non è vero che tutti i dischi sono uguali e che ogni comeback ha lo stesso peso dei precedenti.

Lo sa bene Jovanotti, che si prepara a dare al pubblico il suo sedicesimo album in studio.

Un lavoro che arriva a tre anni dal precedente Il disco del Sole, ma che soprattutto arriva dopo il grave incidente in bicicletta che ha visto Lorenzo Cherubini protagonista suo malgrado a Santo Domingo nel 2023, e che gli ha comportato non solo la rottura di bacino e clavicola, ma anche un’infezione batterica che gli “mangiucchiato” parte del femore. Quindi la riabilitazione per riacquistare la motilità delle gambe.

Un lungo e difficile periodo di fermo forzato, durante il quale ha letto moltissimo, da Gilgamesh ai poemi omerici, e che non gli ha impedito di tenere in movimento la mente e di iniziare a pensare. Proprio da lì, da quello stato di immobilità, è partita la scintilla da cui è nato il nuovo album, in uscita il 31 gennaio e il cui titolo non è certo casuale, Il corpo umano (volume 1).

L’occasione per presentarlo in anteprima arriva una sera piovosa di fine gennaio al Teatro Gaber di Milano: per Lorenzo è il primo, vero ritorno in scena davanti al suo pubblico.

Nonostante tutto, lo spirito del “ragazzo fortunato” è lo stesso di sempre, la sua innata vitalità è forse ancora più corroborata di un tempo: si muove senza sosta sul palco, salta, fatica a tenere ferme le gambe, non perde occasione per ballare, inizia a parlare ed è un fiume in piena, al punto che occorre impostargli un timer per le rispondere alle domande.

“Il titolo è nato prima delle canzoni, sono entrato in studio a realizzare i pezzi quando ho avuto il titolo e subito dopo l’idea della copertina dell’album. In pratica ho iniziato a costruire questo “edificio” partendo dal tetto.
Il mio album si chiama Il corpo umano non solo perché è stato il mio personale campo di
indagine e di battaglia dell’ultimo anno e mezzo, ma soprattutto perché il mio viaggio mi ha
aperto panorami nuovi rispetto a questo argomento inesauribile.
Normalmente sentiamo di avere un corpo quando il corpo si rompe o si ammala, così come ci accorgiamo dell’aria quando ci viene a mancare, così come scopriamo che esiste il tempo quando alle cose che iniziano si affiancano quelle che finiscono e noi ci stiamo in mezzo.


Si tratta quindi, per me, di iniziare o proseguire con nuova consapevolezza un lavoro sul “sentire” il corpo, l’aria, la luce, le cose che iniziano, quelle che finiscono, il respiro, i cambiamenti in atto, il dolore, il piacere, la guarigione, l’amore, gli altri, la natura, l’epoca, la cura, le emozioni, le idee, il flusso dei pensieri. Diventare, continuare a diventare è impegno e sfida, fino all’ultimo attimo, a bordo di un corpo fragile e infinito, mutevole e unico, come la vita stessa.”

L’inguaribile ottimismo di Lorenzo lo porta a sdrammatizzare anche sulla scelta della copertina, che riprende l’Allegro chirurgo, un vecchio gioco probabilmente sconosciuto alla Gen z.

All’interno dell’album trovano posto 15 tracce, che accolgono le diverse anime di Jovanotti, da quella romantica a quella più scanzonata, e che sono il frutto di un lavoro realizzato con tre diversi produttori, ciascuno scelto per la propria identità: c’è Dardust, che firma i primi due singoli Montecristo e Fuorionda, ma anche la titletrack, una sorta di sirtaki che evolve in un mood dionisiaco,; c’è Michele Canova, il deus ex machina di innumerevoli successi italiani degli ultimi decenni; e c’è Federico Nardelli, che porta la sua visione più indie.

Tutti i pezzi del disco saranno accompagnati su Youtube da speciali visual girati alla Galleria Borghese di Roma, realizzate in un pomeriggio di chiusura settimanale avendo cura – sottolinea Lorenzo – di non sfiorare nessuna delle opere e impiegare luci di scena collaudate e approvate dalla soprintendenza.

E mentre Il corpo umano sta per arrivare tra le mani dei fan, Jovanotti sta già scaldando i motori per il Palajova, il nuovo tour in partenza a marzo: uno spettacolo che punta a superare  il tradizionale
concerto. Le parole chiave nella progettazione sono state motown e street band, Prince and the revolution, romanticismo psichedelico. Non si tratta solo di musica, ma di un viaggio multisensoriale, una grande festa che unisce energia, emozioni e condivisione.

“Il concept dello spettacolo parte dall’idea di fioritura, e nasce da alcune esperienze che ho vissuto mentre pensavo al mio ritorno in scena. Tra tutte mi piace pensare ad una parola scritta da Etty Hillesum in una pagina dei suoi diari nei giorni più tragici della sua breve esistenza. Questa parola ha continuato per giorni a risuonare in me: “FIORIRE!”

La magia inizierà già al momento dell’ingresso: i palazzetti si trasformeranno in spazi unici, pensati per riflettere la visione che ha saputo rivoluzionare il mondo dei concerti.

Colori, simboli e dettagli che raccontano il suo universo accoglieranno il pubblico, creando un’atmosfera che è già di per sé un’esperienza. Ogni show sarà un incontro tra creatività e innovazione, dove la tecnologia non è solo un supporto, ma amplifica le emozioni, rendendo ogni attimo irripetibile.
Tutto sarà all’insegna della sostenibilità e del rispetto dell’ambiente.

I biglietti sono disponibili su Ticketone. Tanti gli appuntamenti già sold out.

 

 

“Love 679”. Il primo album dei Dov’è Liana tra amore, dancefloor e rivoluzione

“Love 679”. Il primo album dei Dov’è Liana tra amore, dancefloor e rivoluzione

Sono francesi, ma per la loro musica devono tantissimo all’Italia.

A cominciare dal nome con cui questi tre amici hanno scelto di farsi conoscere con il loro progetto, Dov’è Liana. Leggenda vuole che abbiano scelto di chiamarsi così dopo una vacanza trascorsa a Palermo, città che li ha stregati umanamente e musicalmente, perché – dicono – “a Palermo la musica è fatta per ballare”. E proprio a Palermo, alla Taverna Azzurra, pare abbiano conosciuto una ragazza di nome Liana, che li ha folgorati come un fulmine per poi scomparire come una Chimera. Da allora non l’hanno più incontrata, ma hanno voluto fissare quel momento nella memoria.

Il loro primo singolo, Perché piangi Palermo?, pubblicato nel 2020 e considerato ormai un classico dal popolo della club culture, era un dichiarato omaggio alla città siciliana ed è stato il primo passo di un percorso che li ha portati oggi a essere uno dei nomi più promettenti della dance europea.
I loro concerti sono per il pubblico sinonimo di festa e di condivisione, momenti per celebrare l’unione, l’amicizia, l’amore, l’accettazione, un’occasione per lasciare fuori dalla porta pregiudizi e ostilità: “Fare concerti è come fare l’amore, qualcosa da fare ovunque”, dichiarano con quel misto di candore e sarcasmo con cui pronunciano ogni parola.
Non è un caso comunque che quando ripensano al loro miglior concerto in Italia il ricordo vada al primo live in Santeria a  Milano, dove ci fu una vera e propria invasione sul palco da parte dei fan: quello era per loro il clima esatto che volevano creare.

Da quando hanno iniziato a fare musica hanno scelto di nascondere i loro volti dietro occhiali da sole e coloratissimi foulard, un outfit diventato ormai il loro iconico marchio di fabbrica, ma anche una precisa volontà di andare contro gli stereotipi.

Per i Dov’è Liana fare dischi, salire sul palco e mettersi dietro alla consolle significa prima di tutto ricreare quel clima di festa e di gioia che avevano sperimentato anni fa a Palermo, ed è esattamente con questo spirito che dopo essersi fatti conoscere con diversi singoli, arrivano alla pubblicazione del loro primo album, in uscita il prossimo 11 ottobre.

Il titolo è già emblematico, Love 679, un vero e proprio manifesto d’amore: per coglierne il significato bisogna pronunciarlo in inglese (“love six seven nine”). Il fatto che manchi il numero 8 non è casuale, dal momento che la pronuncia di eight richiama quella della parola hate, “odio”. Quindi 679 come un codice dell’amore, da cui è messo al bando l’odio. Un sorta di Peace & Love 2.0.

“Con questo album vogliamo creare la colonna della nostra generazione, per fare tutti insieme la rivoluzione”. Una rivoluzione in gran parte cantata in italiano, e che fa rima con festa, amore e inclusione.

Nelle tracce dell’album ci sono tutti gli elementi che in questi anni hanno fatto conoscere questi tre ragazzi d’Oltrealpe: c’è la house, ovviamente, che con i suoi bassi potenti e i synth luccicanti è il vero motore della loro musica; c’è il rock’n’roll, che brucia per esempio nel singolo Tutte le donne, una delle anticipazioni dell’album; e poi c’è il funky, forse la musica che più di tutte si addice al clima di festa che il gruppo intende ricreare. Non poteva poi mancare il french touch, con tutta la sua elettronica e i vocoder.

Ma, naturalmente, c’è spazio anche per rendere omaggio alla musica italiana, come in Postcards from Universe, un brano che si rifà direttamente alle ballate romantiche del cantautorato nostrano.
E parlando di musica italiana, tra le proprie fonti di ispirazione il gruppo cita prima di tutto Andrea Laszlo De Simone, poi Adriano Celentano, Giorgio Poi, Cosmo, Pop X e, in particolare per la scrittura, Rino Gaetano.

A conti fatti, forse è stato un bene che Liana sia apparsa e scomparsa nella vita di questi tre amici, lasciando in loro il ricordo poetico, e un po’ idealizzato, di un momento irripetibile, che loro cercano di tenere in vita sulla pista da ballo.

Non è semplicemente dance: dietro a quei synth, dietro a quella cassa in 4 e a quelle parole un po’ naïf si nasconde una nuova forma di romanticismo.

In contemporanea all’uscita dell’album, il trio partirà in tour, con una prima tappa speciale al Cabaret Sauvage l’11 ottobre 2024, per poi girare tra le principali città Europee, in apertura a L’Imperatrice, e in Italia con il 679 Winter Tour.

I biglietti sono disponibili online qui.

22 novembre 2024 @ Base – Milano 

23 novembre 2024 @ Black Zone – Firenze 

29 novembre 2024 @ Link – Bologna

30 novembre 2024 @ Cieloterra – Roma

07 dicembre 2024 @ Progresja – Varsavia, Polonia (in apertura a L’Imperatrice)

08 dicembre 2024 @ Columbiahalle – Berlino, Germania (in apertura a L’Imperatrice)

09 dicembre 2024 @ Roxy – Praga, Repubblica Ceca (in apertura a L’Imperatrice)

11 dicembre 2024 @ Konzerthouse – Vienna, Austria (in apertura a L’Imperatrice)

12 dicembre 2024 @ X Fra – Zurigo, Svizzera (in apertura a L’Imperatrice)

13 dicembre 2024 @ Thonex – Ginevra, Svizzera (in apertura a L’Imperatrice)

20 dicembre 2024 @ Hiroshima Mon Amour – Torino

21 dicembre 2024 @ Zō – Catania

 

#MUSICANUOVA: Sethu feat. bnkr44, “sottosopra”

#MUSICANUOVA: Sethu feat. bnkr44, “sottosopra”

Il primo incontro pubblico tra Sethu e i bnkr44 era stato sul palco del Festival di Sanremo 2023, quando il primo, in gara con il brano Cause perse, decise di coinvolgere la band nella serata delle cover.

Insieme diedero vita a una personale rivisitazione di Charlie fa surf dei Baustelle, portando in scena tutta la carica del punk-rock.

Ora l’artista savonese e la band si ritrovano per una nuova, inedita collaborazione: il brano si intitola sottosopra ed è una delle bonus tracks incluse nella nuova edizione di tutti i colori del buio, il primo album di Sethu pubblicato in digitale alcuni mesi fa, in arrivo il 1 novembre anche in una specialissima edizione in vinile zootropico.

BITS-RECE: Lady Gaga, “Harlequin”. Elogio della follia

BITS-RECE: Lady Gaga, “Harlequin”. Elogio della follia

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.

Partiamo da un presupposto: se Lady Gaga non fosse stata coinvolta in Joker-Folie à Deux, molto probabilmente questo disco non avrebbe mai visto la luce.
Annunciato praticamente a sorpresa con solo qualche giorno di anticipo sull’uscita, Harlequin è da subito stato presentato dalla stessa Gaga come un “album di accompagnamento” all’arrivo nelle sale del film che la vede protagonista insieme a Joaquin Phoenix, pellicola in cui a lei spetta vestire i panni di Harley Quinn.

E che si tratti di un progetto speciale, e non di un vero e proprio capitolo della discografia di Mother Monster, ce lo dice anche il fatto che per indicare questo album è stata utilizzata la sigla “LG6.5”, in riferimento al fatto che il vero nuovo, attesissimo progetto, per ora noto solo come “LG7”, arriverà più avanti.

Sintetizzando, potremmo affermare che Harlequin è una sorta di capriccio che Gaga ha voluto togliersi, forte di una vena creativa che mai come in questo periodo sembra inesauribile. Un vezzo artistico, che ci ricorda che lei può permettersi di spaziare dalle hit da classifica agli standard jazz con una naturalezza e una disinvoltura eccezionali.
E infatti, con il pretesto di questo nuovo lavoro, Gaga ha potuto rituffarsi per la terza volta nel mondo del jazz, dopo i due album pubblicati insieme a Tony Bennett, e dopo aver concluso da pochi mesi la residency a Las Vegas con le serie di concerti “Jazz & Piano”.
Insomma, se il pop è il genere che ha dato a Gaga la grande notorietà, il jazz sembra essere la sua vera comfort zone, il rifugio sicuro in cui tornare.

Con l’obiettivo di esplorare fino in fondo l’anima di Harley Quinn, portandone in evidenza più sfumature possibili, con Harlequin – titolo che gioca tra il nome del personaggio e quello della celebre maschera bergamasca –  Lady Gaga riprende alcuni grandi classici del repertorio jazz e soul come Good Morning, Oh, When the SaintsWorld on a String, That’s Entertainment, Smile, That’s Life, e la sensazione è che mai come in questo caso lo faccia in piena libertà, scegliendo le chiavi di lettura e le intenzioni senza timore di andare fuori strada o di allontanarsi troppo da quello che il pubblico potrebbe aspettarsi o gradire.

Celandosi dietro alla maschera folle e ai panni di Harley Quinn, Stefani Germanotta ci costringe a legittimare ogni sua scelta e brano dopo brano ci svela un’anima complessa, in cui ogni sentimento è come uno scampolo di un diverso colore.
Qui la questione non è se una traccia sia più bella o più riuscita dell’altra, o se ogni pezzo fosse davvero necessario all’interno del disco. Piuttosto, quello che Gaga-Quinn sembra volerci chiedere è se le canzoni che canta ci stanno davvero raccontando qualcosa e se nelle parole di questa o di quella canzone riusciamo a cogliere un significato che era sempre rimasto sotto la superficie. Perché è questo ciò che lei vuole fare, e questo è il vero obiettivo di Harleiquin, indagare ciò che si nasconde sotto la maschera, non avere paura di cercare a fondo nell’anima, anche a costo di scontrarsi con la follia.

Harlequin in fondo è un progetto “storto”, folle per il mercato, ma lucido nella sua costruzione; un disco anche ostico, che però solo Lady Gaga, oggi, tra i grandi nomi del mainstream potrebbe permettersi di realizzare.

Se per i precedenti Cheek to Cheek e Love for Sale Gaga poteva godere della presenza dell’amico Tony, che in qualche modo giustificava la sua scelta di aver realizzato un album jazz, qui la partita se la gioca da sola. E proprio per questo sceglie di andare fino in fondo, proponendo anche due pezzi inediti.

Il primo, Folie à Deux, è un numero sciantoso che sembra uscire da una notte nella Ville Lumière. Il secondo, Happy Mistake, è una di quelle meraviglie che Gaga sa tirare fuori dalla penna e sa interpretare come nessuna. Dentro c’è il dramma, la follia, il dolore, l’ossimoro delle lacrime che fanno sciogliere il trucco, mentre sul viso spunta un sorriso.

 

 

 

 

The Cure: il 1 novembre esce il nuovo album “Songs of a Lost World”. Fuori il primo singolo

The Cure: il 1 novembre esce il nuovo album “Songs of a Lost World”. Fuori il primo singolo

È attesa per il prossimo 1 novembre l’uscita di Songs of a Lost World, il nuovo album di inediti di The Cure, il primo in 16 anni.

Alcuni brani tratti dal disco sono stati cantati live per la prima volta durante il tour, “Shows of a Lost World”, comprensivo di 90 date in 33 Paesi e che ha totalizzato oltre 1 milione e 300 mila spettatori.

Il primo singolo, Alone, è stato il brano di apertura in ciascuno show ed è disponibile su tutte le piattaforme digitali da ora.

Sul primo singolo il frontman Robert Smith ha dichiarato: “È il brano che ha sbloccato il disco; non appena abbiamo registrato quel pezzo ho capito che doveva essere la canzone d’apertura e ho sentito che l’intero disco veniva messo a fuoco. Per un po’ di tempo ho cercato di trovare la giusta frase d’apertura per la giusta canzone che facesse da apripista al progetto, lavorando sul concetto di ‘essere soli’, sempre con la sensazione assillante di sapere già quale dovesse essere la frase d’apertura… appena abbiamo finito di registrare mi sono ricordato della poesia ‘Dregs’ del poeta inglese Ernest Dowson… e quello è stato il momento in cui ho capito che la canzone – e l’album – erano diventati qualcosa di concreto”.

Il resto della tracklist sarà svelata nelle prossime settimane sui profili social e sul sito ufficiale della band.

Il nuovo album è stato scritto e arrangiato da Robert Smith, prodotto e mixato da Robert Smith & Paul Corkett e cantato dai The Cure (Robert Smith: Voce / chitarra/ basso / tastiere, Simon Gallup: basso, Jason Cooper: batteria / percussioni, Roger O’Donnell: tastiera, Reeves Gabrels: chitarra).

Il disco è stato registrato ai Rockfield Studios a Wales.

Robert Smith ha creato il concept e Andy Vella, fedele collaboratore dei Cure, si è occupato del design e della parte visiva. La cover ritrae una scultura del 1975 di Janes Pirnat, “Bagatelle”.

Songs of a Lost World è disponibile per il pre-order in formato fisico e uscirà in Italia nei seguenti formati: CD, LP, CD + Blu-Ray.
In esclusiva sullo store di Universal Music Italia saranno disponibili il Doppio LP nero masterizzato in half-speed e la musicassetta.
Per Feltrinelli sarà disponibile in esclusiva un LP color marmo.
Per chi pre-ordina i prodotti standard tramite Discoteca Laziale, invece, sarà disponibile in esclusiva un poster dedicato.