BITS-RECE: Anitta, “Funk Generation”. Corto, sporco e cattivo

BITS-RECE: Anitta, “Funk Generation”. Corto, sporco e cattivo

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una mancata di bit.

Lo dico tranquillamente: non avevo nessuna valida ragione per ascoltare questo disco. Conosco discretamente l’artista, non vado particolarmente matto per il suo genere e nessuno mi ha commissionato la recensione. Se l’ho ascoltato – e ora ne scrivo, visto che ci ho investito del tempo – è perché scorrendo la tracklist in Spotify sono rimasto colpito dalla durata media delle canzoni.

Più che album, Funk Generation di Anitta è una scatola di cartucce.

Una raffica di 15 proiettili veloci come schegge, sparati a perdifiato, in neanche 40 minuti.

Si fa giusto in tempo a prendere confidenza con quella carica di bollenti ritmi carioca che tutto è già finito.

Il sesto album della star brasiliana più famosa al mondo (in questi anni almeno) nasce come un tributo al funk delle favelas: “Funk Generation incarna ogni sfumatura di questo genere musicale 100% brasiliano che ha plasmato il mio percorso sia come persona sia come artista”, ha dichiarato Anitta. “Il funk è radicato nella cultura di coloro che vivono nelle favelas brasiliane, da cui provengo, e spesso è stato ingiustamente giudicato come privo di valore artistico, persino associato alla criminalità organizzata. Riflette il classismo e il razzismo presenti nella nostra società. Io faccio parte di una generazione che ha abbracciato il ritmo, è uscita dalle favelas e ha conquistato il Brasile”.

Uno scopo più che nobile insomma, non fosse che terminato l’ascolto dell’album si fa fatica a dire cosa ne resta in testa a parte il bada bum bada bum bada bum. Tutto risulta così frenetico e i pezzi sono così – diciamolo – “simili” tra loro che distinguerli uno dall’altro diventa il vero esercizio dell’ascoltatore. Tra l’altro, sono di una lunghezza imbarazzante, che raramente ho visto in altri album: su 15 tracce totali, solo una supera i 3 minuti, e ben tre restano addirittura sotto i 120 secondi. Per dire, ci sono artisti che inseriscono nei propri album degli “Interlude” più lunghi. Già faccio fatico a farmi andare bene le mini-canzoni da 2 min e un tot che vanno di moda ora, figuriamoci se vedo un timing di 1.23 min…

Più che un manifesto funk, questo lavoro è un mosaico in cui le singole tessere si mangiucchiano a vicenda, si confondono, si appiattiscono pur nel loro fragore.

Se l’intento era far sentire il calore delle notti lungo le strade di Rio, la missione è stata centrata, così come è indubbio che volenti o nolenti ci si ritrovi a ondeggiare le spalle spinti da un esercito di percussioni che non lascia scampo. Ma soprattutto, Funk Generation è un’intricata selva di folklore carioca sporchissima, sudaticcia, lussuriosa e lussureggiante di contaminazioni urban, hip-hop, elettroniche, che sono poi la vera anima dell’album.

A un certo punto, in Ahi, spunta fuori pure Sam Smith, che qui però non centra proprio nulla e, anzi, appare pure un tantino a disagio nonostante la svolta dirty degli ultimi anni.

Da segnalare la citazione di Lose My Breath delle Destiny’s Child nel brano di apertura, che non a caso si intitola Lose Ya Breath. Un tocco gustoso, va detto.

Per il resto, è un po’ tutto come in una sveltina: focoso, travolgente, senza vera passione. E una volta finito passi a fare qualcos’altro.