BITS-RECE: Tamino, “Every Dawn’s a Mountain”. Dolcissimo, come la malinconia

BITS-RECE: Tamino, “Every Dawn’s a Mountain”. Dolcissimo, come la malinconia

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Qual è il confine tra la poesia e la canzone?
Cos’è quell’elemento che permette di dare agli infiniti orizzonti della parola poetica un’inedita tridimensionalità? Il segreto sta forse in una successione di accordi, o in una voce capace di strappare la mente dalla realtà e trasportarla in un universo parallelo.
Dall’alba dei tempi, musica e poesia sono due mitologiche sorelle che sono sempre andate molto d’accordo, ma nonostante tutto si resta ancora esterrefatti quando si vede cosa sono capaci di fare insieme. Quando, cioè, si realizza quella delicatissima congiunzione astrale che eleva al quadro la loro forza.

Ascoltare la musica di Tamino è un buon modo per rendersene conto. Con lui ogni volta è come se prendesse forma una magia, un incantesimo dolcissimo che solo quell’unione di musica e parole possono realizzare, ed è così fin dal meraviglioso esordio di Amir, che ci ha fatto conoscere la malinconia cantata da questo ragazzo belga (e di padre egiziano) dalla voce dorata.

Giunto ora al terzo album, Tamino mantiene quella che all’inizio poteva essere solo una promessa: è cresciuto, tanto, si è preso il suo spazio, ha arricchito il suo mondo imaginifico con spunti cantautorali che si sono innestati perfettamente nelle sue suggestioni esotiche, mai venute meno. Qui, per esempio, oltre alle densissime melodie fuori dal tempo, roventi come i tramonti mediorientali, c’è il suono dell’oud, tipico strumento di quelle terre, mentre le composizioni richiamano il cantautorato folk e indie (impossibile non cogliere in filigrana le influenze di Jeff Buckely, o di Thom Yorke, giusto per fare un nome).

Every Dawn’s a Mountain – questo il titolo del nuovo lavoro – è un disco incentrato sul distacco e sulla perdite, ma non è un disco senza speranza: anzi, come l’artista ha dichiarato a Rolling Stone, il titolo (“Ogni alba ha una montagna”, ma anche “Ogni alba è una montagna”) vuole proprio fare riferimento al fatto che ogni giorno offre una nuova sfida e una nuova opportunità.
A raccontarlo è anche un brano struggente come Willow, che parte dall’immagine del salice piangente per spiegare come a volte sia necessario morire per “vedere il sole”.

Più legate al tema del distacco e dell’alienazione sono invece Babylon, uno dei pilastri dell’album, e Dissolve: la moderna Babilonia a cui allude il titolo della prima è New York, città in cui Tamino si è trasferito e in cui ha potuto godere del privilegio dell’essere un anonimo cittadino immerso in quella giungla urbana. E poi c’è Sanctuary, in cui la voce del nostro si rincorre con quella dell’americana Mitski, unica presenza esterna nell’album.

I reside in the ruins
of the sanctuary
where a man praised a woman
and she loved him holy
it shakes me

Every Dawn’s a Mountain è album che avanza lento, cade morbido e denso come una goccia di miele, si prende tutto il tempo per spalancare il proprio orizzonte malinconico e dolcissimo.
Emana la sua luce intensa e vivida, fatta di parole e di suoni provenienti da un mondo bellissimo. Che sta proprio lì, dietro alla montagna.

BITS-RECE: La Niña, “Furèsta”. Anima universale

BITS-RECE: La Niña, “Furèsta”. Anima universale

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Sulla copertina del suo secondo album, il volto di La Niña, dipinto sulla superficie di un tamburello, osserva l’ascoltatore con aria severa, e in quello sguardo convivono antichità e tragedia, radici e fierezza. Proprio come le 10 canzoni che compongono Furèsta, il secondo lavoro di Carola Moccia, vero nome dell’artista partenopea.

“Furèsta” non semplicemente a richiamare uno spazio verde abitato dagli alberi, ma un’entità selvaggia, poco incline alle regole domestiche, che in comune con gli alberi ha profonde radici affondate nella propria terra, pur slanciandosi verso l’alto, alla scoperta di qualcosa lontano.

Furèsta è esattamente questo, un disco imbevuto della storia e dell’orgoglio di Napoli, della sua eredità sonora, della sua anima popolare e indomita, arcaica e persino sacrale, ma che non perde il contatto con il presente. Un disco pieno di rabbia e di amore, di tradizione e contaminazione (accanto a mandolino e tamburello spuntano qua e là anche il suono del clavicembalo e le cadenze dell’urban), un disco che più di tutto fa pensare a un messaggio di accoglienza, perché La Niña sembra voler dare voce a tutti. E che si tratti di un progetto di stampo corale è proprio nella dichiarazione di intenti dell’artista.

Se l’immensa eredità della musica di Napoli è la solida base su cui tutto poggia, ogni singolo brano racconta una storia a sé e il disco si allarga in un abbraccio cosmopolita: si va così da O ballo d’ ‘e ‘mpennate, tutto costruito sul suono degli zoccoli dei cavalli, ad Ahi!, che pesca invece dal bolero e da certe sonorità latine; Tremm’ prende spunto dall’atavico fenomeno del bradisismo di Pozzuoli per parlare del tremendo e pacifico senso di impotenza che si prova davanti alla forza della Natura, scatenando un baccanale di percussioni, accompagnato dalla voce di KUKII, artista egiziano-iraniana. Si spinge ancora più lontano nello spazio Sanghe, brano di aura ancestrale, quasi liturgica, incentrato sul tema tremendo della guerra e che mescola napoletano e arabo grazie alla presenza di Abdullah Miniawy.

Con il suo ritmo incalzante, quasi da marcia militare, Figlia d’a tempesta è un autentico e amaro manifesto di denuncia della condizione femminile.

A chiudere è Pica pica, uno dei momenti più interessanti: se da una parte il titolo fa riferimento al nome scientifico della gazza ladra (di cui si sente il suono), dall’altra l’espressione partenopea “pica pica” è usata per indicare la tigna di chi non demorde nel perseguire la propria strada. Musicalmente, a emergere in trasparenza sono sonorità medievali, ancora una volta in un gioco di rimandi tra passato e presente.

Nonostante sia un lavoro ricchissimo di influenze e stratificato, Furèsta è un album che si fa capire subito, perché parla un linguaggio universale, pop(olare) nel vero senso della parola.
La Niña canta per tutti.

BITS-RECE: Keyra, “Femmena”. Orgoglio urban made in Campania

BITS-RECE: Keyra, “Femmena”. Orgoglio urban made in Campania

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit

Questo è quello che definirei un esordio promettente, e fossi in voi mi segnerei il nome di Keyra perché è facile che ne risentirete parlare.

Classe ’98, nata a Salerno, all’anagrafe Annapaola Giannattasio, arriva alla pubblicazione del suo primo EP dopo aver pubblicato una manciata di singoli con cui ha definito il proprio stile: un urban verace ambientato per le strade della sua città, con testi che rispecchiano i sogni e gli sfoghi di chi sta vivendo i proprio anni Venti.

Il titolo dell’EP – Femmena – è già una dichiarazione di orgoglio e di personalità, mentre le sei tracce che lo compongono raccontano il mondo agrodolce di una ragazza alle prese con relazioni sbagliate, rimorsi, storie da riparare, desiderio di dichiarare l’amore per sé stessa e volontà di affermare la propria indipendenza come donna. Anzi, come un femmena.

A prendersi maggiormente l’attenzione sono Femmena, personale rilettura del celeberrimo brano di Totò, Piccirè (“Non sono più una bambina, ma una donna. Il messaggio è: lasciami, lasciami cadere, che tanto mi so rialzare da sola”) e Tabi (“è il mio inno da Amazzone degli anni Venti”).

C’è parecchio potenziale inespresso, e questo mi fa sperare che Keyra ci darà belle soddisfazioni. Diamole il tempo.

BITS-RECE: Gia Ford, “Transparent Things”. Oscure trasparenze

BITS-RECE: Gia Ford, “Transparent Things”. Oscure trasparenze

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Se sarà vera gloria ce lo dirà il futuro. Quel che è certo è che il nome di Gia Ford è una delle grandi promesse della nuova scena pop.

Dopo essersi fatta conoscere – e apprezzare – dalla stampa che conta con una manciata di singoli, l’artista inglese arriva ora alla pubblicazione dell’album d’esordio, Transparent Things, un lavoro che ha tutte le carte in regola per portare il suo nome all’attenzione del pubblico internazionale.

Quasi un concept album incentrato sul tema dell’emarginazione e dell’alienazione, il che è sufficiente a inquadrare il personaggio: con la sua aura ombrosa e crepuscolare, Gia Ford è la perfetta incarnazione dell’alt pop del nuovo millennio, per quanto la sua comfort zone vada ben al di là dei confini del pop.

Impossibile infatti non scorgere nel suo DNA l’eredità dei Portishead o di PJ Harvey, così come le atmosfere dei Garbage (provate a chiudere gli occhi, e ditemi se nella sua voce non ritrovate Shirley Manson…) e di una certa scena anni ’90, il che avvicina volentieri le sonorità dei suoi brani all’indie e al rock.

Sonorità ibride e dark, proprio come Gia Ford, misterioso angelo dalle ali tinte di nero, creatura ancora da scoprire.

Transparent Things è un album che si scioglie traccia dopo traccia, è un incantesimo dolce e ammaliatore.

A noi non resta che lasciarci sedurre, e scommettiamo che funzionerà.

 

BITS-RECE: UDDE, “Diaspora”. Non qui, non ora, ovunque, sempre

BITS-RECE: UDDE, “Diaspora”. Non qui, non ora, ovunque, sempre

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

La storia di questo disco parte dalla foto che poi ne è diventata la copertina.

Un’immagine sospesa nel tempo, in un non luogo che potrebbe trovarsi ovunque, in un inverno glaciale che potrebbe sembrare eterno, cristallizzato nel tempo. Tutto immortalato in uno scatto slegato da ogni coordinata.

Quando UDDE – musicista e compositore sardo di origine, ma di stanza in Grecia – ha visto questa immagine, in lui è scattata una scintilla che lo ha messo al lavoro su un disco che riuscisse a catturarne l’essenza. Era il 2014.

Diaspora, il disco, è uscito nell’aprile del 2024.

Dieci anni di tempo, di lavoro, di ripensamenti, di scritture e riscritture, di ispirazioni catturate e cancellate. Le 11 tracce definitive sono il risultato di una scrematura di almeno 30 pezzi.

Aprendo un qualsiasi dizionario, alla voce “diaspora” si trova una definizione che suona più o meno così: dispersione di un popolo o di una comunità al di fuori della propria patria o territorio d’origine.
Uno dei tratti caratteristici di ogni diaspora è il fatto che i gruppi di individui che si ritrovano a migrare altrove mantengono intatta la loro identità culturale all’interno del nuovo contesto in cui si stabiliscono.

Prendendo questa definizione e applicandola all’album, l’equazione torna perfettamente: Diaspora appare effettivamente come un progetto diasporico. Ogni traccia è una pietra di un cammino, un piccolo sasso gettato qua e là nello spazio e nel tempo della lavorazione del disco. Eppure, prese tutte insieme, le tracce sono straordinariamente coese, compatte, coerenti.
Ogni pezzo di Diaspora è un piccolo mondo lucente, un candido ecosistema autosufficiente, che non tradisce però l’identità più alta dell’intero progetto.

Diaspora è un album solo nella forma: nella sostanza è una raccolta di petali leggerissimi, volati qua e là liberamente, senza vincoli, legami.

Arrivando più nello specifico a inquadrarne l’identità, Diaspora è un album evanescente, diafano, etereo nelle sue atmosfere oniriche e sospese.
Il suo autore ha dichiarato di essersi ispirato a un ventaglio di fonti che vanno da Cocteau Twins, David Bowie, Brian Wilson, Syd Barrett, e molti, molti altri nomi: tutti riferimenti che qui dentro si potrebbe anche cercare di carpire, ma sono talmente reimpastati, metabolizzati, trasformati che non importa davvero sapere quali siano.

C’è ovviamente tanta elettronica, c’è sperimentazione, c’è una scrittura che sembra quasi volersi nascondere sotto i vari effetti del cantato.

Diaspora nasce da una lunga ricerca, ma è esso stesso una ricerca che chi lo ascolta deve compiere pezzo dopo pezzo. Un mosaico candido e glaciale da osservare da vicino, per cogliere in ogni sua tessera ogni piccola scaglia preziosa. Oltre ogni luogo, lontano da ogni tempo.

 

BITS-RECE: Kimera, “I fiori del male”. Poesia nel cuore della notte

BITS-RECE: Kimera, “I fiori del male”. Poesia nel cuore della notte

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Siamo Uomini, animali sociali, ce lo hanno insegnato i Greci: siamo nati per stare in gruppo, vivere in società, creare relazioni, instaurare rapporti civili. E questo lo facciamo principalmente durante il giorno, nelle ore di luce, quando indossiamo la nostra maschera migliore per uscire di casa e affrontare il mondo fuori.

E poi c’è la notte. L’altra faccia della medaglia, la faccia buia, misteriosa, segreta. Che la notte abbia da sempre esercitato su di noi un fascino potentissimo non è certo un mistero. Artisti, scrittori, filosofi, poeti ce lo hanno raccontato. È di notte che ci guardiamo in faccia per ciò che siamo veramente; di notte siamo disposti ad accettare ciò che siamo e ciò che vogliamo; di notte lasciamo cadere le difese e affrontiamo demoni, desideri, fragilità. Per cui sì, siamo animali sociali, ma siamo anche animali notturni.

Un racconto poetico e profondo della notte, dei suoi labirinti di emozioni, delle sue vertigini e dei suoi vortici, lo troviamo nelle tracce di I fiori del male, nuovo progetto del cantautore Kimera.

In un tessuto elettronico che si divide tra synth-pop e darkwave, Kimera costruisce un cantautorato notturno dai toni freddi, in cui prendono vita episodi di passione e fragilità, intimità e smarrimento.
Un cantautorato che si apre alle ultime luci del crepuscolo per liberare pensieri, preghiere, suppliche, in una corsa a perdifiato lungo chiaroscuri stupendi e spaventosi, con la Luna come unica, ideale testimone, ferma e muta nel cielo.

Le cinque tracce dell’EP sono istantanee di un racconto di vita, a partire da Artico, in cui la dolcezza del canto fa da perfetto contraltare all’amarezza di un amore solo sognato; partendo dal riferimento baudelairiano, I fiori del male, traccia che dà il titolo all’EP, esprime al massimo il senso di smarrimento e solitudine, mentre Quando le discoteche chiudono è forse il pezzo che meglio riassume lo spirito di tutto il progetto.

Chiude Hyperlove, l’ultimo abbaglio notturno, l’ultima scheggia di ghiaccio: “Il silenzio fa un rumore così forte da sentire anche quaggiù”.

È l’ultimo segreto svelato al termine di una corsa disperata, mentre all’orizzonte si intravedono le prime luci di un nuovo giorno. E tutto sembra diverso.
“Tra la nebbia resta solo una certezza / il nostro è un hyperlove”.

#BITS-RECE: Sethu, “tutti i colori del buio”. La fine è l’inizio

#BITS-RECE: Sethu, “tutti i colori del buio”. La fine è l’inizio

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit

“ho visto un ragazzo stanco
sopra il tetto di un palazzo
quando i tuoi sogni muoiono
non sai dov’è che volano
ma sta con la faccia all’angolo
perché i ragazzi non piangono
c’è una canzone in radio
ma ora noi non cantiamo”

(da ragazzi perduti)

 

Questo album avrebbe anche potuto non vedere mai la luce. Ma questo album è anche la testimonianza di una salvezza.

Per capire da dove nasce dobbiamo fare un passo indietro, a Sanremo 2023, quando Sethu si presenta al grande pubblico con il brano Cause perse. Al termine della kermesse la classifica parla chiaro, l’artista savonese è ultimo. Poteva andare meglio, ma tutto sommato per lui non è stato un dramma, se non fosse che nella testa di Sethu iniziano a prendere forma domande sul senso di fare musica, sugli obiettivi non raggiunti, sulle aspettative da soddisfare, sulla necessità – agli occhi degli altri – di capitalizzare a ogni costo l’esperienza sanremese per trasformarla in una svolta, come l’anno prima era stato per Tananai, e ancora prima per Vasco.

Ecco che il dopo-Sanremo si rivela una voragine, psicologicamente parlando: è il ritorno alla realtà, il ritorno a fare musica solo per la propria missione personale, con le sole proprie forze. Si (ri)affacciano la depressione, l’ansia da prestazione, le paranoie, una latente tendenza a una bassa autostima. In una parola, arriva la crisi. Sethu si allontana anche da Jiz, suo gemello di sangue e di musica, dal momento che è insieme a lui che nascono le sue canzoni.
Poi, per entrambi, la decisione salvifica di (ri)entrare in terapia. E lì, dove c’era solo buio, torna la luce; lì, dove c’era solo nero, tornano a distinguersi i colori. tutti i colori del buio, appunto, quelli che daranno poi il titolo al disco della rinascita e della salvezza.

E a proposito del titolo, si tratta di una diretta citazione del film Tutti i colori del buio di Sergio Martino. Ma tutto il disco è costellato da citazioni che spaziano da Baudelaire, CCCP e persino Club Dogo.

Si badi però che questo è un disco cosparso pur sempre da un’aura e da un mood fuligginosi: la tinta predominante è quella del nero, con la differenza che grazie alla terapia Sethu ha saputo coglierne le numerose sfumature.

L’artista savonese parte da sé, parte dalla propria vicenda personale, ma è chiaro che quello che racconta in questi brani è lo scenario che attanaglia un’intera generazione. Brani come per noia, i ragazzi perduti, troppo stanchi – l’unica traccia a non essere stata composta in quest’ultimo anno – o problemi sono pennellate fosche e violente che tratteggiano un panorama ampio.

“siamo troppo stanchi per la nostra età
e tutto questo un giorno ci ucciderà
non puoi darmi l’aria che mi manca
sciolgo mille pillole dentro l’acqua
non sto bene portami via
quando la notte era nostra e tu eri mia”

(da troppo stanchi)

“sono magro fino all’osso amici nelle foto
la metà ti vuole morto l’altra ti vorrebbe fottere
mi compro casa nuova così la riempio di vuoto
però qui non siamo a scuola un problema non lo risolvo
sognavo troppo da piccolo
ora mi sveglio in un incubo
e in gola mi è rimasto un nodo
che nessuno scioglierà”
(da problemi)

Si risente, ovviamente, anche l’eco dell’esperienza sanremese, che irrompe in sottopressione (non mi avranno mai), brano dal titolo eloquente, mentre verso la fine, in triste vederti felice, c’è spazio anche per una confessione spesso censurata: l’incapacità di provare felicità nel vedere qualcuno a cui siamo – o siamo stati legati – che è riuscito ad andare avanti, cambiare orizzonti, prospettive, obiettivi, mentre noi ci sentiamo ancora al punto di partenza, gli stessi che eravamo prima, aggrappati ai ricordi di quelli che eravamo.

tutti i colori del buio è un disco fosco, dicevamo, depresso anche nel senso clinico del termine, ma è anche l’occasione per gettare uno sguardo approfondito sull’oscurità, per riuscire a scorgervi impercettibili sfumature. Ed è per questo che, in mezzo a questa nerissima tempesta, non si possono non cogliere i segnali di una promessa di serenità: “ma forse un giorno dalle lacrime farai crescere gli alberi dove tu salirai per stare bene / e forse un giorno senza pillole vedrai volare gli angeli e anche tu riuscirai a stare bene” canta ancora Sethu in i ragazzi perduti.

Perché, lo abbiamo detto fin dall’inizio, questo disco è anche la storia di una salvezza, quella portata dalla terapia e dal prendersi cura della salute mentale, tema sempre più attuale e su cui Sethu vuole gettare luce.

In fine, per concludere, una notazione di stile per nulla secondaria per il sottoscritto: se vi accingerete all’ascolto dell’album, non fatevi ingannare dal volto del vampiro della copertina, né tantomeno dall’estetica profondamente dark dell’artista, e neppure dalle primissime note d’organo in apertura.
Seppure questo è un album dall’umore nero, le sue atmosfere sonore poco hanno a che fare con l’immaginario gotico: qui a predominare è un’impronta molto meno lugubre e molto più “sporca”, che ha molta più familiarità con il punk, e addirittura con il breakbeat.

Anche questa, dopo tutto, è una notevole sfumatura di buio.

 

 

 

BITS-RECE: Michelangelo Vood, “Non c’è più tempo”. Nonostante tutto, sperare ancora

BITS-RECE: Michelangelo Vood, “Non c’è più tempo”. Nonostante tutto, sperare ancora

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Lasciate ogni speranza, o Voi che ascoltate. Perché in questo disco di speranza ce n’è davvero poca.

In compenso, c’è tanto, tantissimo cuore, e tanta, tantissima poesia. Questo è uno di quei dischi fatti prima di tutto di parole, di pensieri, di riflessioni, di confidenze, e solo dopo di musica e melodie.
E non perché la musica sia secondaria, ma perché qui più di tutto emerge un’urgenza di scrivere, di buttare fuori un mondo di paure, di ansie, di aspettative disattese, di promesse che qualcuno là fuori non ha mantenuto.

Non c’è più tempo, album d’esordio di Michelangelo Vood, è un bilancio di vita alla soglia dei 30 anni, un resoconto di pagine parecchio disilluse. Perché avere 30 anni oggi non è facile, e può fare paura. Anzi, ha sempre fatto paura, perché i 30 anni hanno sempre rappresentato una sorta di punto di non ritorno.

Ne L’ultimo bacio, pellicola diventata simbolo di una generazione, Gabriele Muccino aveva tratteggiato magnificamente la crisi dei trentenni: ma lì era diverso, molto diverso. Erano i primissimi anni ’00, e i trentenni di allora soffrivano soprattutto per la fine della loro “età dell’oro”, quella fatta di spensieratezza e di mancanza di grandi responsabilità.

Ma chi ai 30 anni ci arriva oggi si trova davanti uno scenario ben più complesso. Certo, ognuno vive la propria età e il proprio presente a modo suo, ma che avere 30 anni oggi sia una sorta di sciagura non è difficile crederlo, anche per chi – come il sottoscritto – ci è già passato da un po’.

Quello che Michelangelo Vood ha fatto nel suo primo album è stato mettere a fuoco il quadro della sua generazione e consegnarcelo con i tratti nitidi e sensibili della sua scrittura.

“Siamo nomadi, figli dei dollari, del Millennium Bug, di una madre in provincia sola”, canta in Millennium Bug, un brano-manifesto su cui domina una malinconia che fa stringere il cuore. E poi prosegue: “Chissà se è questo che volevo quel giorno di novembre solo dentro a un treno, che corre verso nord”.
In quanti questa domanda se la saranno fatti?

Lasciare la provincia, lasciare gli affetti, i genitori, raggiungere la metropoli, tenere accesi i sogni e i progetti, nonostante tutto. E poi veder finire un amore, sentirsi vulnerabili, ma avere la forza di riconoscerlo, e poi, inspiegabilmente, sentir nascere una forza che ti spinge avanti. Ancora, nonostante tutto. Istinto di sopravvivenza? Incoscienza? O forse un barlume di speranza?

C’è proprio così tanta vita raccolta nei brani di Non c’è più tempo. E Michelangelo Vood la racconta senza pudore. O meglio, con il pudore di chi sa dare peso alle parole, e riesce a volgere in poesia anche la notte più nera.

Non c’è più tempo è un album disarmante, sicuramente uno dei dischi più pessimisti che mi siano capitati tra le orecchie negli ultimi tempi. Pur nella sua infinta delicatezza, in certi momenti è un disco capace di aprirti buchi in fondo al cuore.

Ma è un disco che fa bene, perché ci ricorda che siamo umani. E quando intorno a noi vedremo solo macerie sarà probabilmente la nostra umanità a salvarci, a farci andare avanti ancora una volta, a farci pensare che forse di tempo ne è avanzato ancora un po’. Che non tutto è perduto.

E quindi forse non era vero quello che ho scritto all’inizio, che non c’è speranza. C’è e ci sarà sempre.
Ci sarà il tempo della paura, il tempo della delusione, il tempo dell’abbandono, il tempo dello smarrimento. E ci sarà il tempo per sperare ancora.
Ci sarà sempre tempo.

BITS-RECE: Anitta, “Funk Generation”. Corto, sporco e cattivo

BITS-RECE: Anitta, “Funk Generation”. Corto, sporco e cattivo

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una mancata di bit.

Lo dico tranquillamente: non avevo nessuna valida ragione per ascoltare questo disco. Conosco discretamente l’artista, non vado particolarmente matto per il suo genere e nessuno mi ha commissionato la recensione. Se l’ho ascoltato – e ora ne scrivo, visto che ci ho investito del tempo – è perché scorrendo la tracklist in Spotify sono rimasto colpito dalla durata media delle canzoni.

Più che album, Funk Generation di Anitta è una scatola di cartucce.

Una raffica di 15 proiettili veloci come schegge, sparati a perdifiato, in neanche 40 minuti.

Si fa giusto in tempo a prendere confidenza con quella carica di bollenti ritmi carioca che tutto è già finito.

Il sesto album della star brasiliana più famosa al mondo (in questi anni almeno) nasce come un tributo al funk delle favelas: “Funk Generation incarna ogni sfumatura di questo genere musicale 100% brasiliano che ha plasmato il mio percorso sia come persona sia come artista”, ha dichiarato Anitta. “Il funk è radicato nella cultura di coloro che vivono nelle favelas brasiliane, da cui provengo, e spesso è stato ingiustamente giudicato come privo di valore artistico, persino associato alla criminalità organizzata. Riflette il classismo e il razzismo presenti nella nostra società. Io faccio parte di una generazione che ha abbracciato il ritmo, è uscita dalle favelas e ha conquistato il Brasile”.

Uno scopo più che nobile insomma, non fosse che terminato l’ascolto dell’album si fa fatica a dire cosa ne resta in testa a parte il bada bum bada bum bada bum. Tutto risulta così frenetico e i pezzi sono così – diciamolo – “simili” tra loro che distinguerli uno dall’altro diventa il vero esercizio dell’ascoltatore. Tra l’altro, sono di una lunghezza imbarazzante, che raramente ho visto in altri album: su 15 tracce totali, solo una supera i 3 minuti, e ben tre restano addirittura sotto i 120 secondi. Per dire, ci sono artisti che inseriscono nei propri album degli “Interlude” più lunghi. Già faccio fatico a farmi andare bene le mini-canzoni da 2 min e un tot che vanno di moda ora, figuriamoci se vedo un timing di 1.23 min…

Più che un manifesto funk, questo lavoro è un mosaico in cui le singole tessere si mangiucchiano a vicenda, si confondono, si appiattiscono pur nel loro fragore.

Se l’intento era far sentire il calore delle notti lungo le strade di Rio, la missione è stata centrata, così come è indubbio che volenti o nolenti ci si ritrovi a ondeggiare le spalle spinti da un esercito di percussioni che non lascia scampo. Ma soprattutto, Funk Generation è un’intricata selva di folklore carioca sporchissima, sudaticcia, lussuriosa e lussureggiante di contaminazioni urban, hip-hop, elettroniche, che sono poi la vera anima dell’album.

A un certo punto, in Ahi, spunta fuori pure Sam Smith, che qui però non centra proprio nulla e, anzi, appare pure un tantino a disagio nonostante la svolta dirty degli ultimi anni.

Da segnalare la citazione di Lose My Breath delle Destiny’s Child nel brano di apertura, che non a caso si intitola Lose Ya Breath. Un tocco gustoso, va detto.

Per il resto, è un po’ tutto come in una sveltina: focoso, travolgente, senza vera passione. E una volta finito passi a fare qualcos’altro.

BITS-RECE: St. Vincent, “All Born Screaming”. Ovvero, come (non) perdersi nel bosco da soli

BITS-RECE: St. Vincent, “All Born Screaming”. Ovvero, come (non) perdersi nel bosco da soli

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una mancata di bit.

Ma quindi, chi è St. Vincent?

Arrivata al suo settimo album, quando pensavamo di averla inquadrata (per un quanto un artista che possa definirsi tale possa e voglia essere inquadrato), ecco che rilascia un disco che ci prende un po’ alla sprovvista. Sarà che lei è una che di fronte alla nuove sfide non si è mai tirata indietro, sarà che questo è il suo primi (!) album totalmente autoprodotto, ma insomma, quella che ritroviamo in queste nuove 10 tracce è una St. Vincent in un certo senso inedita.

Ci sono alcuni posti, dentro di noi, che possiamo raggiungere solo se attraversiamo il bosco da soli, per scoprire quello che il nostro cuore ha da dire”, ha dichiarato a proposito dell’album la Clark. “Suona reale perché è reale”.
E lei il bosco ha voluto proprio attraversarlo da sola, chiamando attorno a sé solo alcuni fidatissimi amici, tra cui – per fare solo due nomi – Dave Grohl, che suona le batterie nei due singoli Flea e Broken Man, Cate Le Bon, che ha coscritto Big Time Nothing e appare nella traccia di chiusura, che dà il titolo all’album.

Ovvero, All Born Screaming. E in questo titolo c’è esattamente il mood e il messaggio che Anne Erin Clark – il nome con cui la conoscono all’anagrafe – voleva lanciare.
Un album cupo, a tratti tranquillamente apocalittico, che non si premura di mettere l’ascoltare a particolare agio.
Nasciamo tutti urlando, quanto è vero, e stando alla narrazione del disco, questo sembrerebbe essere un (cattivo) presagio di quello che ci aspetta in questo mondo.

Ma quindi, com’è questo album?

Poderoso, muscolare, incendiario e piacevolmente variegato. Se l’alt-pop non è del tutto messo da parte – bellissima la traccia di apertura, Hell Is Near, che ha dispetto del titolo suona piuttosto angelica -, a colpire l’ascolto è soprattutto il graffio dell’industrial rock, che si scatena in particolare nella prima metà del disco (ma, per esempio, in Big Time Nothing fa capolino anche il funk). Più ibrida invece la seconda parte, dove l’elettronica e le divagazioni stilistiche guadagnano terreno e si tira un po’ di più il fiato.

Un po’ ovunque si respira un forte tributo pagato alla scena rock/alt-rock della seconda metà degli anni ’90. Personalmente, più le tracce andavano avanti durate l’ascolto più mi la mente mi riportava ai Garbage. Sarà per la sensualità del canto, che St. Vincent non perde mai, proprio come non la perde(va) Shirley Manson, sarà per i suoni, ma tant’è. Quando si arriva poi a Violent Times si fa davvero fatica a non fare un parallelismo con The World Is Not Enough, brano composto dai Garbage per la colonna sonora dell’omonimo film di 007 (correva l’anno 1999), di cui non manca nemmeno lo slancio orchestrale.

In Sweetest Fruit , traccia scintillante di chitarre ed elementi elettronici, c’è anche un tributo a SOPHIE, la producer scozzese tragicamente morta ad Atene nel 2021 per una caduta da un edificio, su cui era salita – pare – per osservare meglio la luna.

So Many Planets attacca con l’organo e farebbe pensare che sbuchi fuori qualcosa di gospel, invece spiazza virando sul reggae.

Infine, All Born Screaming si prende tutto il tempo necessario (6.55 minuti) per divagare in un coro. E così, l’album della “traversata nel bosco” in solitaria, chiude significativamente con un canto collettivo.

Ed è proprio qui, sul finale, che si nasconde l’ultima sorpresa architettata da St. Vincent. Come espressamente dichiarato dall’artista infatti, il lavoro dell’album è avvenuto per sottrazione, partendo da lunghe session di registrazione da cui è stato eliminato tutto il superfluo: in termini di arrangiamento ma, ovviamente, anche in termini di durata. Ecco che allora i 41:14 minuti totali non sono forse palindromi a caso, ma – e se davvero così fosse sarebbe un colpo di genio – sono l’indicazione che anche il disco può essere letto al contrario.
Se la tracklist ufficiale parte dalla solitudine per chiudere in corale e inizia con la minaccia di un imminente inferno per arrivare a cieli più sereni, la lettura “alla rovescia” tratteggerebbe un viaggio di gruppo che si fa solitario e una lenta discesa verso l’oscurità.

Ecco, quindi, chi è St. Vincent. Una che è sempre un gran piacere rincontrare. Che sia in un bosco o un nuovo album.