BITS-CHAT: "Giochiamo con la musica bambina". Quattro chiacchiere con… Lastanzadigreta

Sono torinesi e si fanno chiamare Lastanzadigreta, ma quello che propongono non può stare tutto rinchiuso in una stanza, ma necessita di un mondo. Anzi, di un universo, fatto prima di tutto di musica, e poi di idee e di regole che si rompono e si ricompongono in modo nuovo, prendendo tutto come un grande, impegnatissimo gioco.
Pur essendo musicisti professionisti, tra di loro non c’è nessun basso, nessuna batteria, nessun ruolo fisso, e quello che sono abituati a portarsi sul palco durante i concerti è molto diverso dalla strumentazione canonica di una band. Sarà anche per questo che come titolo del loro primo album – arrivato dopo due EP e uscito per la Sciopero Records degli Yo Yo Mundi – hanno scelto Creature selvagge, perché così sono le loro canzoni, e forse così sono loro stessi. Inutile dire che cercare di definire quello che fanno è quasi impossibile: una musica che definiscono “bambina e democratica”, un “pop di metallo e legno massello”, libero da vincoli, che il gruppo si propone di trasmettere all’esterno con un l’interessante progetto JAM di didattica musicale alternativa.

Entrare anche per solo qualche momento nel mondo dei “Greta” è un’esperienza entusiasmante, che abbiamo provato a fare sotto la guida di Leonardo Laviano, voce della band.
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Prima di tutto, una domanda forse banale, ma la curiosità c’è: perché questo nome?
Parto col dire che è scritto volutamente tutto attaccato. Greta è una ragazza realmente esistita, anche se oggi non è più tra noi, ed è stata la causa che nel 2009 ha fatto riunire cinque musicisti: raccogliere dei fondi per permetterle di curarsi. È stata un’esperienza formativa, oltre che bella, che ci ha spinto ad andare avanti, a “fare cose” insieme, come si dice, fino ad arrivare a questo disco. Il riferimento alla stanza invece è legato ai nostri strumenti, che spesso non sono tali: ci piace immaginare una serie di oggetti di vario tipo custoditi o abbandonati in una stanza che qualcuno recupera per farli rivivere.

È stato difficile concretizzare tutti insieme il concetto di musica bambina e democratica?
Questa concezione di musica ha già in sé due grandi problemi, quello di essere bambina, e cioè diretta, senza fronzoli, e quello di essere democratica, un elemento oggi più che mai difficile da realizzare, perché per definizione la democrazia è la mediazione di teste diverse in un unico ipercervello. Due concetti che ancora oggi sono per noi frutto di fatica, perché arriviamo da storie diverse: io per esempio sono legato al rock inglese degli anni ’80, i Dire Straits, la produzione più impegnata dei Depeche Mode, ma c’è anche chi è legato ai cantautori italiani come De André, o chi è legato alla world music, e vorrebbe quindi portare il didgeridoo nel pop, ci sono i cultori del noise del Nord Europa, del blues americano, del prog. Ecco, prova a pensare a tutto questo in un unico frullatore. Il disco è frutto della coagulazione di questi elementi: siamo riusciti a fare una sintesi che ancora oggi ci suona bene.
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Mi spieghi anche la definizione di “pop di metallo e legno massello”?
Ci piace giocare con le parole e i concetti, un po’ di giocoleria non fa mai male. In questo caso, il metallo e il legno massello sono gli elementi più presenti nei nostri live : sul palco portiamo di tutto, dal chitarrino portoghese alla Weissenborn, chitarre giocattolo, la Diavoletto Gibson, chitarre con le corde di nilon senza cassa, la marimba, usata dai Tears For Fears negli anni ’80 ma poi pochissimo perché piuttosto ingombrante, il piano Rhodes Fender, un organetto a vento degli anni ’60, una drum macchine della Farfisa trovata in un mercato delle pulci a 3 euro e che abbiamo poi scoperto essere quella su cui sono stati costruiti i dischi dei Kraftwerk. Poi abbiamo un bidone dell’immondizia, delle scatole di latta, il didgeridoo. Insomma, c’è ben poca plastica, ma tanto legno e tanto metallo. Sono tutti strumenti che risentono del freddo e del caldo, suonarli non è sempre facilissimo, anche perché abbiamo un tur nover molto spiccato, per cui l’approccio verso gli strumenti è spesso prudente. Siamo tutti musicisti esperti, ma ognuno nel suo, e forse si deve anche a questo la mancanza di virtuosismi nelle nostre canzoni.

Anche la copertina sembra nascondere tanti elementi diversi.
È un po’ come le canzoni dell’album, con un significato profondo che ci ha messo chi l’ha creata, ma è bello che tutti ci possano vedere qualcosa di diverso, di personale. Il disegno è di Cinzia Ghigliano, una bravissima illustratrice, che ha centrato esattamente il punto: tutto è sfuggente, non si capisce se la figura è una femmina o un maschio, non si capisce che ruolo hanno i libri o perché spunti dalla testa di quella figura un uovo, sotto c’è un pesce, un uomo con la barba che ricorda il Pitagora di 4-4-2. Cinzia ha realizzato anche le copertine dei precedenti due EP e l’unica regola che le abbiamo sempre dato è stata quella di ascoltare le canzoni e disegnare quello che sentiva.
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Tra i brani, Erri pare avere un titolo eloquente: che rapporto avete con De Luca?
Beh sì, il titolo è piuttosto esplicito ed è uno dei nostri piccoli vanti. Non posso dire che abbiamo fatto un bel disco, perché tocca agli altri, ma posso dire che abbiamo fatto un disco che ci piace, anche grazie a chi ci ha supportato, come il nostro fonico, Dario Mecca Aleina, a tutti gli effetti il sesto componente del gruppo, e all’etichetta degli Yo Yo Mundi, la Sciopero, che per la prima volta ha accolto al suo interno un disco diverso da quelli della band. L’altro elemento di cui andiamo orgogliosi è il benestare di Erri De Luca: questo brano, che è parte di un suo componimento, inizialmente era stato pensato per essere recitato da un’attrice, e poi l’abbiamo trasformato in un pezzo più classico. Abbiamo poi scritto all’autore per chiedergli il permesso di utilizzarlo: la risposta è arrivata velocissima e in perfetto stile De Luca, “Il brano è molto gradevole, fate del mio pezzo quello che vi pare”, e così è stato anche per le regolamentazioni della SIAE.

In Amore e Psiche citate invece Danilo Dolci, sociologo e attivista della nonviolenza. 
Insieme a Erri, questo è l’altro brano di cui non siamo noi gli autori. Ci è arrivato come un dono che non aspettavamo da Paolo Archetti Maestri degli Yo Yo Mundi.Lui ha scritto per i grandi della musica italiana e pensando a noi ha scritto questo pezzo meraviglioso: non è una storia, ma sono delle immagini. Danilo Dolci è colui che dà nome a un sogno. Si parla poi di atomi, di pittori, di tram, di passato. È un pezzo a stella, mi piace vederlo così, con l’ascoltatore al centro. Pur essendo uno dei più lunghi dell’album, mi è entrato subito in testa ed è uno dei pochi di cui fin dall’inizio non ho avuto bisogno di leggere le parole durante i concerti, segno che Paolo ha scritto un testo molto efficace senza usare rime e ritornelli banali.

Oltre alla musica siete impegnati anche con l’associazione altreArti nel progetto JAM, con il quale proponete una didattica musicale diversa. Che tipo di riscontri avete ricevuto?
Il gruppo si è costituito come associazione altreArti nel 2009: il progetto JAM è stato portato avanti da alcuni membri della band che sono anche insegnanti, ma tutti diamo comunque un contributo. L’impatto sul territorio è stato molto forte e noi siamo a dir poco euforici. La nostra scuola prevede ore extracurricolari nelle sue tre sedi e laboratori didattici all’interno delle altre scuole, e credo che il successo dipenda da più fattori. Prima di tutto, cerchiamo di mettere la teoria al servizio della pratica: non partiamo insegnando il solfeggio o la distinzione tra toni e semitoni, ma partiamo insegnando il ritmo di un pezzo o la posizione di un accordo. Sarà poi in un secondo momento che il bambino scoprirà di aver suonato una croma o di aver fatto un MI. L’altro fattore, forse più importante, è l’impegno nell’utilizzare oggetti di vario tipo come strumenti: non si va subito alla ricerca della chitarra e della batteria da mille euro, ma si usa una pentola, una bottiglia vuota o un vecchio giocattolo, proprio come facciamo noi sul palco. E nei laboratori invitiamo i bambini a costruirsi nuovi strumenti e portare degli oggetti per capire come possono essere utilizzati.

Vi aspettavate una risposta così positiva?
Forse è brutto da dire, però sì. I miei figli sono già grandicelli e nelle loro scuole vedo che è difficile trovare degli insegnanti che sappiano trasmettere degli stimoli e far muovere il cervello, per quanto mi rendo conto che la vita degli insegnanti non è semplice. Le scuole musicali ci sono, ma sono tutte di impostazione tradizionale. Volevamo far fare cortocircuito a questo sistema, in cui si richiedono spese molto alte per l’acquisto degli strumenti e si buttano via oggetti ancora funzionanti.
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Quale pensi sia oggi il più grande compito della musica?
Prima di tutto, ho imparato sulla mia pelle che non esistono gli ambiti, ma esiste solo la vita. Dieci anni fa avevo un lavoro di responsabilità in uno studio grafico, guadagnavo molti soldi e andavo avanti a cortisone per la dermatite da stress, le passioni le tenevo in un cassetto. A un certo punto mi sono guardato allo specchio e ho capito che non potevo continuare in quel modo, per me e per i miei figli, così mi sono ridisegnato una vita: oggi faccio quello che mi piace, per lavoro mi occupo di comunicazione e fotografia, guadagno molto meno e fatico molto di più, ritagliandomi i giorni liberi per andare in tour con la band. Quello che vogliamo dire con la musica è di liberarsi dalla morale, vogliamo proporre alternative nei suoni così come nei messaggi, con un’attenzione all’ambiente. Sarebbe bello se chi ha il privilegio di fare politica provasse a ridisegnare un mondo libero dalla rabbia, perché il livore frena ogni cosa. Nei nostri brani non urliamo contro nessuno, semmai contro noi stessi, come in Deserto.

Perché pensi che le radio non passino musica come la vostra?
Non so, ci sentiamo sempre dire che le nostre canzoni sono belle ma non radiofoniche. Oggi con il web le radio sono tantissime, ma la gamma di brani che girano è molto ristretta. Quando era piccolo mi piaceva costruire casse acustiche e ho preso un po’ di confidenza con ciò che riguarda le onde sonore: se si provano a misurare con l’oscilloscopio le fasce d’onda dei brani in classifica si vede come siano tutti molto simili. Il nostro orecchio si è abituato a quei parametri e se dovesse passare in radio qualcosa di diverso si potrebbe pensare che la radio non funzioni. Nel mondo discografico c’è fame di guadagno e di creatività, come è giusto che sia, ma se non si amplia la gamma delle tendenze non cambierà nulla. Io posso solo allargare le braccia sconsolato.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
È un concetto molto complicato, che varia nelle diverse fasi della vita. A vent’anni ribellarsi vuol dire fare tabula rasa e ricostruire tutto, e ci sta; a quarant’anni invece bisognerebbe pensare più a lungo termine e prendere in prestito la furbizia e il sincretismo dei cristiani, che duemila anni fa non hanno eliminato le regioni preesistenti, ma le hanno portate dalla loro parte. In termini pratici, ribellarsi alle dittature e alla mancanza di diritti vuol dire entrare dentro il sistema in punta di piedi come ospiti e iniziare a sostituire mattoncino dopo mattoncino. La ribellione che funziona non si fa in cinque minuti e nemmeno in cinque generazioni, e non si fa uccidendo, ma convincendo. Un pezzo alla volta.