“Vivo stabilmente a San Fili, che è un piccolo paesino in provincia di Cosenza. Lontano dalle città, lontano dal giro degli artisti, lontano “dall’ambiente”. Il mio manager ha provato a rivendersi la cosa come scelta radical chic sulla riscoperta dei valori della provincia contadina. Fesserie. È vero, sì, che sto in collina, che dalla mia finestra posso ammirare un panorama strepitoso, che non ho problemi di parcheggio e ansie metropolitane, ma di certo non faccio l’orto, non gioco a carte con i vecchietti del paese, non produco vino e non faccio lunghe passeggiate fra gli alberi di castagno. Semplicemente sto a casa e ci sto bene.Tolti i soggiorni a Milano e i giretti che faccio per mestiere, meno una vita normale e anche un po’ noiosa. Monto le mensole a casa di mia madre, cullo i miei nipoti, controllo i social, mi drogo di Netflix, passo nottate a giocare a Risiko. Cose così. C’è di buono, in questa quiete domestica, che ho tanto tempo per riflettere e cercare le risposte. C’è di male che spesso guardo il mondo da dietro una finestra. Una vita poco vissuta, più che altro una vita pensata. La casa di cui parlo, ovviamente, non è solo quella in cui vivo. La casa di cui parlo è la mia comfort zone, il mondo che conosco e in cui mi riconosco. La casa di cui parlo è tutto ciò che mi fa star bene perché non mi mette in discussione. La casa di cui parlo è quella che mi tiene al riparo da quel che accade fuori”.
È lo stesso Brunori a descrivere così l’idea da cui è nato il suo quarto album, A casa tutto bene. Un disco metaforicamente nato nella tratta Lamezia-Milano, quella percorsa dal cantautore per raggiungere i due poli della sua vita: Lamezia da una parte, ovvero le origini, la famiglia, la “casa”, e Milano dall’altra, ovvero la metropoli, il lavoro.
Pur con una scrittura sempre brillante, questa volta Dario Brunori ha un po’ meno voglia di ridere, un po’ meno voglia di adagiarsi sulla ballata sentimentale o di usare l’ironia per smorzare il malessere: l’uomo sta andando incontro all’imbarbarimento, è circondato da ansie, paure che lo tormentano alimentate dai fantasmi del razzismo, dell’omofobia, della violenza, e di fronte a questa società in gran disfacimento questa volta l’artista ha optato per un linguaggio diretto, amaro se necessario.
Sono gli anni dell’immigrazione, dell’“uomo nero” che semina terrore sull’autobus solo per aver aperto un Corano ed essersi messo a pregare ad alta voce, anni in cui al pregiudizio basta davvero poco per venire a galla nella fila in posta, su un taxi, al tavolo di un bar sui Navigli. Non è quindi un caso che nell’album ci sia un brano come Uomo nero, forse il più politico composto finora da Brunori, così come trova una perfetta collocazione Canzone contro la paura.
Ma l’acuta analisi non si ferma qua: anzi, il vero fulcro dell’album sta nella doppia polarità di cui parlava sopra il cantautore, ovvero Lamezia-Milano, casa-lavoro, camera-mondo. Non vi è tanto un interesse nel puntare il dito sul'”altro”, sul mostro intorno a noi, quanto piuttosto nel trovare il mostro che proprio in noi si annida, l’individuo incivile che accusiamo nel prossimo, ma che talvolta diventiamo noi stessi. Ecco allora l’errore, spesso inconsapevole, di chi guarda il mondo dalla finestrella del proprio cantuccio, filtrato dall’agio, dalla famiglia, da tutto ciò che, insomma, chiamiamo casa.
Una visione inevitabilmente parziale, limitante, addirittura distorta, dettata da una pigrizia di cui lo stesso Brunori sa di essere (stato?) affetto, e che fa diventare complice di una “maggioranza silente” che vede l’orrore e la rovina ma non fa poi molto per fermarli. Brunori lo racconta in Sabato bestiale, Don Abbondio.
Tutto sembra comunque trovare soluzione in Secondo me, canzone che fa emergere la parte moderata, la capacità di accettare il peggio, di “scorgere nell’uomo sia ciò che lo rende misero, che ciò che lo rende divino”.
Impossibile in tutto ciò non cogliere anche le profonde impronte “degregoriane” nell’uso delle parole, delle melodie, e più in generale nell’attitudine: ed è forse proprio qui che si scopre il tallone d’Achille di questo disco, il suo indulgere un po’ troppo a certi modelli, mostrando legami un po’ troppo forti.
Musicalmente, per questo nuovo capitolo, il suono di Brunori SAS si è fatto tridimensionale, molto più stratificato del passato, ed è stato affidato alle mani di Taketo Gohara: si fondono i ritmi della Calabria e i sintetizzatori, i computer usati “in modo creativo”, la mandole del ‘700 con i loop e le drum machine. Anche l’approccio compositivo è stato diverso, con un lavoro svolto su ogni musicista singolarmente, che ha permesso all’album di avere più che mai un impianto “da band”.
No comment yet, add your voice below!