BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Manson
C’è stato un tempo in cui il nome di Marilyn Manson metteva paura solo a pronunciarlo, perché dietro c’era un artista considerato l’incarnazione musicale del demonio, il più maledetto tra la star maledette, l’Anticristo da esorcizzare, la causa del male sociale che colpiva la gioventù d’America e non solo (praticamente in tutte le stragi avvenute in qualche campus universitario o college, si scopriva che tra gli ascolti abituali dei pazzi responsabili c’era Manson, soprattutto Manson).
Erano gli anni ’90, il periodo in cui la stella nera del personaggio creato da Brian Warner era appena sorta a imbrattare di pece la coscienza dell’America bigotta, puritana e anche un po’ ipocrita. Manson metteva paura – oltre che per un’immagine decisamente poco rassicurante – perché arrivava a scuotere i sogni dorati di un popolo, urlava in faccia ai benpensanti, e nel farlo usava l’arma sempre affilatissima della provocazione, giocando astutamente con la religione e il sesso, in una collisione perfetta tra i due volti complementari dell’America, Marilyn Monroe e Charles Manson. C’era chi capiva il senso del messaggio e della sua maschera, e c’era chi ci cascava in pieno.
Marilyn-Manson-2017-Approved
Poi gli anni sono passati e dopo i fasti funesti della trilogia di Antichrist Superstar, Mechanical Animals e Holy Wood e The Golden Age Of Grotesque anche la macchina diabolica di Manson ha iniziato a mostrare le prime falle, avvitandosi su se stessa e riducendosi piano piano a un sempre più patetico baraccone di croci propinate in ogni salsa, mascheroni di cerone, litri di mascara nero e niente più. Sì, qualche episodio degno di memoria c’è stato, ma sembrava frutto di fortuna.
Manson era diventato l’ombra di se stesso, fagocitato da un personaggio da cui non riusciva e non poteva più uscire: quel che c’era da dire era stato detto, restava spazio solo per urlare qualche maledizione, sperando che qualcuno si spaventasse ancora.
Manson aveva perso l’elemento fondamentale per far funzionare qualsiasi progetto artistico, soprattutto se provocatorio come il suo: l’ispirazione.
Poi, dopo qualche disco un po’ così, nel 2015 è arrivato The Pale Emperor, che ha riacceso le speranze di ritrovare un artista che si pensava ormai destinato al tramonto.
A quell’album segue ora Heaven Upside Down, e un fatto pare certo: per come stanno le cose oggi, a salvare la carriera di Manson non saranno certo i contenuti delle sue canzoni. Quelli sono fermi a una decina di anni fa, come la sua immagine tenebrosa (e inevitabilmente modificata dal passare del tempo). Se qualcosa può ancora tenerlo artisticamente in piedi e renderlo minimamente appetibile è la musica, i ritorni al passato che Manson è riuscito a inserire nel nuovo lavoro. Sarà anche abbastanza terribile e desolante, ma è così.
Ascoltate l’ultimo album e provate a farvi turbare dalle parole che lo riempiono, provate a non sbuffare davanti all’ennesimo pseudo-inno diabolico, davanti all’ennesimo abuso dei vari Jesus, God, Devil e repertorio vario. Le provocazioni corrono a vuoto, le idee succulente paiono defunte. La Bibbia nera di Manson si è svuotata di salmodie profetiche.

Invece, ciò che potrebbe trattenervi dallo “skippare” le tracce sono le soluzioni musicali, tra hard rock, industrial, una certa dose di elettronica arroventata e distorta come in Say10, Kill4Me o la ballatona dark Blood Honey.
C’è stato un tempo in cui Marilyn Manson metteva paura. Oggi Marilyn Manson assomiglia un po’ di più al suo fantasma e fa ancora musica, abbastanza bene. Le provocazioni e i colpi di genio però erano un’altra cosa.

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