BITS-RECE: GIMA “JOMO”. Una stanza (per ballare) tutta per sé

BITS-RECE: GIMA “JOMO”. Una stanza (per ballare) tutta per sé

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

“I keep dancing on my own” cantava – ormai un po’ di anni fa – Robyn, in quello che è diventato una vero e proprio manifesto alla solitudine da dancefloor. Ma certo Robyn non è stata la prima né l’ultima a contribuire alla narrazione della pista da ballo come luogo intimi, introspettivo, talvolta addirittura spazio per riversare le proprie lacrime.

Perché lo sappiamo bene, anche quando siamo immersi nella folla, anche quando ci troviamo in un luogo gremito, anche quando l’aria l’aria investita dei bpm lanciato dal DJ in console, capita di sentirsi soli, estraniati da tutta la vita che ci si muove attorno. A volte è una situazione che provoca disagio, a volte è davvero un’esigenza.
Desiderare sparire, godere di quel momento solo per noi, respirarlo fino all’ultimo palpito di sudore provocato da un ballo che è molto di più di una semplice occasione di evasione, ma diventa un’esigenza di sopravvivenza.

Ed è un po’ questo il messaggio che emerge dalle cinque tracce di JOMO, il primo EP di GIMA, uno dei nomi emergenti più promettenti della scena club italiana. Che il producer fosse promotore di questa filosofia lo si era già capito dai brani che hanno anticipato la release (Come si fa?, Bugatti), e ancora prima nel singolo Tempesta.
Usare l’elettronica per ritagliarsi uno spazio tutto per sé, non assecondare la corrente, ma risalirla per creare una narrazione personale.

Il titolo è l’acronimo di “joy of missing out” (la gioia dell’essere tagliati fuori), chiaro contraltare della FOMO, di cui oggi siamo troppo spesso schiavi, ovvero la paura di restare tagliati fuori, di non essere abbastanza connessi con l’esterno, di perderci l’essenziale.

Sotto ai suoi potenti muri di bpm, il producer avellinese costruisce un racconto diverso, all’insegna della volontà di stare al passo seguendo però sentieri meno frequentati: “Avevo bisogno di scappare dalla frenesia di Milano, la città in cui vivo da un po’ di tempo, per scrivere un EP che raccogliesse quel senso di smania urbana ma la rendesse intima”, racconta GIMA. “L’artwork e la creatività raccontano questo. Mi sono concentrato sulla mia assenza, sulla mia JOMO, lasciando che l’artista che c’è in me si rifugiasse nell’unico luogo – seppur metaforico – in cui sono davvero presente: la musica”.

E allora balliamo, selvaggiamente, forsennatamente, seguendo però solo il ritmo della nostra essenza.

BITS-RECE: Tamino, “Every Dawn’s a Mountain”. Dolcissimo, come la malinconia

BITS-RECE: Tamino, “Every Dawn’s a Mountain”. Dolcissimo, come la malinconia

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Qual è il confine tra la poesia e la canzone?
Cos’è quell’elemento che permette di dare agli infiniti orizzonti della parola poetica un’inedita tridimensionalità? Il segreto sta forse in una successione di accordi, o in una voce capace di strappare la mente dalla realtà e trasportarla in un universo parallelo.
Dall’alba dei tempi, musica e poesia sono due mitologiche sorelle che sono sempre andate molto d’accordo, ma nonostante tutto si resta ancora esterrefatti quando si vede cosa sono capaci di fare insieme. Quando, cioè, si realizza quella delicatissima congiunzione astrale che eleva al quadro la loro forza.

Ascoltare la musica di Tamino è un buon modo per rendersene conto. Con lui ogni volta è come se prendesse forma una magia, un incantesimo dolcissimo che solo quell’unione di musica e parole possono realizzare, ed è così fin dal meraviglioso esordio di Amir, che ci ha fatto conoscere la malinconia cantata da questo ragazzo belga (e di padre egiziano) dalla voce dorata.

Giunto ora al terzo album, Tamino mantiene quella che all’inizio poteva essere solo una promessa: è cresciuto, tanto, si è preso il suo spazio, ha arricchito il suo mondo imaginifico con spunti cantautorali che si sono innestati perfettamente nelle sue suggestioni esotiche, mai venute meno. Qui, per esempio, oltre alle densissime melodie fuori dal tempo, roventi come i tramonti mediorientali, c’è il suono dell’oud, tipico strumento di quelle terre, mentre le composizioni richiamano il cantautorato folk e indie (impossibile non cogliere in filigrana le influenze di Jeff Buckely, o di Thom Yorke, giusto per fare un nome).

Every Dawn’s a Mountain – questo il titolo del nuovo lavoro – è un disco incentrato sul distacco e sulla perdite, ma non è un disco senza speranza: anzi, come l’artista ha dichiarato a Rolling Stone, il titolo (“Ogni alba ha una montagna”, ma anche “Ogni alba è una montagna”) vuole proprio fare riferimento al fatto che ogni giorno offre una nuova sfida e una nuova opportunità.
A raccontarlo è anche un brano struggente come Willow, che parte dall’immagine del salice piangente per spiegare come a volte sia necessario morire per “vedere il sole”.

Più legate al tema del distacco e dell’alienazione sono invece Babylon, uno dei pilastri dell’album, e Dissolve: la moderna Babilonia a cui allude il titolo della prima è New York, città in cui Tamino si è trasferito e in cui ha potuto godere del privilegio dell’essere un anonimo cittadino immerso in quella giungla urbana. E poi c’è Sanctuary, in cui la voce del nostro si rincorre con quella dell’americana Mitski, unica presenza esterna nell’album.

I reside in the ruins
of the sanctuary
where a man praised a woman
and she loved him holy
it shakes me

Every Dawn’s a Mountain è album che avanza lento, cade morbido e denso come una goccia di miele, si prende tutto il tempo per spalancare il proprio orizzonte malinconico e dolcissimo.
Emana la sua luce intensa e vivida, fatta di parole e di suoni provenienti da un mondo bellissimo. Che sta proprio lì, dietro alla montagna.

BITS-RECE: La Niña, “Furèsta”. Anima universale

BITS-RECE: La Niña, “Furèsta”. Anima universale

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Sulla copertina del suo secondo album, il volto di La Niña, dipinto sulla superficie di un tamburello, osserva l’ascoltatore con aria severa, e in quello sguardo convivono antichità e tragedia, radici e fierezza. Proprio come le 10 canzoni che compongono Furèsta, il secondo lavoro di Carola Moccia, vero nome dell’artista partenopea.

“Furèsta” non semplicemente a richiamare uno spazio verde abitato dagli alberi, ma un’entità selvaggia, poco incline alle regole domestiche, che in comune con gli alberi ha profonde radici affondate nella propria terra, pur slanciandosi verso l’alto, alla scoperta di qualcosa lontano.

Furèsta è esattamente questo, un disco imbevuto della storia e dell’orgoglio di Napoli, della sua eredità sonora, della sua anima popolare e indomita, arcaica e persino sacrale, ma che non perde il contatto con il presente. Un disco pieno di rabbia e di amore, di tradizione e contaminazione (accanto a mandolino e tamburello spuntano qua e là anche il suono del clavicembalo e le cadenze dell’urban), un disco che più di tutto fa pensare a un messaggio di accoglienza, perché La Niña sembra voler dare voce a tutti. E che si tratti di un progetto di stampo corale è proprio nella dichiarazione di intenti dell’artista.

Se l’immensa eredità della musica di Napoli è la solida base su cui tutto poggia, ogni singolo brano racconta una storia a sé e il disco si allarga in un abbraccio cosmopolita: si va così da O ballo d’ ‘e ‘mpennate, tutto costruito sul suono degli zoccoli dei cavalli, ad Ahi!, che pesca invece dal bolero e da certe sonorità latine; Tremm’ prende spunto dall’atavico fenomeno del bradisismo di Pozzuoli per parlare del tremendo e pacifico senso di impotenza che si prova davanti alla forza della Natura, scatenando un baccanale di percussioni, accompagnato dalla voce di KUKII, artista egiziano-iraniana. Si spinge ancora più lontano nello spazio Sanghe, brano di aura ancestrale, quasi liturgica, incentrato sul tema tremendo della guerra e che mescola napoletano e arabo grazie alla presenza di Abdullah Miniawy.

Con il suo ritmo incalzante, quasi da marcia militare, Figlia d’a tempesta è un autentico e amaro manifesto di denuncia della condizione femminile.

A chiudere è Pica pica, uno dei momenti più interessanti: se da una parte il titolo fa riferimento al nome scientifico della gazza ladra (di cui si sente il suono), dall’altra l’espressione partenopea “pica pica” è usata per indicare la tigna di chi non demorde nel perseguire la propria strada. Musicalmente, a emergere in trasparenza sono sonorità medievali, ancora una volta in un gioco di rimandi tra passato e presente.

Nonostante sia un lavoro ricchissimo di influenze e stratificato, Furèsta è un album che si fa capire subito, perché parla un linguaggio universale, pop(olare) nel vero senso della parola.
La Niña canta per tutti.

BITS-RECE: Keyra, “Femmena”. Orgoglio urban made in Campania

BITS-RECE: Keyra, “Femmena”. Orgoglio urban made in Campania

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit

Questo è quello che definirei un esordio promettente, e fossi in voi mi segnerei il nome di Keyra perché è facile che ne risentirete parlare.

Classe ’98, nata a Salerno, all’anagrafe Annapaola Giannattasio, arriva alla pubblicazione del suo primo EP dopo aver pubblicato una manciata di singoli con cui ha definito il proprio stile: un urban verace ambientato per le strade della sua città, con testi che rispecchiano i sogni e gli sfoghi di chi sta vivendo i proprio anni Venti.

Il titolo dell’EP – Femmena – è già una dichiarazione di orgoglio e di personalità, mentre le sei tracce che lo compongono raccontano il mondo agrodolce di una ragazza alle prese con relazioni sbagliate, rimorsi, storie da riparare, desiderio di dichiarare l’amore per sé stessa e volontà di affermare la propria indipendenza come donna. Anzi, come un femmena.

A prendersi maggiormente l’attenzione sono Femmena, personale rilettura del celeberrimo brano di Totò, Piccirè (“Non sono più una bambina, ma una donna. Il messaggio è: lasciami, lasciami cadere, che tanto mi so rialzare da sola”) e Tabi (“è il mio inno da Amazzone degli anni Venti”).

C’è parecchio potenziale inespresso, e questo mi fa sperare che Keyra ci darà belle soddisfazioni. Diamole il tempo.

BITS-RECE: ETHAN, “METAMORFOSI (VOL.1)”. Queerness dionisiaca

BITS-RECE: ETHAN, “METAMORFOSI (VOL.1)”. Queerness dionisiaca

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit

Nell’antica Grecia, Dioniso era il dio dell’eccesso, il dio dell’ebbrezza, della follia, della possessione, dell’estasi mistica. Il suo corteo orgiastico, popolato da satiri caprini e baccanti invasate, era portatore di disordine e inquietudine nel mondo civilizzato delle poleis. Dioniso il dio legato all’aspetto selvaggio e ferino dell’uomo, era il dio dell’istinto animale, opposto al più rassicurante equilibrio apollineo.

Per questo Dioniso era guardato con timore e sospetto, perché la sua presenza richiamava tutto ciò che non si poteva governare, che usciva dalle regole, che si allontanava dalla norma, ma anche tutto ciò che arrivava da lontana, soprattutto dalle misteriose e malviste terre orientali.

Se oggi prendesse vita un moderno corteo dionisiaco, molto probabilmente si muoverebbe al suono ipnotico di un’elettronica acida e contaminata di suggestioni esotiche, naturalmente all’insegna della queerness

Tutti elementi che ritornano nelle sonorità e nell’estetica di METAMORFOSI (VOL. 1), il nuovo EP dell’italo-brasiliano ETHAN.

Cinque tracce che fanno incontrare il mondo del clubbing con l’r’n’b, il baile funk di matrice carioca, fino a catturare echi mediorientali. Un manifesto queer sensuale, fluido ed eterogeneo, frutto di un percorso di ricerca e sperimentazione dell’artista, che va alla riscoperta delle proprie origine anche nella lingua, alternando liriche in italiano e in portoghese.

METAMORFOSI (VOL. 1) è la risposta a un mondo che spesso ci vuole statici, omogenei, omologati: una danza tra il passato e il futuro, un viaggio che fonde la sperimentazione elettronica con il pop più tangibile. Ogni traccia è un esperimento, un dialogo tra quello che siamo e quello che potremmo diventare. Non siamo più vincolati a una forma predefinita, ma liberi di fluttuare tra suoni, emozioni e idee, pur mantenendo intatto il nostro nucleo”, dichiara ETHAN.

Un diretto rimando al mondo classico è quello del titolo, metamorfosi, termine che allude alla trasformazione e al cambiamento: “In ogni cambiamento c’è una liberazione e la musica è la nostra via per farla emergere. La metamorfosi è il cammino verso una versione più autentica di noi stessi, un flusso che non segue regole, ma che crea nuove possibilità. È il coraggio di spingersi oltre, di esplorare l’inconosciuto e di rinascere”.

Esotiche ed eterogenee anche lo collaborazioni: il cantante carioca MC GW, il produttore multiplatino brasiliano DJ 2F e la performer italo-persiana NAVA.

BITS-RECE: Lady Gaga, “Harlequin”. Elogio della follia

BITS-RECE: Lady Gaga, “Harlequin”. Elogio della follia

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.

Partiamo da un presupposto: se Lady Gaga non fosse stata coinvolta in Joker-Folie à Deux, molto probabilmente questo disco non avrebbe mai visto la luce.
Annunciato praticamente a sorpresa con solo qualche giorno di anticipo sull’uscita, Harlequin è da subito stato presentato dalla stessa Gaga come un “album di accompagnamento” all’arrivo nelle sale del film che la vede protagonista insieme a Joaquin Phoenix, pellicola in cui a lei spetta vestire i panni di Harley Quinn.

E che si tratti di un progetto speciale, e non di un vero e proprio capitolo della discografia di Mother Monster, ce lo dice anche il fatto che per indicare questo album è stata utilizzata la sigla “LG6.5”, in riferimento al fatto che il vero nuovo, attesissimo progetto, per ora noto solo come “LG7”, arriverà più avanti.

Sintetizzando, potremmo affermare che Harlequin è una sorta di capriccio che Gaga ha voluto togliersi, forte di una vena creativa che mai come in questo periodo sembra inesauribile. Un vezzo artistico, che ci ricorda che lei può permettersi di spaziare dalle hit da classifica agli standard jazz con una naturalezza e una disinvoltura eccezionali.
E infatti, con il pretesto di questo nuovo lavoro, Gaga ha potuto rituffarsi per la terza volta nel mondo del jazz, dopo i due album pubblicati insieme a Tony Bennett, e dopo aver concluso da pochi mesi la residency a Las Vegas con le serie di concerti “Jazz & Piano”.
Insomma, se il pop è il genere che ha dato a Gaga la grande notorietà, il jazz sembra essere la sua vera comfort zone, il rifugio sicuro in cui tornare.

Con l’obiettivo di esplorare fino in fondo l’anima di Harley Quinn, portandone in evidenza più sfumature possibili, con Harlequin – titolo che gioca tra il nome del personaggio e quello della celebre maschera bergamasca –  Lady Gaga riprende alcuni grandi classici del repertorio jazz e soul come Good Morning, Oh, When the SaintsWorld on a String, That’s Entertainment, Smile, That’s Life, e la sensazione è che mai come in questo caso lo faccia in piena libertà, scegliendo le chiavi di lettura e le intenzioni senza timore di andare fuori strada o di allontanarsi troppo da quello che il pubblico potrebbe aspettarsi o gradire.

Celandosi dietro alla maschera folle e ai panni di Harley Quinn, Stefani Germanotta ci costringe a legittimare ogni sua scelta e brano dopo brano ci svela un’anima complessa, in cui ogni sentimento è come uno scampolo di un diverso colore.
Qui la questione non è se una traccia sia più bella o più riuscita dell’altra, o se ogni pezzo fosse davvero necessario all’interno del disco. Piuttosto, quello che Gaga-Quinn sembra volerci chiedere è se le canzoni che canta ci stanno davvero raccontando qualcosa e se nelle parole di questa o di quella canzone riusciamo a cogliere un significato che era sempre rimasto sotto la superficie. Perché è questo ciò che lei vuole fare, e questo è il vero obiettivo di Harleiquin, indagare ciò che si nasconde sotto la maschera, non avere paura di cercare a fondo nell’anima, anche a costo di scontrarsi con la follia.

Harlequin in fondo è un progetto “storto”, folle per il mercato, ma lucido nella sua costruzione; un disco anche ostico, che però solo Lady Gaga, oggi, tra i grandi nomi del mainstream potrebbe permettersi di realizzare.

Se per i precedenti Cheek to Cheek e Love for Sale Gaga poteva godere della presenza dell’amico Tony, che in qualche modo giustificava la sua scelta di aver realizzato un album jazz, qui la partita se la gioca da sola. E proprio per questo sceglie di andare fino in fondo, proponendo anche due pezzi inediti.

Il primo, Folie à Deux, è un numero sciantoso che sembra uscire da una notte nella Ville Lumière. Il secondo, Happy Mistake, è una di quelle meraviglie che Gaga sa tirare fuori dalla penna e sa interpretare come nessuna. Dentro c’è il dramma, la follia, il dolore, l’ossimoro delle lacrime che fanno sciogliere il trucco, mentre sul viso spunta un sorriso.

 

 

 

 

“143”, perché l’ultimo album di Katy Perry non funziona?

“143”, perché l’ultimo album di Katy Perry non funziona?

Nel momento in cui scrivo, 143, ultima fatica discografica di Katy Perry, non ha ancora fatto la sua comparsa nelle classifiche, ma le previsioni del debutto sono tutt’altro che rosee.

Diciamocelo però, un po’ lo sapevamo: o Katy tirava fuori l’album del millennio, capace di risollevarle la carriera, oppure il destino del disco era già segnato ancora prima della sua pubblicazione. Colpa, purtroppo, dei due precedenti album, Witness (2017) e Smile (2020), non esattamente campioni di vendite, che hanno appannato l’aura di invincibilità di cui la Perry si era circondata nei primi anni ’10, ai tempi di Teenage Dream (2010) e Prism (2013). Due album fortissimi, che le hanno fatto guadagnare record su record. Basti ricordare che grazie ai singoli estratti da Teenage Dream, Katy Perry è stata l’unica artista – al pari di Michael Jackson – ad aver piazzato 5 canzoni dello stesso album al vertice della classifica americana. E poi sono arrivati, Roar e Dark Horses, estratti da Prism, entrambi certificati diamante negli USA.

Insomma, fino a una decina di anni fa Katy Perry sembrava l’incarnazione terrena del pop, l’artista capace di mettere d’accordo tutti. Se Madonna iniziava a perdere appeal sul pubblico più giovane, Britney e Christina erano in una fase calante della carriera, Lady Gaga destabilizzava con i look eccessivi e le scelte musicali non sempre digeribilissime (vedi alla voce Artpop), Katy era tutto ciò che al pop si poteva chiedere: canzoni super catchy e immagine rassicurante.

Poi, dicevo, è arrivato Witness, e quel magico mondo fatto di colori pastello e suoni zuccherati ha perso il suo mordente. Peggio ancora è andata a Smile, tre anni più tardi. Si potrebbe star qui ad analizzare il perché di quella débâcle, ma sarebbe un esercizio inutile. Accontentiamoci di sapere che è andata così.

Lo scorso luglio, a distanza di 4 anni, Katy torna è tornata, e ovviamente la notizia del suo comeback ha fatto tremare i muri e nutrito le aspettative. Aspettative che si sono però afflosciate come un sufflè malriuscito non appena è stato pubblicato il singolo della nuova era discografica, Woman’s World. Una canzone mediocre e facilona, che oggi troverebbe forse la sua giusta collocazione nel disco di qualche emergente. Invece è stato il brano di punta per il lancio del nuovo progetto. Catastrofe…
Troppo scontato, troppo semplice, troppo sfacciatamente ruffiano; e non è bastato neanche il messaggio femminista, davvero troppo annacquato per il mercato discografico del 2024.

La scelta di pubblicare in fretta e furia un secondo singolo (Lifetimes) e poi un terzo (I’m His, He is Mine) in poco più di un mese è stata la famosa pezza che ha fatto più danni del buco.
Troppo evidente la necessità di correre ai ripari, ma niente da fare, i due brani sono passati praticamente inosservati.

Restava da sperare che il resto fosse migliore.

Ora che l’album è uscito, possiamo tirare le somme, e capire perché poteva essere – e probabilmente sarà – un altro flop.

Molto semplicemente, 143 è un disco anonimo e superficiale. Un album che sembra essere rimasto fermo al 2013: forse per non correre rischi, Katy Perry ha scelto di riproporre le stessa ricetta che l’ha portata alla gloria. Peccato che siano passati più di 10 anni da allora, e che le cose siano cambiate un po’.
Prima di tutto, ci si augura che il pubblico che seguiva Katy anni fa sia cresciuto insieme a lei, e oggi si aspetti qualcosa di più maturo. E poi in questi anni il mondo del pop è stato rivoluzionato: solo per restare nell’universo femminile, sono arrivate creature come Billie Eilish e Taylor Swift (che nel 2013 esisteva già, ma era pressochè “confinata” al country) che ci hanno mostrato che si può essere pop e mainstream senza puntare tutto sulla semplicità. Non che loro siano state innovative in questo, ma sicuramente hanno abituato il pubblico di oggi a un ascolto diverso.

Presentato come un disco celebrativo dell’amore fin dal titolo – 143 sarebbe una forma in codice di “I love you”, sai che roba… – il settimo lavoro di Katy Perry si rivela essere una raccolta di pezzi buoni per ballare una sera, può essere la colonna sonora di un pigiama party, ma non è, oggi, quello che ci si aspetta da un nome del suo calibro.

I suoni pescano a pienissime mani dalla dance degli anni ’90 (I’m His, He’s Mine contiene anche un sample di Gypsy Woman, successo house del 1991), e questo poteva essere un buonissimo fil rouge. Ma oltre c’è ben poco di scoprire.

La sensazione è Katy Perry si sia fatta contagiare dalla sindrome di Peter Pan, e sia rimasta incagliata in una sorta di eterna giovinezza, convinta che dare ai fan un nuovo carico di canzoni-confetto sarebbe bastato ad accendere il loro entusiasmo come in passato. Ma così non è stato.

Quello che è mancato è stato prima di tutto la voglia di cambiare, evolversi, far vedere di essere altro rispetto a quello che tutti già conoscevano; e poi è mancato il coraggio di alzare la famosa asticella.

Intendiamoci, non tutto quello che è in 143 è da cestinare: Crush per esempio è un buon pezzo, ed è uno dei pochi che si fanno ricordare (anche qui c’è stata una ripresa dal passato, da My Heart Goes Boom). Così come non sono male Nirvana e Wonder. Ma tre pezzi passabili non sono abbastanza a fare un buon disco.

Infine, una considerazione a margine: tra le critiche mosse all’album vi sono state anche quelle di chi ha biasimato la scelta della Perry di lavorare con Dr. Luke, figura assai controversa nel musicbiz per via della vicenda processuale che lo ha visto coinvolto dopo le accuse mosse da Kesha.
Senza entrare nel merito della questione, sono abbastanza sicuro che il tallone d’Achille del disco abbia ben poco a che spartire con la condotta morale di Dr.Luke.

143 è un disco mediocre, punto e basta.

BITS-RECE: Gia Ford, “Transparent Things”. Oscure trasparenze

BITS-RECE: Gia Ford, “Transparent Things”. Oscure trasparenze

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Se sarà vera gloria ce lo dirà il futuro. Quel che è certo è che il nome di Gia Ford è una delle grandi promesse della nuova scena pop.

Dopo essersi fatta conoscere – e apprezzare – dalla stampa che conta con una manciata di singoli, l’artista inglese arriva ora alla pubblicazione dell’album d’esordio, Transparent Things, un lavoro che ha tutte le carte in regola per portare il suo nome all’attenzione del pubblico internazionale.

Quasi un concept album incentrato sul tema dell’emarginazione e dell’alienazione, il che è sufficiente a inquadrare il personaggio: con la sua aura ombrosa e crepuscolare, Gia Ford è la perfetta incarnazione dell’alt pop del nuovo millennio, per quanto la sua comfort zone vada ben al di là dei confini del pop.

Impossibile infatti non scorgere nel suo DNA l’eredità dei Portishead o di PJ Harvey, così come le atmosfere dei Garbage (provate a chiudere gli occhi, e ditemi se nella sua voce non ritrovate Shirley Manson…) e di una certa scena anni ’90, il che avvicina volentieri le sonorità dei suoi brani all’indie e al rock.

Sonorità ibride e dark, proprio come Gia Ford, misterioso angelo dalle ali tinte di nero, creatura ancora da scoprire.

Transparent Things è un album che si scioglie traccia dopo traccia, è un incantesimo dolce e ammaliatore.

A noi non resta che lasciarci sedurre, e scommettiamo che funzionerà.

 

BITS-RECE: Lady Blackbird, “Slang Spirituals”. Fino in fondo all’anima

BITS-RECE: Lady Blackbird, “Slang Spirituals”. Fino in fondo all’anima

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.

Se non credete all’adagio secondo cui ciò che non uccide fortifica, dovete ascoltare il nuovo lavoro di Lady Blackbird.

Si intitola Slang Spirituals, e anche se non siete avvezzi al soul e al gospel, vi farà vibrare le corde dell’anima.

Una volta entrata nell’adolescenza, ho iniziato a capire che la religione era qualcosa che mi veniva imposto e non mi è mai sembrata giusta”, racconta l’artista originaria del Nuovo Messico a proposito dei suoi anni giovanili trascorsi con la famiglia d’origine. “Quando ho iniziato a sviluppare la mia identità di donna lesbica, mi sono sentita giudicata, mi sono sentita un’emarginata ed etichettata come una peccatrice. Questo seppelliva chi ero veramente e avevo bisogno di trovare una via d’uscita”.

Quella via d’uscita, naturalmente, è stata la musica.

Dopo il disco d’esordio Black Acid Soul, che le ha fatto guadagnare l’attenzione e l’apprezzamento della critica internazionale, Lady Blackbird torna adesso con un lavoro potente, monumentale, vibrante, sorretto dal confortante abbraccio di una voce accogliente e raggiante, capace di trasportare emozioni in ogni singola nota.

Un voce dal potere consolatorio.

Ogni traccia dell’album è un frammento di vita, il racconto delle lacrime spese, o della celebrazione dell’amore, o della rivendicazione di una ritrovata consapevolezza di sé.
Le radici di Lady Blackbird scavano a fondo nel terreno del soul, del gospel e del jazz, ma qui non mancano divagazioni verso la psichedelia (in When The Game Is Played On You, un pezzo di oltre 7 minuti) o verso la ruvidezza del blues, come nella conclusiva Whatever His Name, con i suoi 8 minuti e mezzo. E se il gospel è tradizionalmente legato al messaggio cristiano, Lady Blackbird ne fa quasi il veicolo di una religione personale, quella di una donna che ha rischiato di perdersi e si è ritrovata.

Slang Spirituals è un’apoteosi della voce dell’anima, un manifesto di libertà e di orgoglio umano. Un disco di fronte al quale è semplicemente impossibile non provare il classico brivido alla schiena che sentiamo davanti alle cose belle.

Ognuno, ascoltandolo, troverà in Slang Spirituals la “propria” traccia, quel brano che più degli altri punta dritto al cuore e offre riparo all’anima. Dall’apertura decisamente “uplifting” di Let Not (Your Heart Be Troubled) e Like A Woman, passando per le suggestioni lunari Man on the Boat, e giù fino all’intensa e magnifica No One Can Love (Like You Do).
Quando poi il canto di Lady Blackbird ci accarezza su Someday We’ll Be Free è impossibile non fidarsi di quella promessa.

Se mai vi siete chiesti perché il soul si chiami così, questo disco ve ne darà una nitidissima dimostrazione.

Un giorno tutto questo dolore ti sarà utile, ha scritto qualcuno. Se il risultato è un album così, c’è davvero da crederci.

BITS-RECE: Jon Hopkins, “Ritual”. Liturgia elettronica per veri devoti

BITS-RECE: Jon Hopkins, “Ritual”. Liturgia elettronica per veri devoti

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Un titolo che da solo dice già tutto: Ritual.
Fin troppo didascalico per scoprire cosa nasconde al suo interno.

Il nuovo lavoro di Jon Hopkins, producer da oltre 20 anni sulla scena, sarebbe davvero la colonna sonora ideale per una cerimonia di un rito pagano, o addirittura di un nuovo credo.

Un’opera epica e monumentale, non certo pensata per un ascolto veloce o frammentario, ma per essere ascoltata dall’inizio alla fine senza soluzione di continuità, in uno stato di totale concentrazione. L’idea è quella di portare l’ascoltatore “dentro” alla musica, e per farlo l’ascoltatore deve realmente esserci, prendersi il tempo per restare nel “qui e ora”, almeno per i 41 minuti della durata.
Le otto tracce dell’album non sono altro che otto fasi in successione di un’unica, immaginaria celebrazione liturgica che evoca atmosfere oscure, potentemente suggestive, arcane.

Come dichiarato dallo stesso Hopkins, Ritual ha preso forma nella seconda metà del 2023, ma il suo “seme” era stato piantato già nel 2022, e tutto era cominciato nell’ambito di Dreamchine, un innovativo progetto pensato per celebrare la creatività, realizzato in collaborazione con artisti, scienziati e filosofi. Si trattava di un’esperienza di musica immersiva di carattere cerimoniale, per la quale il producer inglese era stato chiamato a comporre le musiche. Ascoltando ora il nuovo album si coglie bene il filo rosso che da Dreamachine ha portato a Ritual.

Ma chi conosce da tempo Hopkins non si farà certo cogliere di sorpresa di fronte a questa nuova opera, considerando la naturale tendenza dell’artista a ricercare una certa spiritualità nei propri lavori e creare panorami sonori fortemente evocativi.

Il racconto parte da uno stato di quiete (part i – altar), fatto di sussurri lontani (la voce è quella di Vylana, collaboratrice dilunga data di Hopkins, “alchimista del suono”, come lei stessa si definisce): è come l’inizio di un cammino che vuole i suoi tempi, la preparazione a un’esperienza mistica che si carica progressivamente di energia. L’ambient e il down-tempo, territorio in cui producer gioca in casa, si contaminano così piano piano di echi tribali e richiami ancestrali, accompagnando l’ascolto in un climax di tensione che raggiunge l’apice nel sesto movimento (part vi – solar goddess return, ma – lo ripetiamo – la suddivisione è puramente formale, perché il disco va considerato come un corpo unico). È a questo punto che, idealmente, si assiste all’epifania divina: è il momento dell’estasi mistica e della rivelazione.
Quella che segue, nelle ultime due tracce, è una decompressione che riporta lo spirito a una dimensione terrena, ma con il beneficio della visione celestiale a cui si è assistito.

Con Ritual Jon Hopkins allestisce il programma di un moderno rituale sciamanico modellato su suggestioni elettroniche; una cerimonia di cui è egli stesso l’officiante, e che sull’altare, al posto di calici e offerte, ha i sintetizzatori.

Oggettivamente, è un bel lavoro, ben prodotto (e ci mancherebbe!), che chiama l’ascoltatore a un’esperienza fortemente emozionale, ma che nello stesso tempo gli richiede un’attenzione totale e una motivazione sincera nell’arrivare dall’inizio alla fine. Prendere questo progetto solo in qualche singola traccia sparsa permette sì di coglierne la bellezza, ma vorrebbe anche dire perderne il senso più profondo, sfilacciarne il racconto, annullare l’intento dell’artista.
Ed è proprio qui che si intravede la fragilità di questo album. Nell’antica Grecia c’erano i culti misterici, le cui rivelazioni erano destinate esclusivamente agli iniziati: ecco, forse anche quella di Hopkins non è una rivelazione alla portata di tutti ma aperta solo ai suoi veri devoti.