A chi si aspettava un concerto nostalgicamente legato al passato, Neneh Cherry ha dimostrato al pubblico presente al Magnolia di Segrate che continua ad essere – ora ancor di più, con la maturità dei suoi 54 anni portati benissimo – la miglior cattiva ragazza in circolazione. Già ne aveva dato prova a ottobre quando usci Broken Politics, grande album andato a contribuire ad una discografia che si attesta comunque ad alti livelli. Oggi, Neneh canta di diritti civili, di abusi (dalle armi alla violenza di ogni tipo) e di libertà, con grinta e soprattutto in coerenza con quanto espresso fino ad oggi nelle sue canzoni e sul palco, con buona pace di chi vorrebbe che i cantanti fossero solo “cantanti”, possibilmente senza opinioni politiche e/o sociali ostinate e contrarie.

Al Circolo Magnolia di Segrate, alle porte di Milano, nell’unica data italiana di questo tour, Neneh Cherry ha dimostrato che è ancora possibile – e mai come ora doveroso – fare un concerto politico nell’accezione migliore del termine, senza per questo cadere nella facile trappola di allettare il pubblico ad ogni costo.

Pochi quindi i richiami agli anni ‘90, in un concerto dove l’urgenza espressiva è tutta incentrata sul “qui ed ora”: che si tratti di passato recente (Blank Project, dall’omonimo lavoro del 2014) o quello legato ai successi storici (Manchild e Buffalo Stance, piazzata nei bis), i classici hanno lasciato spazio alla denuncia dell’attualità. Forte di un album fra i migliori del 2018, quasi una sorta di biografia in musica, Neneh non ha paura di cantare di immigrazione (Every nation seeks its friends in France and Italy / And all across the seven seas canta in Kong, brano nato dopo una esperienza di volontariato in un centro di accoglienza migranti), e di richiamare le persone, come un esercito di pace, alla coscienza civile e alla collaborazione (Soldier). Oggi, come quando lo cantava Patti Smith quasi 30 anni fa, People have the power. Ora tutto sta ad indirizzare questo potere immenso nella giusta direzione.

Nonostante non sia protagonista, il passato fa comunque musicalmente capolino anche nei brani di nuova produzione, fra campionamenti vintage eccellenti (il padre adottivo Don Cherry “compare” con Ornette Coleman in Natural Skin Deep) e ritmi che sembrano arrivare direttamente da un rave, ma che non spiazzano un pubblico già entusiasticamente preparato a una pioggia di suoni oscuri e duri dall’azzeccato opening act di Charlotte Adigéry.

In un concerto breve (poco più di un’ora), ma davvero intenso, scorrono praticamente quasi tutti i brani di Broken Politics, dai ritmi tribali di Slow Release alla splendida e complessa versione di Deep Vein Thrombosis, così lontana e pure così vicina alla versione su album. Spiace un po’, a fronte di un live ben calibrato e rispetto alle date precedenti dove sono state quasi sempre presenti, che nella serata milanese siano saltate Cheap Breakfast Special e, ancor più inspiegabilmente, la hit 7 Seconds. Spiace sì per il valore delle canzoni stesse, ma soprattutto perché alla fine dell’unico bis, avremmo voluto rivedere Neneh Cherry risalire sul palco ancora, e ancora, e ancora.

Testo e immagini di Alessandro Bronzini

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