“Magari vivi”, l’inno alla sfiga di Romina Falconi

31 maggio 2019, è questo il momento da cui è partito tutto.

Con l’estate alle porte e il solito carico di inni balneari in uscita, quel giorno ha visto lo scoppio di un inaspettato fulmine nel cielo sereno della musica di fine primavera. Un fulmine che aveva il titolo di Magari muori ed era il frutto di un’inedita collaborazione tra un’artista decisa a rompere gli schemi e le convenzioni del pop, Romina Falconi, e un’agenzia di pompe funebri allergica a retorica e moralismi ma amante dell’ironia, Taffio.

Sul ritmo cadenzato del reggaeton, al posto delle solite palme, del solito mare e delle solite notti di fuoco c’era un sano invito al carpe diem, a vivere tutto fino in fondo, perché oggi ci sei e domani il prete potrebbe ricordati nell’omelia.

Chiamatelo humor nero se vi va, nei fatti è stato un colpo di genio.

Ma una roba così non è certo da tutti, te la puoi permettere solo sei un’artista disposta a rischiare di prendere le buche e se il pop preferisci da sempre servirlo al tuo pubblico accompagnato da un calice amaro, piuttosto che avvolto in una nuvola di zucchero filato. Oserei dire che in Italia una roba così te la puoi permettere solo se sei Romina Falconi.

Che non a caso a due anni di distanza torna in pista con Magari Vivi, secondo, fulminante capitolo di questa saga.

Se prima c’era il reggaeton adesso ci sono i fervori della salsa, e al posto di un’esplosione di caliente passione si distende un luminoso manifesto della sfiga, nel più tipico falconiano pensiero.

Scritto insieme a “Sua Casalinità” Roberto Casalino e prodotto dalle sapienti mani di Marco Zangirolami, Magari vivi è l’inno di chi non si arrende alle proprie sfortune, di chi era alla toilette quando distribuivano le botte di culo, ma che nonostante tutto ci crede e ci spera ancora, perché prima o poi anche alla buona sorte capiterà di sbagliare strada e di arrivare da loro.

“Questo è un inno a prendere la vita così (tutto sta a capire come e dove, da decidere a piacere). Noi figli del mai una gioia, pronti a sorridere pure se tutto va a rotoli.
Noi che chiediamo scusa pure se cadiamo. Noi che pensiamo che quello delle leggi, il Signor Murphy, era un ottimista. Questo vuole essere un inno al coraggio, un invito a duello a tutti i life coach che credono che basti volerle le cose. C’è chi ha la buona stella strepitosa, e senza sforzi ottiene tutto, e chi ha la buona stella che è un tipo. Un tipo simpatico.
Siamo baciati dalla fortuna ma più frequentemente trombati selvaggiamente dalla sfiga, non ci arrenderemo mai e cercheremo sempre un segnale che ci faccia ricredere. Rideremo lo stesso.

Con una certa arroganza, seppur appassionatamente speranzosi, vi mostriamo il nostro inno. Benvenuti nel Brutalismo!”

Tra Cuba e Africa: Angélique Kidjo rende omaggio a Celia Cruz


Un sottile filo sonoro unisce Cuba e l’Africa.
E proprio seguendo questo filo Angélique Kidjo saputo dar vita a Celia, il suo ultimo album, autentico omaggio alla regina della salsa Celia Cruz.

La scelta del primo singolo estratto dall’album è caduta su La Vida Es Un Carnival, probabilmente il brano più iconico del repertorio di Celia Cruz, accompagnato da un video che usa la danza contemporanea per cogliere lo spirito gioioso che ha da sempre caratterizzato l’arte di Celia (celebre il grido “azucar!”, ovvero “zucchero!”, con cui condiva spesso le esibizioni).

Oltre al contributo di Tony Allen, il pezzo vede la collaborazione di Meshell Ndegeocello al basso, Shabaka Hutchins, sua band Sons of Kemet e la Gangbe Brass Band dal Benin, Paese natale di Angélique.

Il video di La Vida Es Un Carnaval è stato girato dal regista sudafricano Chris Saunders e coreografato dalla gabonese Carmel Loanga usando un mix di tango classico, salsa e figure di danza moderna.

Per presentare l’album, Angélique Kidjo sarà in Italia a luglio per due appuntamenti dal vivo:

23 Luglio – Festival di Villa Arconati (Castellazzo di Bollate, MI)
Inizio concerto h 21:00
Prevendita su Mailticket

24 Luglio – Roma Summer Fest @ Auditorium Parco della Musica (Roma)
Inizio concerto h 21:00
Prevendita su Ticketone

Con le sue 10 tracce, Celia si spoglia del glamour caratteristico della Cruz per mettersi sulle tracce delle radici africane della donna cubana diventata la “regina” della salsa, un genere musicale inventato a New York dagli immigrati caraibici.
Nata all’Havana nel 1925, Celia Cruz, una donna di colore, lascia Cuba con il suo primo gruppo – La Sonora Matancera – nel 1959, quando Fidel Castro fece cadere il dittatore Fulgencio Batista. Celia Cruz, conosciuta per la sua avversione nei confronti del regime di Castro, nel 1966 si unisce all’orchestra di Tito Puente e le sue registrazioni per l’etichetta Fania hanno contribuito a costruire il retaggio della salsa.

Angélique Kidjo ha vissuto questa ondata cubana quando era ancora nel suo nativo Benin, nell’Africa Occidentale. La musica cubana – partendo dalla rumba, dal son e dal cha cha cha – viaggiava avanti e indietro tra le coste atlantiche e si imbarcava insieme agli schiavi, ritornando dalle Americhe sulle navi mercantili per stabilirsi poi negli anni ’60 grazie agli scambi che avevano luogo tra i governi post coloniali dell’Africa Occidentale e i loro amici cubani.
La rumba del Congo prende il volo e la salsa penetra nelle orchestre dell’Africa Occidentale.

Quando la giovane Angélique Kidjo vede per la prima volta cantare Celia Cruz con Johnny Pacheco a un concerto a Cotonou, prova una sensazione di familiarità.
Anni dopo le loro strade si incrociano ancora quando la Celia è in concerto a Parigi e Angélique avverte percussioni africane nella voce di Celia Cruz, riconosce la struttura delle percussioni suonate dal popolo Yoruba, e sente i nomi di Chango o Yémanja, divinità della sfera voodoo (comune nel Benin, Nigeria, Haiti e Cuba, dove il regime marxista non era riuscito ad uccidere la santeria).

L’artista beninese è considerata l’erede di Miriam Makeba, oppositrice dell’apartheid che per anni aveva cercato rifugio negli Stati Uniti, e dell’attivista per i diritti civili Nina Simone, fuggita dal razzismo americano per stabilirsi prima nelle Barbados, poi in Liberia e in Francia.

Per realizzare Celia, la Kidjo ha arruolato David Donatien, un multistrumentista, arrangiatore e compositore di successi per Yaël Naïm: “Volevo creare un progetto originale che si differenziasse dai soliti misteri della salsa” spiega Donatien. “Quindi ho adattato i pezzi di Celia all’Africa e ho preso una direzione afro-beat con il brano Quimbara. Poi volevo il suono di una band di ottoni e ce n’era proprio una nel Benin, di musicisti con cui Angelique aveva già lavorato, la Gangbé Brass Band. Sono riuscito a disfare i ritmi della salsa e a trovare melodie efficaci, farle sembrare diverse e portare tutti questi elementi forti insieme intorno alla personalità di Angélique Kidjo. Dovevo trovare il punto in cui l’Africa si è incontrata con la modernità”.

Angélique spiega: “Ho chiesto a David di rovistare negli anni ’50, quando Celia era particolarmente attaccata alla cultura nera. Volevo mostrare quanto fosse costante nei diversi periodi della sua vita all’Havana e a New York”.
Il disco chiude con Yemaya, un esercizio di stile, originalmente scritto da Ezequiel Frias Gomez (pianista nero di La Sonora Mantacera) in cui la voce di Angélique e le percussioni di David compongono un tributo alla dea del mare Yemaya.

L’album è stato registrato tra New York e Parigi ed è stato mixato da Russell Elevado.

Celia Cruz amava molto vestire in maniera appariscente e luccicante e per questo motivo per la copertina di Celia è stato utilizzato un’immagine che vede Angélique circondata da una sinfonia floreale. L’illustrazione è opera dell’artista senegalese Omar Victor Diop, i cui lavori sono stati esposti anche a Londra e alla Fondazione Vuitton di Parigi.
La Kidjo così, ancora una volta, mostra il suo forte legame con l’arte visiva contemporanea.