Batti le mani: Ketty Passa tra l’urban e un omaggio a Madonna

Nessun nuovo album in vista, almeno per ora.
Batti le mani era semplicemente lì, pronta a venir fuori, dopo un anno di musica suonata dal vivo e la pubblicazione dell’album Era ora.
Ketty Passa non ci ha pensato su troppo: ha messo insieme le parole, un po’ di synth, un basso bello “ciccione” e valangate di ritmiche urban.

E per finire, una super citazione di Vogue di Madonna…

BITS-CHAT: Sbaglio, quindi vivo. Quattro chiacchiere con… Ketty Passa

Parlare di musica urban in Italia significa un po’ addentrarsi in quella selva oscura che di solito prende il nome di indie, dove hip-hop, soul e R&B hanno la possibilità di incontrarsi e prendersi per mano, magari in mezzo a qualche distorsione.

Se si resta sulla superficie delle classifiche, molto difficilmente vi capiterà di trovare un artista urban nostrano. Cosa diversa se si va Oltreoceano, dove questa cultura gode di basi molto più consolidate, e regine del mainstream come Rihanna e Beyoncé possono tranquillamente passare da uno stile all’altro finendo sempre ai piani alti delle chart.

Chi sta provando ad aprirsi un varco in questa direzione qui in Italia è Ketty Passa.
Musicista, DJ, conduttrice radiofonica e recentemente anche responsabile della selezione musicale per il programma Rai Nemo – Nessuno escluso, dopo un primo album nel 2013 insieme ai Toxic Tuna, ha deciso di giocare il tutto per tutto e grazie al successo di una campagna di Music Raiser ha potuto dare alle stampe Era ora, il suo primo album solista, realizzato sotto la guida preziosa di Max Zanotti e Marco Zangirolami. Quello che ne è venuto fuori è una sintesi di attitudine urban e melodia pop, il tutto orgogliosamente in italiano.
Ma attenzione, qui di “sole, cuore e amore” non ne troverete neanche l’eco.
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Era ora
. Quanto lavoro ti è costato arrivare a questo disco?

Il titolo lo lascia intendere. Questo album per me è un punto di partenza: sono nel settore musicale da tempo, ma è la prima volta che metto completamente la mia faccia in un progetto. Ho ottenuto quello che volevo, ma che fatica! Sono una che ha sempre fatto tutto da sola, non ho mai avuto spinte, e per arrivare a questo traguardo sono riuscita a trovare tutta l’energia necessaria. Segno che ci tenevo davvero.
Cosa ci hai messo dentro?
Tutte le mie facce artistiche. Mi muovo nel pop, ma con un sacco di sfaccettature. Ho voluto marcare soprattutto su quella “zarra” e su quella romantica, perché sono quelle che mi caratterizzano di più. Soprattutto quando ero ragazzina, tendevo ad avere un atteggiamento un po’ polemico e poco seduto su ciò che mi veniva detto, e anche adesso sono così. La matrice sonora di tutti i brani comune è l’urban, un genere più melodico dell’hip-hop, ma con suoni duri che si avvicinano al rock, con le chitarre distorte ad esempio. Qui in Italia è poco praticato, ma in America è considerato mainstream: gli ultimi album di Rihanna e Beyoncé sono così, perché il pop là è vissuto con maggiore intraprendenza. Senza che sia una colpa, noi dobbiamo vedercela con una lingua più complessa e con una cultura melodica che non lascia arrivare questo tipo di impulsi. Ho accettato la sfida: ho superato i trent’anni, penso che sia arrivato il momento di fare quello che mi piace, altrimenti mi sarei fatta confezionare un prodotto più standard già alcuni anni fa.
Durante la lavorazione del disco mi parlavi della difficoltà di mettere insieme l’urban con l’italiano: ora che il lavoro è finito che bilancio puoi fare?
Forse inizialmente ho dovuto trovare un nuovo modo di scrivere, diverso da quelli canonici e da quelli che io stessa ho usato in precedenza. Ho volutamente evitato parole come “stelle”, “mare”, o espressioni come “ti penso”, “mi manchi”, che magari risultano più famigliari a chi ascolta, ma non si sposano con questo genere. Inoltre, ho imparato a scrivere come parlo, come succede nell’inglese, e ho usato termini come “wow”, “show”, “bon ton”, che restano in testa. Un po’ quello che ha fatto Gabbani, mescolando le lingue attraverso gli stilemi.
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Se ti guardi in giro, riesci a individuare una scena urban in Italia?
Non esiste. C’è chi lo fa come me, cioè mischiandolo ad altri generi, ma manca una vera cultura urban. Dovendo pensare ad altri artisti, mi vengono in mente Luana Corino o Marianne Mirage, anche se forse lei è un po’ più vicina al pop, ma usa quei loop di parole che piacciono anche a me e che in America si ritrovano nei pezzi di M.I.A. o Gwen Stefani. Qui in Italia è una strada nuova, e mi rendo conto che oltre alla difficoltà di non avere una base, c’è anche il problema di fidelizzare un pubblico: dove potrei presentare i miei brani? In apertura di un live di un altro artista, ma chi? Forse Cosmo o Levante. Il mio obiettivo sarebbe avere un album fatto tutto di pezzi come Sogna ed essere davvero la prima artista che si crea un percorso urban in Italia: per ora, ho messo dentro anche una buona dose di pop.
“Mi fa paura il buco nero della mia generazione” canti in Caterina. Di cosa soffre la tua generazione?
Quando parlo della mia generazione intendo quella nata negli anni ’80, quella che ha avuto il cellulare più tardi e che è abituata a pensare con un’altra testa rispetto a chi è nato dopo. Già chi è nato nell’87 ha una mente diversa. Il buco nero sta nel fatto che ad un certo punto ci siamo trovati davanti a un cambiamento enorme, che si allontanava da tutto ciò su cui avevamo messo le basi. Faccio parte di una generazione che ha ancora un piede nella cultura degli anni precedenti, che ci porta a scavare nelle cose, a usare profondità di pensiero, ma allo stesso tempo pensiamo sempre di dover cercare tutto e non ci accorgiamo di averlo sotto mano. Basta pensare alla musica: io i dischi ero abituata ad andare a comprarli nel negozio, non a scaricarli da casa. La tesi triennale l’ho fatta nel 2005 consultando i libri in biblioteca, quella del Master l’ho fatta in digitale. La tecnologia ci ha spiazzato, ci siamo un po’ persi. Di certo a me non verrebbe in mente di fare quello che fa gente come Sofia Viscardi su Youtube, pur avendo lo stesso carattere: è proprio una struttura mentale diversa, ed è una cosa di cui a volte un po’ soffro.
Ketty Passa_cover ERA ORA
Voglio di più invece gira attorno al dilemma tra assecondare l’ambizione e accontentarsi: tu a che punto sei?
Non lo so, quel pezzo è un grande punto di domanda. Forse sono più vicina all’accontentarmi, perché dopo i 30 anni è normale sia così. Ho capito che crescere ci indebolisce, non ci fortifica: fino ai 25 anni ci si sente invincibili, poi la parabola inizia a scendere e appena ti abitui a una condizione te ne piomba addosso un’altra. Di indole comunque, voglio sempre di più, ma non parlo di beni materiali, parlo di crescita.
Il sole tramonta mi sembra uno dei pezzi più personali dell’album, è corretto?
Sì, parlo della scomparsa di una delle mie nonne, anche se nella descrizione che faccio ho unito immagini di entrambe. Ho origini meridionali, ma sono cresciuta in Brianza, e il legame che avevo con le nonne era fortissimo, perché potevo vederle raramente. L’aneddoto della canzone riguarda mia nonna Concetta, quella di cui porto il nome: ho avuto la possibilità di vederla andar via, e l’ultima cosa che mi ha detto è stata di continuare a cantare. All’epoca stavo facendo un disco con un’altra band e non avevo ancora chiari certi punti della mia carriera, lei mi ha dato la spinta a far diventare il canto una priorità. Sembrerà paradossale, ma vederla morire è stata un’esperienza incredibile, perché mi ha fatto capire il senso delle cose e ho accettato che accadesse, come quando il sole tramonta. Scompare, ma tu sai che c’è ancora, da un’altra parte. Il sorriso buffo e le mani rugosissime appartenevano invece all’altra nonna, che è morta un po’ prima.
In Ho dato tutto chiedi di “portarti a sbagliare”: cosa vuol dire per te sbagliare?
Sbagliare vuol dire vivere. Voglio continuare a sbagliare per sentirmi umana, fino a quando non mi verranno istinti criminali. Sono molto autocritica, e quel pezzo è una sorta di esorcismo, perché guardandomi intorno non ho trovato poi così tanti fenomeni e ho capito che posso perdonarmi un po’.
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Di solito chiudo le interviste chiedendo di darmi una definizione di ribellione, ma a questa domanda avevi già risposto (qui il link). Quindi ti chiedo di scegliere una di queste parole e di dirmi cosa significa per te: amore, rancore, resistenza, bellezza, silenzio.
Scelgo il silenzio, perché non sono mai riuscita a utilizzarlo. Ho l’abitudine di parlare tanto, e senza volerlo mi sono spesso boicottata: è un po’ come nella musica, sono le pause a fare la differenza. Non serve dire sempre quello che si pensa, tu ti senti sincero, ma agli occhi degli altri rischi di passare per rompipalle. Ho imparato a non dare sempre la mia opinione, anche sui social: non scrivo sempre, sono forse l’unica a non aver parlato delle palme in piazza Duomo a Milano. A cosa serve? Da quando ho imparato a farlo mi annoio anche a leggere le opinioni di tutti su ogni minima cosa. Silenzio sarà la mia parole del 2017.

Il 10 marzo esce Era ora, il primo album di Ketty Passa

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Arriva il 10 marzo Era ora, l’album d’esordio da solista di Ketty Passa.

Il progetto è stato finanziato da una campagna su Musicraiser che ha coinvolto i fan, superando i risultati prefissati, ed è stato presentato in anteprima con due showcase a Milano e a Roma.

Era ora strizza l’occhio all’urban, tra l’electro rock e il tribal hip hop, pur mantenendo il cantato in lingua italiana.

Il nuovo singolo, Caterina, sarà in radio dall’8 marzo, in occasione della Festa della Donna: il brano era stato presentato alle selezioni di Sanremo Giovani per la 67° edizione del Festival di Sanremo, dove è rientrato tra i 60 finalisti.