Noi siamo Afterhours: un docufilm per raccontare i trent’anni della band di Manuel Agnelli

Noi siamo Afterhours è un docufilm, prodotto da Island Records, che prendendo spunto dal concerto sold out al Forum di Assago del 10 aprile scorso, racconta i 30 anni di storia della band guidata da Manuel Agnelli: dagli esordi in inglese alle tournée internazionali, dai cambi di formazione fino alla line up attuale.

Le immagini del concerto si alternano a quelle del passato in un racconto affidato all’io narrante di Manuel Agnelli che conduce lo spettatore in un viaggio intimo attraverso la musica di una band entrata nella storia del rock italiano.

Prevendite attive a partire dalle ore 09:00 del 12 ottobre su tutto il circuito Ticketone

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La band parla così del progetto: “Noi siamo Afterhours è qualcosa in più di un documentario sulla notte di Assago, sulle emozioni di chi era lì, tra 12.000 altre persone, e su chi era sul palco, davanti a un Forum di Assago soldout. “Noi siamo Afterhours” è un modo per ripercorrere 30 anni di musica, dagli esordi in inglese alle tournée internazionali fino a oggi, con un linguaggio intimo. Lo abbiamo realizzato in questi mesi, affiancati da un regista come Giorgio Testi, capace di trasferire questa urgenza in immagini. Oggi siamo davvero lieti di annunciare che Noi siamo Afterhours sarà presentato in anteprima assoluta alla Festa del Cinema di Roma, il prossimo 23 ottobre. Il film farà parte di un progetto discografico più ampio al quale stiamo lavorando. Vi aspettiamo a Roma!”

Questa invece la dichiarazione del regista Giorgio Testi: “Gli Afterhours sono uno dei miei gruppi preferiti da sempre. Lavorare con loro mi ha dato la possibilità di restituire in immagini le emozioni che provo ogni volta che ascolto le loro canzoni. Ho voluto cercare di andare oltre la semplice rappresentazione live, e raccontare la storia dei 30 anni di carriera della band approcciando la regia in maniera molto cinematografica e lontana da certi schemi musicali italiani. È stato un vero viaggio nel tempo, 30 anni di Afterhours ma anche di ricordi personali, dato che da oltre 20 anni queste canzoni fanno parte della colonna sonora della mia vita”.

Foto di pura gioia: trent'anni di Afterhours tra vecchie fotografie e una rivoluzione

Le ultime notizie che si avevano degli Afterhours risalivano alla primavera dell’anno scorso, con la pubblicazione di Folfiri o folfox, uno dei capitoli più oscuri e funerei della loro lunga carriera. Manuel Agnelli doveva ancora metabolizzare la scomparsa del padre e il disco trovava nella morte uno dei suoi cardini principali.
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A distanza di un anno, l’atmosfera è decisamente cambiata. Nel frattempo Agnelli è entrato nella cultura pop sedendo alla scrivania dei giudici di X Factor, ma soprattutto quest’anno la band festeggia il trentesimo anniversario di attività.
Era infatti l’87 quando il gruppo ha fatto il suo esordio sulle scene, in un’epoca che, musicalmente e storicamente parlando, aveva tutto il sapore della rivoluzione.
“Sembrava davvero che il mondo stesse cambiando: era l’epoca di mani pulite, il muro di Berlino stava per cadere, l’URSS si stava disgregando, e i Nirvana erano in cima alle classifiche, quasi impensabile oggi, era il periodo del grunge”, ricorda il leader del gruppo.
In questo clima di rivoluzione gli Afterhours ci si sono buttati a capofitto, ponendosi come gli esponenti di una nuova era del rock italiano: si parlava di scena indie, quella da cui sarebbero venuti fuori anche i Marlene Kuntz, c’era la scena alternativa, c’era un fermento potente, ed era italiano. Tra le pietre miliari della loro carriera, l’album Hai paura del buio?, targato 1997 e riconosciuto come uno dei capolavori della musica italiana: è lì dentro Sui giovani d’oggi ci scatarro su, divenuto un brano simbolo dello spirito di quegli anni.
In questi trent’anni gli Afterhours sono cambiati, nella musica e nella formazione, per esempio assoldando negli ultimi anni uno come Rodrigo D’Erasmo o passando a un certo punto – dall’album Germi, nel 1995 – dall’inglese all’italiano: “Non ho mai avuto la spinta a cantare in italiano per una ragione artistica, anche se tutti intorno a me insistevano. Però ci siamo accorti che c’era un pubblico che stava crescendo con noi e con il quale dovevamo iniziare a comunicare direttamente, e non potevamo continuare a farlo attraverso l’inglese. Per un periodo siamo andati a suonare anche negli Stati Uniti e potevamo avere la possibilità di sfondare, ma per avere successo negli USA devi stare là, non puoi viverli da lontano, e questo avrebbe comportato un trasferimento quasi definitivo. Il fatto di non aver aver avuto successo in America però ci ha permesso di crescere qui in Italia, diventando parte di un momento. Se fossimo cresciuti in America, lo avremmo fatto forse poi in fretta e con più mezzi a disposizione, ma non avremmo rappresentato nulla né qui né là”, afferma Agnelli.
 

L’occasione di celebrare degnamente questi primi trent’anni è arrivata dopo un incendio che ha distrutto l’edificio in cui la band aveva lo studio di registrazione, dal quale sono stati miracolosamente recuperati tutti i materiali accumulati negli anni: “Le fiamme sono arrivare fino alle pareti esterne, ma non sono entrate e neppure il calore ha rovinato i nastri dei vecchi materiali. Nel recuperarli abbiamo trovato tantissime registrazioni di cui non ci ricordavamo, molte demo, e anche qualche inedito. I trent’anni del gruppo sono stati il momento giusto per pubblicare una parte di queste rarità, insieme ai successi che il pubblico ha conosciuto: una raccolta per chi non conosce gli Afterhours, ma destinata anche a chi li conosce già ma non ha mai ascoltato le prime versioni di alcuni brani, molto più pazze di quelle finite sugli album.”
La raccolta, mastodontica, si intitola Foto di pura gioia, e prende nome dalle prime parole di Quello che non c’è: si compone di quattro dischi, di cui tre di Best of e uno di rarità, e a parte le demo, tra i 76 brani non ha al suo interno inediti. Nella versione deluxe anche un libro con foto e interviste.
“Questi trent’anni sono stati un po’ un mattone, come questo cofanetto – scherza Agnelli -, ma realizzarlo serviva prima di tutto a noi per razionalizzare, per capire che quelle cose le abbiamo davvero fatte. Avevamo pronto del materiale inedito, ma non aveva senso buttarlo qui dentro, sarebbe andato perso. Per promuovere il progetto serviva un brano rappresentativo, e Bianca è sembrata la scelta giusta. Dopo averla suonata in studio nella nuova versione abbiamo pensato che per completarla servisse una donna, una come Carmen Consoli. È una personalità forte, un’artista dotata di una voce antica, di quelle cioè che riconosci subito; anche lei ha esordito negli anni ’90 e ha una matrice rock in comune con noi. Abbiamo fatto percorsi paralleli, ma non ci eravamo mai incontrati”.
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Ispirata a quegli stessi versi di Quello che non c’è è anche la foto in copertina, che ritrae Manuel bambino: “È stata scattata ad Abbiategrasso, davanti alla casa dove abitavo. La pistola che ho in mano è un regalo che mio padre mi ha portato da uno dei suoi viaggi in Africa, penso l’abbia presa in aeroporto ricordandosi del mio amore per i western. È una foto che mi fa pensare alle mie radici, e per questo è molto importante. Ho letto che Springsteen quando aveva un momento di crisi prendeva la macchina e guidava fino a casa di suo padre, faceva qualche giro intorno e poi tornava indietro. È una cosa che facevo anch’io, perché mi aiutava a ricordare che la mia storia era anche altro rispetto a quei momenti, era iniziata altrove”.

Il 10 aprile 2018 gli Afterhours approderanno al Forum di Assago per una data live celebrativa del trentennale: “Sarà un concerto più che uno spettacolo, e di sicuro durerà almeno tre ore, perché vogliamo riproporre il più possibile. Recentemente ho assistito al concerto di Nick Cave, proprio al Forum, ed è stato forse uno dei più belli che abbia visto: scenografia ridotta al minimo, luci sul pubblico e gli spettatori in un silenzio quasi liturgico. Si è creato un contatto vero tra l’artista e gli spettatori, cosa che oggi capita raramente”. Continua Agnelli: “Oggi se non riempi gli stadi, se non suoni a Wembley non sei nessuno, tutto ruota sui numeri e sulla visibilità: ecco, anche noi ad aprile potremo vantarci di aver suonato in un palazzetto e non soffriremo più di inferiorità verso gli altri gruppi”, dice con un tono ironico.
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Ma oggi, dopo trent’anni, dopo essere usciti vivi (“ma un po’ malconci”) dagli anni ’90, quel profumo di rivoluzione si sente ancora nell’aria? “No, non c’è più, ma semplicemente perché oggi alla musica non viene più chiesto di essere rivoluzionaria, ma solo intrattenimento”, dichiara Rodrigo D’Erasmo. “La colpa però è anche un po’ nostra, perché non abbiamo saputo trasmettere niente alla nuova generazione: noi abbiamo imparato l’arte dell’autoproduzione, dell’autodeterminazione, della controcultura, del concepire la musica come una professione, ma cosa abbiamo insegnato a chi è venuto dopo? Non nascondo di essere rimasto un po’ male quando mi sono accorto che per il pubblico di X Factor io non ero nessuno, se non un cinquantenne con i capelli lunghi, ma mi ha fatto bene, perché mi ha costretto a rimettermi in gioco. Per una nuova rivoluzione ci vorrebbe qualcosa come il punk, qualcosa che dia una scossa e che abbia una forza propulsiva, ma oggi c’è in giro qualcosa di simile? L’unico genere che potrebbe rappresentare una rivoluzione è la trap, ma non ha la stessa spinta del punk, è molto più passiva. Oggi si preferisce aspettare che la rivoluzione venga fatta da altri, non c’è la rabbia di volerla scatenare. E sì, è un po’ anche colpa nostra”.

BITS-CHAT: Gli #Spostati, l'indie e l'elettrorock. Quattro chiacchiere con… i REMIDA

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Hanno fatto idealmente da colonna sonora al viaggio della coppia degli #Spostati durante l’ultima edizione di Pechino Express, l’adventure game di Rai2 giunto quest’anno alla quinta edizione.

I REMIDA, band pop-rock della scena indipendente modenese, hanno infatti raccolto l’invito di un amico e hanno realizzato Gli #Spostati, un brano dedicato proprio a Tina Cipollari e Simone Di Matteo, da molti considerati i vincitori morali del programma.
Un brano vivace, dalle sonorità latin e con un testo colorato come i personaggi di cui parla. Un progetto che la band considera come un ritorno al passato e una felice parentesi nel suo cammino musicale, in futuro diretto verso territori più elettronici, come spiega Davide Ognibene, cantante del gruppo.
Perché arrivati a un certo punto, non si può continuare a fare quello che il mercato vorrebbe da te, ma bisogna seguire musica che ti faccia venire i brividi.
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Come, quando e perché i REMIDA hanno deciso di dedicare una canzone agli Spostati?

Partiamo proprio dall’inizio: è nato tutto quest’estate da un’idea di Simone Pozzati, un autore con cui avevo già lavorato in passato e che lavorerà anche ad alcuni progetti futuri della band. Mi ha detto che una coppia di suoi carissimi amici stava per partire per un’avventura e voleva dare una musica a un testo che aveva scritto per loro. Io, con il classico mood da musicista che spesso mi contraddistingue, quando ho scoperto chi erano e di quale avventura si trattava, ho accantonato la cosa. Poi durante un giorno di pausa del tour ho riletto il testo e ho visto che in effetti aveva delle immagini molto divertenti, era assortito tanto quanto lo è poi stata la coppia. La melodia mi è quindi uscita quasi da sola, a Simone è piaciuta e noi REMIDA l’abbiamo incisa, prendendola con grande leggerezza, come un gioco.
Quindi tu non conoscevi Tina e Simone Di Matteo?
Esatto. Ci siamo conosciuti personalmente e professionalmente solo in seguito: ci hanno manifestato un grande apprezzamento per il brano e per noi è stato un motivo di orgoglio.
I tuoi dubbi iniziali sono spariti?
Come dico sempre, lo snobismo da musicisti andrebbe cancellato, ma non è facile, soprattutto oggi che l’ambiente televisivo è sempre più legato a quello musicale. Una vicinanza che paradossalmente porta molti artisti ad assumere atteggiamenti di chiusura, anche se in fondo stiamo facendo la stessa cosa, spettacolo. È un atteggiamento che ogni tanto riconosco in me, ma di cui non mi vanto assolutamente.
Come va considerato questo brano all’interno del percorso musicale dei REMIDA?
C’è un imprinting musicale completamente diverso: come band, negli ultimi due anni abbiamo cercato di fare quello che il mercato intorno a noi chiedeva, ma adesso abbiamo tagliato il traguardo dei 30 anni e non possiamo più permetterci di continuare a seguire questi meccanismi. Abbiamo scelto di fare quello che ci va, e già quest’estate con il singolo Luce delle stelle abbiamo intrapreso una strada con molta più elettronica, un sound internazionale che si rifà un po’ a One Republic e Coldplay, sempre in italiano. Con Gli Spostati abbiamo ripreso quel suono un po’ latino con cui abbiamo iniziato, e ci ha fatto quindi piacere realizzarlo.

Un nuovo corso per il futuro quindi?
Stiamo lavorando a un nuovo disco che uscirà forse l’anno prossimo e c’è già l’idea per il prossimo singolo: si intitolerà DeLorean, come la celebre automobile, e il testo farà fare un tuffo nel passato. Tutto il progetto sarà elettropop, con filo di rock.
La storia dei REMIDA è partita ormai dieci anni fa: come hai visto cambiare il panorama musicale in questo periodo?
Quando abbiamo iniziato, l’indie era davvero indie e nasceva dalla volontà di proporre qualcosa di diverso. Oggi l’indie è quasi più pop del pop, non c’è più ricerca: per carità, nulla di male, tutti lavorano e lo fanno per ottenere risultati, ma è evidente che oggi gli artisti ragionano molto pensando più a quello che può piacere all’esterno più che a se stessi. Per sfondare pare che si debba per forza fare un talent, che altro non è che un karaoke amplificato in cui ti impongono pure l’inedito, gli uffici stampa sembrano decidere per te quali brani far uscire, la radio hanno pochissima libertà di movimento, insomma tutto è piuttosto standardizzato. Fino a sei, sette anni nel circuito underground si trovavano ancora artisti che proponevano cose diverse, oggi lo riesce a fare solo qualcuno che si fa strada attraverso il web: non mi riferisco però al web alla maniera di Benji e Fede, ma al lavoro di artisti come Calcutta, Ermal Meta, Marta sui tubi, tutto quel panorama che in questi anni s è mosso sul web e ha fatto sentire qualcosa di bello.
Mai nessuna tentazione di fare un talent?
Sarei ipocrita a dire di no: come tutti i treni, abbiamo provato a prendere anche quello, senza però concretizzare niente. Non voglio giustificare il fatto di non essere mai stati presi, ma non eravamo davvero convinti e quando ci veniva chiesto dove ci sentivamo più fuori luogo, la nostra risposta era “qui”, il che ci escludeva direttamente dai giochi. Probabilmente non siamo il prodotto più adatto per quel mondo, abbiamo idee molto chiare su quello che vogliamo e non vogliamo fare: anni fa, quando dovevamo fare le selezioni per X Factor, il nostro vecchio produttore ci ha chiesto se riuscivamo a immaginarci Ligabue che cantava cover di Ramazzotti. Ecco, quella riflessione mi ha fatto capire tanto.
Ma allora perché uno come Manuel Agnelli ha scelto di metterci la faccia come giudice?
Per lui c’è convenienza: prima ho fatto un po’ di demagogia, ma non escludo che se fossi al posto forse accetterei anch’io di partecipare. La mia critica è verso il sistema che regge quei programmi e probabilmente lui ha trovato il modo giusto per starci. D’altronde, nessuno fa questo mestiere per suonare in cantina, tutti vogliamo arrivare al maggior pubblico possibile. Inoltre, gli Afterhours sono partiti dall’underground, ma con gli anni sono diventati la band più popolare di quel settore, i più pop dell’indie, non sono certo diventati famosi con X Factor. Dopo più di vent’anni di attività, per loro può essere un modo di trovare professionalmente nuove strade.
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Con chi ti piacerebbe lavorare tra gli artisti italiani e stranieri?
Tra gli italiani sarebbe una bella lotta: soprattutto però, Ligabue ha una bellissima penna, è vero in quello che fa, e poi Cesare Cremonini, che ultimamente ci ha incantati. Poi, come dicevo, c’è tutta una serie di artisti che apprezziamo molto, da Calcutta ai Marta sui tubi, i Tre allegri ragazzi morti, I ministri… A livello internazionale, un nome su tutti è quello dei Coldplay.
Una curiosità: perché REMIDA?
È nato da un insieme di tre note di uno dei nostri primi pezzi, re, mi e do, ma suonava male, così abbiamo cambiato il finale è l’abbiamo scritto in maiuscolo e tutto attaccato, pensando che nessuno lo avrebbe ricollegato al personaggio mitologico, invece è la prima cosa che ci chiedono.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Domanda “marzulliana”, perché ribellione può voler dire tutto e nulla. Per me, vuol dire riuscire a tirar fuori la vera natura senza cadere negli estremismi, e vale in tutto, musica, politica, vita quotidiana. La ribellione, quella vera, richiede intelligenza: non serve mettersi a strillare per far sentire le proprie ragioni, ma la rivoluzione va portata nel silenzio. Purtroppo, è il contrario di quello che sta accadendo oggi, con tutta quella “cagnara” che c’è lì fuori a cominciare al mondo politico.

#MUSICANUOVA: Aftehours, Se io fossi il giudice

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“C’è una parte di subconscio nello scrivere che sfiora il sovrannaturale. Mi è capitato, in passato, di descrivere nelle canzoni situazioni totalmente inventate che poi ho vissuto davvero, esattamente come le avevo descritte. Ho scritto questo pezzo quasi due anni fa, ben prima che mi chiedessero di partecipare ad X Factor. Non parla dei talent, naturalmente (!), ma è uno dei tanti “segni” che in questo periodo mi stanno indicando la strada per poter cambiare una vita che non mi piaceva più. L’ho scritto quando è mancato mio padre. E’ un pezzo che parla di voglia di rinascere, cancellando l’idea che gli altri hanno di me ma soprattutto l’idea che ho io di me stesso. Dove la cosa più importante non è raggiungere una meta ma vivere. Liberi da tutto quello che ci impedisce di dirci la verità.”

Così Manuel Agnelli presenta il nuovo singolo dei suoi AfterhoursSe io fossi il giudice, terzo estratto da Folfiri o Folfox.