“143”, perché l’ultimo album di Katy Perry non funziona?

“143”, perché l’ultimo album di Katy Perry non funziona?

Nel momento in cui scrivo, 143, ultima fatica discografica di Katy Perry, non ha ancora fatto la sua comparsa nelle classifiche, ma le previsioni del debutto sono tutt’altro che rosee.

Diciamocelo però, un po’ lo sapevamo: o Katy tirava fuori l’album del millennio, capace di risollevarle la carriera, oppure il destino del disco era già segnato ancora prima della sua pubblicazione. Colpa, purtroppo, dei due precedenti album, Witness (2017) e Smile (2020), non esattamente campioni di vendite, che hanno appannato l’aura di invincibilità di cui la Perry si era circondata nei primi anni ’10, ai tempi di Teenage Dream (2010) e Prism (2013). Due album fortissimi, che le hanno fatto guadagnare record su record. Basti ricordare che grazie ai singoli estratti da Teenage Dream, Katy Perry è stata l’unica artista – al pari di Michael Jackson – ad aver piazzato 5 canzoni dello stesso album al vertice della classifica americana. E poi sono arrivati, Roar e Dark Horses, estratti da Prism, entrambi certificati diamante negli USA.

Insomma, fino a una decina di anni fa Katy Perry sembrava l’incarnazione terrena del pop, l’artista capace di mettere d’accordo tutti. Se Madonna iniziava a perdere appeal sul pubblico più giovane, Britney e Christina erano in una fase calante della carriera, Lady Gaga destabilizzava con i look eccessivi e le scelte musicali non sempre digeribilissime (vedi alla voce Artpop), Katy era tutto ciò che al pop si poteva chiedere: canzoni super catchy e immagine rassicurante.

Poi, dicevo, è arrivato Witness, e quel magico mondo fatto di colori pastello e suoni zuccherati ha perso il suo mordente. Peggio ancora è andata a Smile, tre anni più tardi. Si potrebbe star qui ad analizzare il perché di quella débâcle, ma sarebbe un esercizio inutile. Accontentiamoci di sapere che è andata così.

Lo scorso luglio, a distanza di 4 anni, Katy torna è tornata, e ovviamente la notizia del suo comeback ha fatto tremare i muri e nutrito le aspettative. Aspettative che si sono però afflosciate come un sufflè malriuscito non appena è stato pubblicato il singolo della nuova era discografica, Woman’s World. Una canzone mediocre e facilona, che oggi troverebbe forse la sua giusta collocazione nel disco di qualche emergente. Invece è stato il brano di punta per il lancio del nuovo progetto. Catastrofe…
Troppo scontato, troppo semplice, troppo sfacciatamente ruffiano; e non è bastato neanche il messaggio femminista, davvero troppo annacquato per il mercato discografico del 2024.

La scelta di pubblicare in fretta e furia un secondo singolo (Lifetimes) e poi un terzo (I’m His, He is Mine) in poco più di un mese è stata la famosa pezza che ha fatto più danni del buco.
Troppo evidente la necessità di correre ai ripari, ma niente da fare, i due brani sono passati praticamente inosservati.

Restava da sperare che il resto fosse migliore.

Ora che l’album è uscito, possiamo tirare le somme, e capire perché poteva essere – e probabilmente sarà – un altro flop.

Molto semplicemente, 143 è un disco anonimo e superficiale. Un album che sembra essere rimasto fermo al 2013: forse per non correre rischi, Katy Perry ha scelto di riproporre le stessa ricetta che l’ha portata alla gloria. Peccato che siano passati più di 10 anni da allora, e che le cose siano cambiate un po’.
Prima di tutto, ci si augura che il pubblico che seguiva Katy anni fa sia cresciuto insieme a lei, e oggi si aspetti qualcosa di più maturo. E poi in questi anni il mondo del pop è stato rivoluzionato: solo per restare nell’universo femminile, sono arrivate creature come Billie Eilish e Taylor Swift (che nel 2013 esisteva già, ma era pressochè “confinata” al country) che ci hanno mostrato che si può essere pop e mainstream senza puntare tutto sulla semplicità. Non che loro siano state innovative in questo, ma sicuramente hanno abituato il pubblico di oggi a un ascolto diverso.

Presentato come un disco celebrativo dell’amore fin dal titolo – 143 sarebbe una forma in codice di “I love you”, sai che roba… – il settimo lavoro di Katy Perry si rivela essere una raccolta di pezzi buoni per ballare una sera, può essere la colonna sonora di un pigiama party, ma non è, oggi, quello che ci si aspetta da un nome del suo calibro.

I suoni pescano a pienissime mani dalla dance degli anni ’90 (I’m His, He’s Mine contiene anche un sample di Gypsy Woman, successo house del 1991), e questo poteva essere un buonissimo fil rouge. Ma oltre c’è ben poco di scoprire.

La sensazione è Katy Perry si sia fatta contagiare dalla sindrome di Peter Pan, e sia rimasta incagliata in una sorta di eterna giovinezza, convinta che dare ai fan un nuovo carico di canzoni-confetto sarebbe bastato ad accendere il loro entusiasmo come in passato. Ma così non è stato.

Quello che è mancato è stato prima di tutto la voglia di cambiare, evolversi, far vedere di essere altro rispetto a quello che tutti già conoscevano; e poi è mancato il coraggio di alzare la famosa asticella.

Intendiamoci, non tutto quello che è in 143 è da cestinare: Crush per esempio è un buon pezzo, ed è uno dei pochi che si fanno ricordare (anche qui c’è stata una ripresa dal passato, da My Heart Goes Boom). Così come non sono male Nirvana e Wonder. Ma tre pezzi passabili non sono abbastanza a fare un buon disco.

Infine, una considerazione a margine: tra le critiche mosse all’album vi sono state anche quelle di chi ha biasimato la scelta della Perry di lavorare con Dr. Luke, figura assai controversa nel musicbiz per via della vicenda processuale che lo ha visto coinvolto dopo le accuse mosse da Kesha.
Senza entrare nel merito della questione, sono abbastanza sicuro che il tallone d’Achille del disco abbia ben poco a che spartire con la condotta morale di Dr.Luke.

143 è un disco mediocre, punto e basta.

Cinque canzoni (più una) per ricordare Sinéad O’Connor a un anno dalla morte

Cinque canzoni (più una) per ricordare Sinéad O’Connor a un anno dalla morte

Il 26 luglio2023 ci lasciava improvvisamente Sinéad O’Connor.

Interprete, autrice, musicista, nonostante difficili vicende personali e una carriera non sempre fortunatissima, la sua indole ribelle e la sua voce chiarissima l’hanno resa una delle icone degli anni ’90. La sua fama è legata soprattutto a Nothing Compares 2 U, ma la sua discografia è colma di episodi non meno preziosi, che meritano di essere riscoperti.

Sfogliando tra i suoi album, ne proponiamo cinque (+1 bonus):

1 – Troy, dall’album “The Lion and the Cobra”. Il suo primo singolo. Epico, drammatico, incandescente. Si parla della fine di un amore, una preghiera che volge in dichiarazione di guerra. 6 minuti e mezzo attraversati da una tensione compatta. La voce di O’Connor splende, il suo canto è limpidissimo e violento allo stesso tempo.

2 – The Emperor’s New Clothes, dall’album “I Do Not Want What I Haven’t Got”. Siamo al secondo album, quello che ha dato a O’Connor la grande notorietà. Nel brano manifesta insofferenza verso le pressioni da parte del pubblico e non nasconde i timori per come potrebbe cambiare la sua vita. A posteriori, una profezia.

3 – Why Don’t You Do Right?, dall’album “Am I Not Your Girl?”. Ormai interprete pop-rock affermata, al terzo disco O’Connor compie una virata e propone una raccolta di cover in chiave jazz, tra cui questa. Il disco è tra i meno conosciuti della sua discografia, ma resta la testimonianza di un’artista che non ha mai avuto paura di lasciare la strada già tracciata.

4 – No Man’s Woman, dall’album “Faith & Courage”. È il singolo di lancio del quinto album, pubblicato dopo alcuni anni di silenzio. O’Connor si presenta come una combattente fiera e indipendente, e il rock è la sua arma.

5 – Take Me to Church, dall’album “I’m not Bossy, I’m the Boss”. Arriviamo all’ultimo disco, pubblicato nel 2014. Il brano è un flusso di coscienza ininterrotto e impetuoso, un fiume di parole che sembrano voler cancellare il passato, alla ricerca di redenzione e perdono. Da qualche anno la sua voce è più increspata di un tempo, ma le sue corde emotive sono sempre tesissime.

Bonus: Special Cases. Un brano dei Massive Attack a cui Sinéad ha prestato la voce. Anno 2003; il gruppo inglese pubbica l’album “100th Window” e sceglie questo brano come singolo di punta. Ci troviamo nei territori del trip-hop e la voce di O’Connor è il velluto perfetto per rivestire quelle atmosfere oscure.

“The Miseducation of Lauryn Hill” è il miglior album di tutti i tempi secondo Apple Music

“The Miseducation of Lauryn Hill” è il miglior album di tutti i tempi secondo Apple Music

I 100 migliori album di Apple Music è la classifica dei più grandi dischi mai realizzati nel XXI secolo, stilata dal team di esperti di Apple Music insieme a un gruppo selezionato di artisti, cantautori, produttori e professionisti del settore.

L’elenco è una selezione editoriale, del tutto indipendente da qualsiasi numero di streaming su Apple Music: una dichiarazione d’amore ai dischi che hanno plasmato il mondo di chi ama la musica.

A partire dal 13 maggio scorso, Apple Music ha progressivamente svelato le posizioni della classifica, fino ad arrivare a svelare la top 10 il 22 maggio, con l’incoronazione di The Miseducation of Lauryn Hill al primo posto.

Per festeggiare, Zane Lowe e Ebro Darden di Apple Music si sono seduti con il leggendario produttore discografico, scrittore e interprete Nile Rodgers e con l’artista e produttrice nominata ai Grammy, Maggie Rogers, per riflettere sulla lista durante una speciale tavola rotonda trasmessa su Apple Music.

Dopo aver ricevuto la notizia, Lauryn Hill ha dichiarato ad Apple Music: “Questo è il mio premio, ma è un racconto ricco e profondo, che coinvolge tante persone, tanti sacrifici, tanto tempo e tanto amore collettivo”.

Di seguito l’intera top 10.

1. The Miseducation of Lauryn Hill (1998), Lauryn Hill

Il primo – e unico – album in studio da solista di Lauryn Hill è stato un terremoto nel 1998: uno sguardo incredibilmente crudo e profondo nel paesaggio spirituale non solo di una delle più grandi star dell’epoca, ma dell’epoca stessa. Era, e rimane, un talento unico nel suo genere, la cui ispirazione e innovazione può essere ascoltata attraverso i decenni. Gli artisti elaborano lunghe discografie sperando di realizzare un’opera coesiva abbastanza risonante da rimodellare la cultura e iscrivere il proprio autore nel pantheon della musica; Lauryn Hill l’ha fatto in una sola volta.

2. Thriller (1982), Michael Jackson

Ci sono pochi album pop, o addirittura opere d’arte, che denotano un cambiamento totale nel tempo e nello spazio come Thriller di Michael Jackson nel 1982. Non ha fatto altro che definire il moderno blockbuster pop e ridefinire l’ambito e la diffusione della musica. Sette dei nove brani originali sono entrati nella top 10 dei singoli e l’album è diventato uno dei più venduti di sempre.

3. Abbey Road (1969), The Beatles

Abbey Road dei Beatles è una raccolta di canzoni senza età e senza eguali di una band che ha cambiato il mondo al suo apice creativo. L’undicesimo e penultimo album della band rappresenta niente di più e niente di meno che quattro esseri umani estremamente dotati che suonano insieme una canzone indelebile dopo l’altra nella stessa stanza.

4. Purple Rain (1984), Prince & The Revolution

Con metà della sua tracklist composta da singoli da top 10, questa colonna sonora è ciò che ha veramente trasformato Prince Rogers Nelson in uno degli artisti pop più facilmente riconoscibili e distintivi di sempre. Prince è stato spesso paragonato a Jimi Hendrix per il modo in cui mescolava musica bianca e nera, sacra e profana. La realtà è che non aveva precedenti allora e non ha paragoni oggi.

5. Blonde (2016), Frank Ocean

Sebbene Blonde racchiuda 17 brani in un’ora scarsa, si tratta di una palette di idee molto vasta, che testimonia l’intelligenza di sventolare la propria bandiera artistica e di confidare nel fatto che il pubblico saprà accoglierla. E così è stato. E Ocean si è affermato come un artista generazionale particolarmente adatto alle complessità e ai cambiamenti convulsi del secondo decennio del XXI secolo.

6. Songs in the Key of Life (1976), Stevie Wonder

Nel 1974, Stevie Wonder era la popstar più apprezzata dalla critica mondiale, ma stava anche pensando di abbandonare del tutto l’industria musicale. Così, quando due anni dopo uscì Songs in the Key of Life, la risposta fu talmente ampia che divenne, all’epoca, l’album venduto più velocemente nella storia. L’album, che dura quasi 90 minuti, è melodico senza sforzo, di ampio respiro e profondamente personale. Dal punto di vista sonoro, culturale ed emotivo, Songs in the Key of Life è molto più di una gigantesca raccolta di canzoni: rappresenta un’autentica visione del mondo.

7. good kid, m.A.A.d city (2012), Kendrick Lamar

Il secondo album di Kendrick Lamar, good Kid, M.A.A.D. City, è uno dei dischi hip-hop più importanti del 21° secolo. Gli storici dell’hip-hop della West Coast, come Snoop Dogg e Dr. Dre, hanno consacrato Lamar per portare avanti l’eredità del gangsta rap, e l’eredità di questo album è un esempio cruciale di narrazione americana che ha affermato il futuro vincitore del Premio Pulitzer come forse il più abile scrittore della sua generazione.

8. Back to Black (2006), Amy Winehouse

La voce ultraterrena e senza tempo di Amy Winehouse rende la sua musica diversa, non tanto in un tentativo di ricreare il passato, quanto di onorare la musica che amava pur rimanendo fedele alla figura trash-talking e autoironica che era. Il suono di Back to Black potrebbe piacere ai fan del retro-soul e ai classicisti del jazz, ma l’attitudine è più vicino al rap. Sì, era divertente. Ma non scherzava affatto.

9. Nevermind (1991), Nirvana

Nevermind e la traccia di apertura Smells Like Teen Spirit non segnarono solo un’improbabile svolta per il trio di Seattle, ma sconvolsero la cultura popolare in modi mai visti prima e da allora. Il punk è diventato pop, il grunge si è diffuso in tutto il mondo, i muri dell’industria sono andati in frantumi e il cantante Kurt Cobain è stato consacrato come voce riluttante di una generazione bisognosa di espiazione, il tutto apparentemente da un giorno all’altro.

10. Lemonade (2016), Beyoncé

Il sesto album di Beyoncé, che ha stravolto il concetto di genere: è furioso, sfidante, angoscioso, vulnerabile, sperimentale, muscolare, trionfante, umoristico e coraggioso: una vivida dichiarazione personale, rilasciata senza preavviso in un momento di pubblico scrutinio e di sofferenza privata. Ogni secondo di Lemonade merita di essere studiato e celebrato.

L’elenco completo dei 100 album è disponibile qui.

Amalfitano e Francesco Bianconi: bruciare d’amore. Anzi, di fosforo

Amalfitano e Francesco Bianconi: bruciare d’amore. Anzi, di fosforo

 

Hai mai provato l’effetto fosforo?
Io l’ho sperimentato diverse volte, sempre con le canzoni, ma magari tu lo hai provato con un film, o con un quadro. Con il tempo ho anche imparato a riconoscerlo da subito.
Non sapendo come definirlo, lo chiamerò “effetto fosforo”, e ti spiego anche il perchè.

Succede così: sento una canzone per la prima volta e penso “bah…”. Cioè, non è che non mi piaccia proprio, ma tutto sommato mi lascia indifferente. Anzi no, non è esattamente indifferenza, è più un “sì, carina, ma nulla di che”.

Poi, dopo qualche giorno, o la riascolto per caso o mi si ripresenta in testa da sola, ed è lì che si innesca “l’effetto fosforo“. Perchè inizio a capire che in quella canzone c’è qualcosa di magnetico, qualcosa che non so spiegare: forse è nel giro melodico, forse nel canto, forse in uno strumento, ogni volta può cambiare, e mi accorgo che quel brano lo voglio riascoltare, e ancora, e poi ancora, a loop, anche per giorni, fino a quando mi si pianta in testa e capisco che sarà amore. Anzi, lo è già.

Negli anni questa cosa mi è capitata diverse volte: andando a memoria, con “That don’t impress me much” di Shania Twain, “Bruci la città” di Irene Grandi, “Stand inside your love” degli Smashing Pumpkins, ma persino con “Poker face” di Lady Gaga.
Ogni volta sono farfalle nello stomaco.

Ovvio che col passare del tempo l’entusiasmo si ridimensiona, ma il bello sta proprio in quei primi momenti in cui capisci che da un “meh..” stai passando a un “WOW!!”

Come dicevo, con il tempo ho imparato a capire subito quando una canzone mi provocherà ‘l’effetto fosforo”. Ed è proprio quello che è successo in questi giorni – appunto – con “Fosforo” di Amalfitano e Francesco Bianconi.

L’ho sentita giorni fa, non mi ha colpito, ma sapevo che lo avrebbe fatto, e così è stato. Ci ha messo quasi una settimana, ma poi è esplosa come un’atomica, e lo ha fatto senza che forzassi nulla.

È entrata a gomitate nel cervello, e ancora adesso sta ferma lì. Anzi, non sta ferma per nulla, gira vorticosamente!
“Fosforo” è un brano matto, disgraziato, di quelli che ti fanno ridere e gridare.
“Tienimi la mano diva / che mi balla lo sguardo”, un incipit che sa di moderna saga epica. Una suggestione abbagliante che dura giusto il tempo di un lampo, prima che si inneschi la detonazione sonora: percussioni, chitarre, basso, persino archi. Tutto freme, arde, si scalda, brucia.
Il giro armonico è una giostra selvaggia, le note crescono e si scaldano mano a mano, mentre sotto scalpita e si agita una commistione salmastra di sensualità ustionante e disperazione d’amore.
Perché “Fosforo” è anche la più folle canzone d’amore uscita negli ultimi anni. Anzi, “Fosforo” è soprattutto una canzone d’amore.

Io l’amore non potrei immaginarlo diversamente, un’onda incandescente che ti arriva addosso “e mi prende la testa e scende giù nel cuore / e poi risale come di rimbalzo e mi fa lacrimare”.

Che sia anche questo l’effetto fosforo?

“IL CIELO NON È UN LIMITE”, parola di MYSS KETA

A TUTTI I PILOTI ALL’ASCOLTO
CHE BRAMANO IL CIELO
QUELLO CHE APPARE COME UN LIMITE
DISPIEGA INVECE L’INFINITO
SIAMO ATOMI


Un’introduzione che è un vero manifesto, un invito alle menti più aperte e visionarie per gettare il cuore oltre l’ostacolo, per ricominciare a sognare e creare nuovi immaginari, e costruire nuove utopie. Si apre così IL CIELO NON È UN LIMITE, nuovissimo EP di M¥SS KETA, concepito e realizzato nei mesi travagliati dell’epidemia.
Anticipato dai singoli GIOVANNA HARDCORE e DUE, il nuovo progetto raccoglie sette tracce nuove di zecca prodotte da RIVA, con interventi di Populous e Unusual Magic.

Con l’elemento aria al centro di tutto – contraltare dell’acqua di CARPACCIO GHIACCIATO, l’iconico EP del 2017 – IL CIELO NON È UN LIMITE nasce da un’immagine: un aereo nel cielo, solitario e libero, forte e indomato. Un cielo a prima vista limitato, incorniciato, ma nel quale si spalancano illimitati spazi interiori, cieli interiori metafora di una perenne tensione a conquistare l’impossibile.
Il cielo non ha limite. Il cielo non è un limite.

Ogni traccia dell’EP è stata accompagnata da visual visionari che ci catapultano nell’immaginario di M¥SS.

È prima di tutto M¥SS KETA che non si dà limiti, sperimentando suoni sferzanti come le folate ad alta quota, quasi glaciali, con deviazioni a volte repentine come i cambi di direzione di un jet. M¥SS canta in inglese, in tedesco, in greco antico, per dare voce ai pensieri interiori di molteplici doppelganger.
L’estatica ed eretica GIOVANNA HARDCORE, reincarnazione in chiave Mad Max della pulzella d’Orleans, evoca un incantesimo ancestrale ripetuto come un mantra, su un beat minimal spezzato da accelerazioni jungle.
La mistress felina di GMBH è un beat deep house alla moda di Chicago.
La moderna dea DIANA, in compagnia di Priestess, si ritrova a capo di una Magna Grecia futurista dalle atmosfere morbide e sognanti, disegnate dal maestro Populous.
La rider post apocalittica che sfreccia fra le vie dell’inferno in RIDER BITCH, sfogo electroclash ispirato al videogioco Wipeout 2097, una traccia che vede la co-produzione di Unusual Magic e il cameo di Lilly Meraviglia.
Ma quello raccontato da M¥SS è anche un mondo che ha portato all’estremo l’ossessione per l’immagine sintetica, in cui le funzioni di Photoshop diventano ordini, come in PHOTOSHOCK, tra richiami house anni ’90 e synth-wave anni’80.
Un mondo compromesso dalla saturazione post-capitalista che esplode in DUE, delirio electropop disegnato sul beat di Two Times di Ann Lee.

L’uscita dell’EP è stata preceduta da una speciale performance all’ultimo pian della Torre Galfa di Milano, nel punto più alto in cui la metropoli che ha visto la nascita di M¥SS incontra il cielo.

Elogio a The Fashionable Lampoon

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Chi si è già imbattuto tra le pagine web di BitsRebel sa che questo è un blog dedicato soprattutto alla musica, ma che ogni tanto lascia spazio anche ad altro, soprattutto se questo “altro” ha in sé un’indole ribelle, in uno dei mille modi in cui una cosa può essere ribelle.

Era da un po’ di tempo che mi frullava in testa l’idea di scrivere un pezzo su The Fashionable Lampoon, e volevo farlo adesso, a febbraio, perché febbraio è – insieme a settembre – il mese delle sfilate femminili, ovvero uno dei due mesi cruciali per l’editoria del fashion, e qui proprio di fashion si sta parlando. E poi perché a febbraio 2017 cade il secondo anniversario di Lampoon.

Ma cos’è The Fashionable Lampoon? Se ve lo state domandando significa che in questi due anni non lo avete mai letto e guardato, il che è un vero peccato, perché si tratta di una delle realtà editoriali più interessanti che siano emerse nell’ultimo periodo. Una realtà, per giunta, totalmente italiana, pensata e nata in Italia, ma con un occhio che sa guardare non solo oltre le Alpi, ma anche oltre l’Oceano.
Sarà forse per questo, o forse per il titolo, che spesso nelle edicole trovate Lampoon sistemato tra i magazine stranieri. Fatto sta che finalmente possiamo essere orgogliosi di avere una rivista di moda concepita in Italia e che non ha nulla da invidiare ai fighissimi magazine d’importazione.

L’avventura di The Fashionable Lampoon è iniziata nel febbraio 2015, quando – dopo una martellante campagna di manifesti disseminati per le strade – è stato pubblicato il primo numero. Dietro all’idea del progetto, come era spiegato molto bene nel primo edtoriale, vi erano le menti di Carlo Mazzoni, scrittore e direttore di L’Officiel Italia tra il 2012 e il 2014, e Roberta Ruiu, forse nota ai più come ex componente delle Lollipop, quelle di Down Down Down e Batte forte. Lui ha portato l’esperienza editoriale, lei l’occhio sveglio del pop. Tutto partiva da un’estate che stava volgendo al termine: in riva al mare, chiacchierando di amori naufragati, Carlo e Roberta hanno lanciato il seme di quello che pochi mesi dopo si sarebbe concretizzato in Lampoon.
La parola è stata presa in prestito da The Harvard Lampoon, giornalino a carattere satirico curato dagli studenti della celebre Università americana. È proprio con questo spirito è nato The Fashionable Lampoon, un magazine che avrebbe dovuto trattare la moda con leggerezza, quasi satiricamente, quasi sdrammatizzandola – attenzione, sdrammatizzandola, non ridicolizzandola -, togliendole quell’aura di serietà con cui spesso viene descritta e disegnata da giornalisti, esperti e stilisti stessi.

E così è stato. Come titolo del primo numero è stato scelto Snob & Pop, che poi è diventato il mantra delle uscite successive: quello cioè di affiancare e mescolare eleganza e raffinatezza con l’anima pop e glitterata dello stile. Chi avrebbe comprato il primo numero, ci avrebbe trovato in copertina l’incarnazione di questo messaggio, vale a dire la nobiltà di lunga tradizione della principessa Elisabeth con Thurn und Taxis e il pop modaiolo di Chiara Ferragni, la superblogger italiana che senza blasoni si è guadagnata la notorietà internazionale tra il popolo del fashion.
Sulle uscite successive sarebbero comparsi John Kortajarena insieme a Luca Argentero, Amanda Lear con Eva Riccobono, Baptiste Giabiconi con Emma Marrone, Isabella Ferrari con Valeria Mazza.
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Questo è Lampoon, un giornale che gioca sulle tendenze, mescola le carte, azzarda proposte. Un magazine a mosaico, frammentato nei contenuti ma anche concretamente, dal momento che le sue pagine sono stampate su differenti tipi di carta. Molto interessanti a questo proposito i dettagli delle stampe proposte di volta in volta da alcuni nomi della moda.
Testi brevi, in italiano e inglese, in cui i protagonisti vengono raccontati nell’essenziale e in modo vivo.
Un ruolo essenziale è naturalmente giocato anche dalle immagini, (bellissimi) servizi fotografici che vedono protagonisti personaggi della moda (ovviamente), ma anche dello spettacolo e dell’arte, e capita così di trovare in uno stesso numero – o in uno stesso servizio – leggende della danza, del teatro, del cinema, della televisione e della musica, in un caos solo apparente che dà vita a uno spettacolo di idee. Tanto per fare un esempio, cito il servizio firmato da Michael Avedon per la issue di settembre 2016, in cui comparivano Benedetta Barzini, Gillo Dorfles, Arrigo Cipriani, Franca Valeri, Franco Nero, Carla Fracci, Gianni Canova, Lina Solis Italo Rita, Nero, Bruna Vespa, alcuni sporcati di glitter. Questa è la leggerezza di Lampoon, il suo essere giocosamente ribelle per parlare di un mondo inarrivabile ai più, scomodando geni e tronisti, dive e veline. Cultura impegnata e cultura pop sottobraccio una dell’altra, bellezza e fashion presentati non con occhio staccato da maestri, ma complice.

Per la pubblicazione del secondo numero, a settembre 2015, sotto l’egida di Lampoon è anche stato messo sul mercato un brano musicale, Keep On Shining, realizzato dai Lampooners – ovvero le anime del magazine, tra cui Fiammetta Cicogna e Paolo Stella – insieme a Esther Oluloro, conosciuta in TV per la partecipazione a The Voice. Si parlava di splendere, dentro più che fuori, ognuno a modo a suo. Ecco, sfogliando le pagine di Lampoon, tra una ricercata e costosissima selezione di outifit, accessori, cosmetici e profumi, il messaggio che si coglie sembra proprio quello. Perché se la moda non è democratica la bellezza fortunatamente sì.

La parola d’ordine scelta per l’uscita di febbraio 2017 è Aristofunk, allo scopo di celebrare l’unica aristocrazia ancora ammissibile nel nostro tempo, quella del talento. E se non è democratico il talento……

Smeraldi a colazione, la vita secondo Marta Marzotto

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“Ecco Marta Marzotto, che di mestiere fa la simpatica”.
Così una volta Aldo Busi presentò al pubblico la contessa più famosa d’Italia. Oddio, ho detto contessa, ma Marta Marzotto di quel titolo se n’è sempre fatta poco, lo ha ricevuto per aver sposato il conte Umberto Marzotto, ma poi si è slegata da tutti i vincoli di forma che di solito si addicono a conti, marchesi e varia nobiltà.Marta Marzotto ha semplicemente vissuto, più che forte che ha potuto, prendendo la vita – mi si consenta l’espressione – per le palle, per averne indietro il meglio. Sì, doveva anche essere una “simpatica di professione”, con addosso una simpatia che non si impara da nessuna parte se non ogni giorno, nella quotidianità.

Mondina, modella, stilista, regina dei salotti, gran maestra di diplomazia, filantropa, la Marta nazionale è nata a Scandiano, nella bassa reggiana, da un casellante delle ferrovie e una mondina e all’anagrafe faceva Vacondio, un cognome di cui andava estremamente orgogliosa, nonostante in famiglia la situazione non fosse particolarmente rosea.
Lo scintillio e il glamour che tutta Italia (e non solo) ha conosciuto sono rrivati dopo, e con loro è arrivata quella sfilza impressionante di esperienze mondane e di conoscenze molto ben raccontate in Smeraldi a colazione. Le mie sette vite, autobiografia stesa insieme alla giornalista Laura Laurenzi e pubblicata pochi mesi prima della morte di Marta.
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Politici di ogni colore, porporati, artisti, sovrani, regine, capi di stato e dittatori, personalità dello spettacolo, sono pochi quelli che hanno saputo restare indifferenti all’aura magnetica che circondava la Marzotto, quasi tutti invece, anche i più potenti, ne venivano attratti, contagiati dalla sua forza vitale, da quella sua innata capacità di essere a suo agio con chiunque. 
Ecco allora i salotti, di cui era incontrastata regina, i più invidiati della città, anzi d’Italia.
E poi i viaggi, tanti, bellissimi, da sogno.
E l’amore, ovviamente. Su tutti, quello per Guttuso, raccontato a lungo in ogni fase, dalla passione alla rabbia per non poter essere vissuto, perché in mezzo c’erano i poteri forti, la politica e la chiesa. Una storia d’altri tempi, di quelle che sembrano esistere solo nelle telenovela, e che proprio come una telenovela si svolse sotto gli occhi e le bocche di tutta Italia.
Ma nella sua biografia, la Marzotto non risparmia neanche il dolore, quello più cieco, per la morte della figlia Annalisa nel 1989 per fibrosi cistica, un evento che Marta ha saputo trasformare in una nuova speranza di vita attraverso campagne di beneficenza per la ricerca e attraverso la promozione di attività filantropiche e di mecenatismo, un modo per dare un senso a quella perdita così tragica e innaturale.
Stupende e commoventi le pagine dell’epilogo, con un imperativo lasciato in eredità ai figli e agli amati nipoti, Non dimenticarti mai di sognare.
Ecco, è questo che più di ogni altra cosa mi sento di invidiare a Marta Marzotto: la sua tenacia nel continuare a sognare, fortissimamente, e la sua innata e inspiegabile capacità di rendersi costantemente amica la vita. Attraverso i suoi occhi, sembra così facile.

Ivan Nossa: un libro per riscoprire il potere della gratitudine

La nuova vita di Ivan Nossa è iniziata dopo la lettura di The Secret, il famoso bestseller internazionale in cui si approfondiva la cosiddetta “Legge dell’Attrazione”, secondo cui noi siamo in grado di attrarre o respingere le persone e attrarre il favore degli eventi in base alle nostre vibrazioni.
Era il 2014 e all’epoca Ivan era un imprenditore che gestiva una scuola di lingue.
Fu una lettura casuale, avvenuta grazie al regalo di una collega. Incuriosito, Ivan si è presto ritrovato travolto da quelle pagine e ha riconosciuto nella Legge dell’Attrazione un elemento che già faceva inconsapevolmente parte della sua vita. 
Dal libro è quindi passato alla visione del film-documentario che è stato dedicato a The Secret, durante il quale è rimasto folgorato da Joe Vitale, uno degli esperti che hanno fornito il loro contributo.
Nossa ha sempre scritto, per passione e per hobby, senza però mai pensare che potesse diventare una cosa seria. Ma dopo la “conoscenza” con Vitale qualcosa in lui si è smosso. “Io scriverò un libro con Joe Vitale”, ha iniziato a dire: lui, che non ha mai scritto un libro, e Joe, che ha venduto milioni di copie nel mondo.
Ha iniziato a seguire i corsi online di Joe Vitale, ha studiato tutto quello che riguarda la Legge dell’Attrazione, conseguendo attestati internazionali.
Ha eliminato i dubbi e le paure finché… un giorno tra le varie email di Joe ne era arrivata una che non ha cancellato. Solo dopo una decina di giorni decide di leggerla: Joe cercava coautori per un nuovo libro intitolato The Midas Touch.
Ivan ci ha pensato un po’ e poi ha inviato le sue pagine: il suo capitolo parlava di gratitudine, ed è piaciuto.
Nel giro di sei mesi si è visto recapitare a casa le copie del libro scritto con Joe Vitale, presto diventato best seller in America.

Forte di questo risultato, si è messo in testa di trovare un editore per la versione italiana e per un nuovo libro scritto nel frattempo, perché, ripeteva tra sé, “La Legge funziona e io mi fido”.
Una domenica, a mezzanotte, dopo aver selezionato una serie di siti di editori italiani, ne ha scelto uno e ha inviato la sua proposta: in meno di 24 ore ha concluso l’accordo per la pubblicazione di entrambi i libri. L’editore era Uno e il libro era Il tocco di Re Mida: Trasforma in Oro tutto ciò che tocchi.
Adesso è tempo di un nuovo capitolo, un libro interamente scritto da lui, ma su cui Vitale ha posato la sua “benedizione”: il fulcro è la gratitudine, un sentimento molto più complesso e sottovalutato di quanto si possa pensare.
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Il Potere e la Magia della Gratitudine – questo il titolo – accompagna il lettore a sperimentare la gratitudine quotidianamente, seguendo riflessioni ed esperienze vissute direttamente dal’autore: “Grazie a questo libro vi condurrò alla scoperta di una vibrazione più alta. Una delle più alte a oggi conosciute, la vibrazione della gratitudine. Un viaggio che ho compiuto anch’io durante la stesura di questo testo avvenuta intuitivamente e in breve tempo, senza quasi che me ne rendessi conto. Io ho fatto della gratitudine una caratteristica fondamentale di ogni momento della mia vita, riuscendo a trasformare radicalmente la mia visione dell’universo, il mio approccio alla vita e di conseguenza il mondo intero”.
Mettendo in pratica la gratitudine la vita cambia in meglio. Non si tratta di indossare occhiali “dalle lenti rosa”, ma di vivere un cambio di prospettiva che concretamente trasforma la vita, perché “la gratitudine è romanticamente magica ma anche estremamente potente”.
La storia di Ivan Nossa lo dimostra.
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Marc Jacobs mette in mostra la bellezza “alternativa”


È un’autentica sfilata di bellezza freak quella proposta da Marc Jacobs per la campagna pubblicitaria autunno/inverno 2016.


Per promuovere la sua ultima collezione, il designer statunitense ha pensato a un vero e proprio videoclip di celebrità che in un’atmosfera alquanto gotica e dardeggiante mettono in mostra una bellezza, diciamo così, “alternativa”. Diretto dall’ultra blasonato Hype Williams, il video è ambientato in uno scenario oscuro, illuminato dalle sole luci ipnotiche di alcuni neon, mentre sullo schermo si avvicendano sinistre apparizioni di personaggi del calibro di Marilyn Manzon, Courtney Love, Missy Elliot, St. Vincent, Cara Delevingne, Susan Sarandon. E, perché no, anche lo stesso Jacobs.

La colonna sonora è invece affidata a Love Honey, Love Heartache dei Man Friday.

Harley Quinn, diventiamo amici?

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Quando ho avuto l’occasione di andare a vedere l’anteprima di Suicide Squad, non avevo quasi idea di cosa si trattasse: era l’inizio di agosto e una serata al cinema diversa dal solito mi è sembrato un buon sollievo per sopportare gli ultimi giorni di afa milanese in una città semi deserta.

Sono andato quasi convinto che non ci avrei capito niente e che avrei passato due ore abbondanti in estenuante attesa dei titoli di coda. Il mondo dei supereroi mi era (e continua a essere) un territorio sconosciuto, così come tutte le questioni di rivalità tra la DC Comics e la Marvel, che ho poi scoperto aver unito le forze per dar vita a progetti mastodontici come questo. Roba che invece i fan “veri” si accapigliano da anni sui vari blog dedicati.
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Ebbene, mi son dovuto ricredere, ma proprio alla grande! Quello che i miei occhi profani si sono trovati davanti è stato un vero spettacolo, tutt’altro che un polpettone da nerd.
Ho letto che critica e pubblico non hanno apprezzato molto la pellicola: io l’ho trovata fantastica, forse proprio per essere estraneo e inesperto di tutti i precedenti.
La storia gira tutta intorno a un gruppo “cattivoni” metaumani che vengono assoldati dal governo per far fronte a una terribile minaccia che potrebbe mettere in pericolo l’intera umanità. La Terza guerra mondiale, insomma. Il finale beh, un tantino retorico e scontato, ma la visione merita senza alcun dubbio.

Cast da capogiro, a cominciare da Will Smith nei panni del super tiratore Deadshot, uno straordinario Jared Leto che interpreta un Joker più che mai allucinato e su di giri (a guardarlo bene mi ha ricordato il Marilyn Manson di alcuni anni fa, forse per la dentatura dorata), una severissima Viola Davis (va beh, qui si vola proprio in alto) nelle vesti di Amanda Waller, l’onnipotente capa del servizio segreto a capo dell’operazione. Una specie di Dio tecnologico.

Poi c’è Cara Delevingne nella doppia interpretazione dell’archeologa June Moone e dell’Incantratice, una sorta di strega proveniente direttamente dalle caverne delle civiltà precolombiane, la grande nemica da sconfiggere: bellissima, ammaliante, solforosa, senza cuore in tutti i sensi. Beh, finalmente riesco a dare utilità alla signorina Delevingne, che prima di Suicide Squad per me era solo la ragazzaccia con il dito tatuato e il viso imbronciato sui cartelloni pubblicitari della Tag Heuer. Merito la forca per questa mancanza?
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E infine lei, la ragazza che si è conquista fin dal primo fotogramma la mia simpatia, Harley Quinn, la fidanzatina di Joker, con il volto e il corpo mozzafiato di Margot Robbie. Una vera mattacchiona scatenata, armata di mazza e martellone, pazza al limite dell’isteria e divisa tra l’amore per il suo puddy e il suo compito all’interno della squadra speciale. Non esagero se dico che da solo, il personaggio di Harley Quinn vale più della metà del biglietto.
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A dare ancora più sapore al sugo di Suicide Squad, la colonna sonora, che spazia da classici di Eminem, Queen (Bohemian Rhapsody rivisitata dai Panic! At The Disco) e White Stripes a pezzi nuovissimi firmati, tra gli altri, da Skrillex, Grimes e Twenty One Pilots. Abbinamento assolutamente vincente.

In meno di un mese e a dispetto di tutte le critiche, Suicide Squad ha guadagnato una cifra schifosamente alta, che lo candida a diventare uno dei film più visti dell’anno, come era stato previsto. Se voi siete tra i pochi a non essere ancora andati a vederlo, e soprattutto se siete tra quelli che non avevano considerato l’idea di farlo, beh, fatelo, anche se il mondo dei supereroi vi pare tanto lontano. Potreste ricredervi e potreste addirittura uscire dalla sala con la voglia di tornare a vederlo, come è successo a me.

E poi, dopo la visione, andremo tutti a farci una pizza con la nostra nuova amica, la pazza, pazza, pazza Harley Quinn.