Caro Ed Sheeran, scusa, ma io non ti capisco

Faccio una grande premessa: non ce l’ho con Ed Sheeran. Non ne avrei davvero motivo. Anzi, il ragazzo mi sta anche simpatico, perché non ha mai fatto casino, non si è concesso alle lusinghe del gossip, non ha mai detto una parola fuori posto e si è sempre concentrato sulla musica. Anzi, se non fossero gli altri a parlare di lui, lui probabilmente si limiterebbe a far uscire i dischi senza neanche farsi vedere.
Non ce l’ho con Ed Sheeran dicevo, però tutto l’entusiasmo che sento intorno al suo nome io non lo capisco. Ora mi spiego.

Ogni tanto capita che la rete – cioè i siti, i blog, i giornali online, i social – per ragioni non ben chiare, inizi ad andare in visibilio per un artista, un album, anche solo una canzone. Senza andare troppo indietro, era successo due anni fa con 25 di Adele, è successo l’anno scorso con Lemonade di Beyoncé e sta succedendo ora con Divide (anzi, ÷) di Ed Sheeran. Record di streaming giornalieri, download alle stelle, visualizzazioni su YouTube da capogiro. Tutto succede, ripeto, per ragioni che non mi sono chiare. Perché potrei capirlo per una teen band o per un qualsiasi Justin Bieber, o semmai per il ritorno di una leggenda (chessò, i Rolling Stones, gli AC/DC, Madonna), ma quando capita per i suddetti lavori, a me viene da aggrottare la fronte, perché proprio non ne trovo la ragione.
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Prendiamo 25 di Adele: a distanza di quasi un anno e mezzo dall’uscita possiamo dirci serenamente che quel disco tutto quel successo non lo meritava? E possiamo dirci con altrettanta serenità che Adele è forse la più sopravvalutata artista del nostro secolo? Eppure ho paura ad andare a controllare il numero di copie che ha venduto quell’album o le visualizzazioni di Hello su Vevo. “Ha bellissima voce, è la ragazza della porta accanto in cui tutti ci possiamo ritrovare, bla bla bla bla” potrebbe dire qualcuno. Embè, avete mai fatto assistito a una qualsiasi esibizione gospel in America? Sapete quante ragazze con la voce bellissima – molto più di quella di Adele -, e della porta accanto ci sono là fuori? Non dico che Adele canti male o che le sue canzoni siano inascoltabili, ma certo provo del fastidio nel vedere tutta la fregola che vi si scatena attorno, come se mai nella storia del pop vi fosse stata una cantante che piagnucolava sulle sue storie d’amore condendole di acuti.
Per quanto riguarda Beyoncé, la sua operazione è stata talmente pompata ad arte da lei stessa e dalla sua casa discografica che non voglio neanche dilungarmi. Tutto quello che pensavo del suo album l’ho scritto qui, e non ho cambiato idea. Anche in quel caso infatti il mio entusiasmo verso l’opera maxima della signora Knowles Carter faticava a farsi vedere, tanto che mi pareva di essere un sordo in un mondo di orecchi sopraffini. Serenamente, sono ancora convinto che buona parte di quelli che hanno gridato al miracolo lo hanno fatto per seguire l’onda, e non per reale convinzione, ma tant’è.
Veniamo quindi a Ed Sheeran. Il rosso dalla faccia d’angelo. Da quando, alcune settimane fa, sono usciti i primi due inediti del nuovo album, è stato tutto un rincorrersi di record infranti su Spotify e iTunes, lodi sperticate dei due brani, attesa spasmodica dell’album e biglietti del tour polverizzati in pochi minuti – secondary ticketing permettendo.
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Devo dire la verità, non mi sono buttato all’ascolto delle due canzoni, ma la curiosità mi è venuta, e quindi l’album l’ho ascoltato. Che dire? Non malaccio: ci sono le ballate tristanzuole, una buona dose di folk di ispirazione irlandese, ricami acustici e spunti tra rap e r’n’b, che sono poi l’elemento che più mi stupisce di questo artista. Un album dignitoso, per usare un aggettivo caro a una mia professoressa di liceo, ma che almeno per il mio punto di vista non giustifica per niente l’esaltazione smodata di cui si è parlato. Sì, le canzoni si lasciano ascoltare, alcune sono anche molto piacevoli – Castle On The Hill e a Perfect, per esempio – ma nessuna tocca le vette dell’estasi, e neanche ci si avvicina. Ed è qui che ancora una volta ho iniziato a farmi qualche domanda.
Cavolo, se polverizzi i record di streaming dei campioni del pop, come minimo mi aspetto che tu lo faccia per aver composto il pezzo del millennio! Invece no, hai composto una canzone. Ok, una bella canzone, te lo concedo, ma nulla di più.

Per cercare di capirci dentro, ho provato a chiedere a tre amici, di sicuro ammiratori di Sheeran più di quanto non lo sia io, che cosa esattamente ammirano nella sua musica: una ha risposto che fin lo ascolta da quando non era ancora famoso e che fin dall’inizio l’ha colpita il suo fraseggio e la sua capacità di restare sempre delicato; un altro, anche lui fan della prima ora, mi ha detto di apprezzarlo di più sul palco che non nei dischi, di ammirare molto la sua capacità di stare in scena da solo durante i concerti e il suo modo di suonare la chitarra, consigliandomi di ascoltare la versione acustica di Castle On The Hill; la terza ha detto invece che di amare quella canzone più nella versione “tamarra” in studio.
Tre ascoltatori, tre rispose differenti, ecco, “sono a posto”, ho pensato.
Va beh, allora ho provato a risentire il disco: tutto carino, limpido, liscio come l’olio,un po’ acustico, un po’ folk, un po’ rap, un po’ triste, un po’ romantico. Ma niente, dell’entusiasmo neanche un accenno.

Insomma, una risposta definitiva alla mia domanda forse non c’è, e forse è stupido anche solo porsi la domanda, perché alla fine stiamo parlando di canzoni, una dimensione in cui il gusto e lo sguardo personali sono gli unici padroni.
Con buona pace di tutti, il mondo continuerà a impazzire per Ed Sheeran e io, con pochi altri, continuerò serenamente a skippare i suoi brani quando YouTube o Spotify me li vorranno proporre. Fino a quando arriverà il prossimo fenomeno globale.
Scusa Ed, non ce l’ho con te, davvero, è solo che non ti capisco.
Mistero della rete? Mistero della musica? Mistero.

BITS-CHAT: “Voglio darvi la bella copia”. Quattro chiacchiere con… Ketty Passa

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Ketty Passa
è la cantante con i capelli blu.
Oddio, in realtà è molto di più, ma questa è la prima cosa che salta all’occhio appena si incrocia il suo sguardo, e soprattutto questo è l’elemento che la rende immediatamente riconoscibile.

Ma Ketty Passa è molto di più perché con la musica non ci ha a che fare solo come interprete, ma anche come conduttrice in radio e TV e dj in alcune serate di milanesi. Ultimo incarico che le è stato assegnato in ordine di tempo è la selezione musicale per il nuovo programma di Rai2 Nemo-Nessuno escluso. Insomma, è una che nella musica ci sguazza dentro in pieno.
Nel 2013, insieme ai Toxic Tuna ha pubblicato il suo primo album, #CANTAKETTYPASSA, e ora, a distanza di tre anni, si prepara al ritorno: questa volta però lo fa da sola, e con uno stile tutto nuovo.
Per pubblicare il nuovo album e dare al pubblico la “bella copia” del CD, ha accettato la proposta dei fondatori di Musicraiser Giovanni Gulino dei Marta sui tubi e della sua compagna Tania Varuni, dj e produttrice, che, rimasti entusiasti dei primi ascolti, l’hanno esortata a dare il via alla missione #kettypassainloop, iniziata a fine settembre e attiva fino al 25 novembre.
Per chi si offrirà di finanziare il progetto, sono previsti numerosi pacchetti di offerte, dall’edizione speciale dell’album fino a una cena e al dj set privato. Tutte le info a questo link.

Ti avevamo lasciata nel 2013 con il tuo precedente album, #CANTAKETTYPASSA e ti ritroviamo ora pronta a fare un nuovo passo con un disco che si preannuncia molto diverso: cosa è successo in questo periodo?
L’esperienza con la band è stata bella, ma difficile, e alla fine non abbiamo trovato l’incastro giusto. Già subito dopo il tour era emersa l’esigenza da parte di alcuni di prendere altre strade: così, senza nessun tipo di rancore, abbiamo abbandonato il progetto e io mi sono messa a pensare a cosa avrei voluto fare davvero come cantante. Quello che da tempo volevo proporre era qualcosa che mischiasse pop, elettronica e hip hop: io lo definisco urban, ma solo perché ha uno stile piuttosto street e si rifà all’America, con il cantato a volte punk, a volte melodico.

Un genere non proprio frequente in Italia: come hai trovato la chiave giusta per lavorarci?
Ho iniziato in studio, accompagnata dal mio produttore, Max Zanotti, la persona che più di tutti ha creduto in questo progetto dall’inizio. Anche per lui era una scommessa, perché ha sempre avuto a che fare con tutt’altra musica, mentre qui si trattava di mettere insieme melodia su basi elettroniche piuttosto ritmate, spinte, che di solito in Italia sono usate dai rapper. E’ anche per questo che ci ho messo due anni a fare il disco.

Difficoltà particolari che hai incontrato?
La lingua: l’italiano non è spigoloso come l’inglese, è rotondo, e adattarlo a quella musica non è stato facile, ho dovuto lavorare molto in quel senso, cercando di adattare le parole alle basi che mi arrivavano da musicisti che lavoravano nell’ambito dell’hip hop. Per creare l’atmosfera mi sono ispirata molto a Gwen Stefani, M.I.A., Kimbra, ma anche Rihanna e Beyoncé. Tra i pezzi meglio riusciti c’è Sogna, il primo singolo, dove sono riuscita a trovare il linguaggio perfetto, mentre in altri casi ho dovuto rispettare un po’ di più le esigenze dell’italiano e mi sono adeguata a un andamento più melodico. Anche i temi che affronto sono molto diversi: nei 10 pezzi nuovi ci sono canzoni più allegre, altre più intime, in un’altra parlo di come sia difficile portarsi dietro la propria diversità nella società di oggi abituata a ragionare in franchising.

E sei poi arrivata a Musicraiser…
Per questo album ho lavorato in maniera diversa rispetto a prima, andando in studio e non più in sala prove, e tutto questo ha un costo: sono stata contattata da Giovanni Gulino e Tania Varuni di Musicraiser e mi è sembrato un buon modo per sostenere le spese e avere una nuova visibilità. La parte economica in un progetto discografico ha un grande peso e le operazioni messe in atto da piattaforme come questa sono un grandissimo aiuto, soprattutto per gli artisti come me che non hanno alle spalle case discografiche che possano finanziare il lavoro. Ho posto un obiettivo piuttosto ambizioso, 10.000 euro, che mi serviranno per coprire una parte delle spese che ho già sostenuto e darmi la possibilità di realizzare anche un paio video. Fare musica è anche un investimento su di sé, per cui molto ho già investito di mio: aderire a Musicraiser mi permetterà di avere più visibilità e poter dare al pubblico la “bella copia” del disco. La campagna si chiuderà il 25 novembre e ho previsto numerosi pacchetti per chi deciderà di aiutarmi a portare a termine il progetto. Voglio che le persone siano invogliate a finanziare la mia missione, non voglio sono elemosinare.
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A Musicraiser sei arrivata dopo aver ricevuto la proposta di Giovanni e Tania: prima non ci avevi pensato?
No, non ero molto convinta: di solito alle cose devo arrivarci da sola, con i miei tempi, e in questo caso non pensavo che potesse fare al caso mio. Poi invece i ragazzi di Musicraiser mi hanno contattata ed erano molto entusiasti dei provini che hanno ascoltato e così ho deciso di mettermi in gioco: mal che vada, se non raggiungo l’obiettivo, resto a zero come sono ora. Sarà forse un po’ avvilente, ma è un tentativo. D’altra parte, l’alternativa sarebbe stata quella di aprire un mutuo. Mi ha aiutato molto anche il fatto di aver incontrato l’etichetta 22R con la quale si è instaurato un rapporto di fiducia. In questa campagna mi sto impegnando tantissimo, sto mettendo tutta me stessa, tutta la creatività che ho, anche per creare pacchetti esclusivi e ricchi da proporre: tra i progetti c’è anche quello di creare delle strisce di fumetto in cui racconto una storia. Per ora non posso dire molto, ma sarà una cosa molto divertente che sto preparando insieme a un tatuatore: riguarderà uno dei brani e avrà come protagonisti una bambina e un animale.

E’ stato difficile trovare musicisti adatti al tipo di musica che volevi proporre in questo album?
Più che dal punto di vista pratico, la difficoltà è stata soprattutto trovare chi volesse fidarsi e mettersi in questo progetto: mi rendo conto che proporre brani urban non sia facile in Italia, e devo dire che in effetti molti non capiscono, sono convinti che la musica italiana non sia pronta. Io però sapevo di non voler fare quello che fanno le altre cantanti: è vero, dopotutto faccio pop, per cui i punti di contatto ci saranno, ma io voglio proprio fare musica con un linguaggio diverso, e sono curiosa di vedere come verrà recepita questa operazione.
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Pensi che Musicraiser possa rappresentare il futuro della discografia?
Sì, ma più che Musicraiser penso che sia il web in generale a rappresentare il domani della discografia. Prendiamo il caso di Salmo: quando lui è arrivato, il suo tipo di musica non lo proponeva nessuno, lo ha portato lui, e oggi è entrato in una major. Le grandi realtà discografiche ormai servono soprattutto a supportare fenomeni già esistenti, lavorano con i talent, ma non presentano cose nuove, e questo per meccanismi di mercato che posso anche comprendere, ma che non aiutano a portare qualcosa di diverso. In passato ho ricevuto proposte per partecipare a dei talent, ma ho capito che se avessi accettato sarei entrata in logiche più grandi di me e come artista sarei morta. Non mi serviva avere quella visibilità e non avevo voglia di farmi scrivere le canzoni da altri.

Prima accennavi a un brano dell’album che tratterà il tema della diversità: secondo te che cosa fa paura alle persone nell’essere diversi?
Essere diversi vuol dire sentirsi continuamente sbagliati: noi umani siamo brutti, sviluppiamo una serie di convenzioni sociali che ci portano al confronto, al giudizio verso gli altri. Lo facciamo tutti, nessuno escluso. Essere diverso ti porta a vivere con più difficoltà anche nel concreto, perché magari sei tentato di fare scelte meno convenienti economicamente ma più stimolanti. Essere diversi è difficile proprio dal punto di vista pratico, mentre una vita facile è quella che porta gli altri a non giudicarti e romperti le palle.
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A proposito del caso di Tiziana Cantone, sulla tua pagina Facebook hai scritto: “il problema non sono i social, sono le persone”. Non pensi però che i social abbiano amplificato l’imbarbarimento della società?
Certo, perché, come dicevo, siamo tutti prontissimi a scagliarci sugli altri per nasconderci, anche se commettiamo gli stessi errori. L’indole umana porta a puntare il dito per sentirsi puliti, mentre si sta perdendo la capacità di autocritica: dietro allo schermo di un computer siamo tutti coraggiosissimi, ma non riusciamo a reggere il confronto diretto. In questo caso specifico, la ragazza è stata convinta a essere lei dalla parte del torto, mentre la vera colpa in questa storia è stata mettere on line un video senza il suo consenso, quello è un reato! Il senso di colpa per quello che si vedeva in quel video è stato però così grande che Tiziana si è tolta la vita, ed è gravissimo. Per questo ho scritto che il problema non sono i social, ma le persone che li usano e il modo in cui li usano. Siamo fatti male, siamo fatti per spiare e giudicare, e Facebook non è altro che lo specchio di questo comportamento.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato ha per te il termine “ribellione”?
E’ difficile spiegarlo: sono molto diversa da come appaio, posso sembrare estroversa e ribelle, ma sono molto più tranquilla. Forse ribellarsi è portare avanti dei valori che riconosci in te, ma di cui non trovi riscontro nella società. Ribellarsi può essere anche avere il sogno della musica, ma andare a lavorare in ufficio se il tuo paese non ti offre le condizioni per farlo in totale libertà o se l’unica alternativa è andare in un talent. Ecco, io ho ancora la lucidità di dire no.

BITS-RECE: Beyoncé, Lemonade. Un “album bla bla”

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata i bit.
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Probabilmente l’avrei ascoltato lo stesso, perché comunque Beyoncé mi piace e la sua discografia è tutta presente nella mia collezione di CD. Ma di Lemonade se n’è parlato così tanto che ascoltarlo più che un piacere è sembrato quasi un obbligo.
L’album dell’anno! Ma che, del secolo! Vuoi forse perdertelo? Vuoi non dargli almeno un ascolto, anche solo per dire “anche io c’ero”?

Uscito su Tidal a fine aprile “a sorpresa”, come va tanto di moda negli ultimi tempi, anticipato a febbraio dal singolo Formation, Lemonade è stato presentato come l’album della rivincita, l’album della vendetta di Mrs Carter su Jay Z, marito fedifrago. Cioè, tuo marito ti mette le corna, e tu ci fai sopra un disco per far vedere quanto sei figa a superare il momentaccio?
Mmm…. Qui c’è odore di “album bla bla“.
Cos’è un “album bla bla”? Adesso ve lo spiego.

Andiamo con ordine: la telenovela famigliare dei Carter è iniziata con l’ormai famoso episodio dell’ascensore, quando il rapper sarebbe stato saccagnato di botte da Solange Knowles, sorella minore di Beyoncé, appunto durante un viaggio in ascensore al termine dei festeggiamenti per il Met Gala a New York, il 5 maggio 2014. Il tutto alla presenza della consorte, che nei 3 minuti di video diffusi in Rete appare immobile mentre il marito le prende di santa ragione dalla cognata senza far granché per difendersi. Per settimane i media si sono interrogati sul perché di quel fatto, senza essere mai arrivati a una vera, definitiva soluzione. Tradimento, si diceva, ma i dettagli erano oscuri. E così, sulla famiglia più famosa e influente d’America, dopo gli Obama, è calata un’ombra di sospetto.
Poi ecco arrivare il disco, dal titolo alquanto curioso, Limonata (lo spunto arriva da un insegnamento della nonna, che diceva che se ti offrono dei limoni ci devi fare una limonata, come a dire “prendi ciò che hai e sfruttalo al meglio”), e dentro una manciata di canzoni in cui il rapper/marito viene fatto a pezzi dalle parole taglienti come fuoco della moglie, incazzata nera, che riversa in un album tutta la rabbia che una qualunque signora di provincia avrebbe tradotto di lanci di pentole e stoviglie e imprecazioni tutt’altro che femminili.
“Beyoncé una di noi”, “anche le dive hanno le corna”, “dai Beyoncé, fagli vedere che comanda!” Sono stati più o meno questi i commenti subito arrivati in massa dopo l’uscita dell’album e dopo la visione del video/film che lo accompagnava, con Queen Bee armata di mazza da baseball in abito color polenta. Beyoncé eroina delle cornute, Beyoncé idola delle donne in cerca di riscatto: femminismo di quart’ordine, questo è.
Perché poi a tutto questo si sono aggiunti i fiumi di chiacchiere versati dai media, dai giornalisti e dai critici, tutti indistintamente a lodare l’emancipazione femminile che trasuda da questi nuovi brani.
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Ho provato a scorrere un po’ recensioni di Lemonade, pescandole tra magazine e siti web, e – salvo eccezioni – tutte giravano intorno alla telenovela di casa Carter e al fatto che si trattasse di un progetto audio/video (un visual album, come del resto lo era stato l’album precedente, con la differenza che qui c’è un unico mega video di oltre 60 minuti): quasi nessuno, eccetto pochi, che spendesse due righe a spiegare se questo benedetto disco fosse meritevole di qualche ascolto, non una parola sulla qualità dei brani. Solo chiacchiere sul presunto tradimento di lui, la vendetta di lei e molti interrogativi sull'”altra” (la Becky belli-capelli).
E sui social reazioni entusiaste, gente che si sperticava in lodi sbrodolate, ma non tanto su Lemonade, quanto piuttosto su Beyoncé, le sue strategie di marketing e il suo essere una vera indipendent woman.
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Quindi mi sono preso del tempo, e l’ho ascolto con calma, più di una volta. Per capire, e trovare la dose di genialità di cui tanto si parlava.
Beh, signori, lasciate che vi dica una cosa: se questa è la nuova Beyoncé, io non ci sto a incensarla. Cioè, voglio dire, stiamo parlando di una delle più talentuose artiste del pop universale, una che dopo gli anni gloriosi nelle Destiny’s Child ci ha dato pezzi come Crazy In Love, Halo, Single Ladies, Listen, Love On Top. E adesso che fa?? Dietro al pretesto di sputtanare il marito ci rifila un disco di una bruttezza sbalorditiva, un disco in cui non si riesce a trovare un appiglio, qualcosa che ci dica che quella lì che canta è proprio lei, la stessa Beyoncé che una volta ci faceva strabiliare con l’ugola d’oro e ancheggiare selvaggiamente, e che ora miagola parole di rancore e vendetta in matasse di suoni confuse come Pray You Catch Me, Sorry, o Formation? È proprio lei? Ancora lei? E a voi, pubblico che andava in visibilio per i suoi virtuosismi, piacciono sul serio queste dodici canzoni che non ti fanno muovere neanche l’unghia del mignolino?
Non dico di fare un disco alla Katy Perry o alla Taylor Swift, sei pur sempre Beyoncé, hai una dignità da difendere, ma cribbio, seguire i fili logici dei nuovi brani è davvero troppo complicato! Una roba come Sorry l’avrei vista al massimo come una interlude di massimo 60 secondi in un disco di tipico r’n’b, non come uno dei pezzi di maggior interesse del progetto.

E chissenefrega se il vero scopo del disco era mettere in piazza i panni sporchi di casa Carter! Io da un disco voglio musica, non chiacchiere: non siamo sulle pagine di un giornaletto gossipparo, siamo in un album di Beyoncé, la signora della black music dei giorni nostri! Anche perché ho come il sospetto che dietro a tutta la storia di botte, corna e rivincite, ci sia solo una mastodontica operazione pubblicitaria.

Vediamo un po’: tu e il marito siete in crisi nera, lo ammazzeresti di sprangate ma preferisci far uscire un album e urlare quanto lui è stato stronzo sputtanandolo in mondovisione. Ok, quindi cosa fai? Rilasci il tuo album in esclusiva su Tidal, la piattaforma streaming (a pagamento) ideata proprio da tuo marito?? Eh sì, proprio il gesto di una donna incazzata nera!
E poi che succede ancora? Che proprio lui, il marito fedifrago, solo alcune settimane dopo si ritrova a rappare di matrimonio e limonate in un altro brano (All The Way Up di Fat Joe). Chi non lo farebbe al suo posto, nella sua situazione?
Adesso ditemi, se l’unico valido motivo per ascoltare Lemonade era quello di sentire i versi rancorosi di Beyoncé verso Jay Z, ma si scoprisse davvero che era tutto finto, il valore di quest’album dove starebbe?
Non certo nella musica, quella pare solo un contorno, ed è pure brutta. Neppure nelle chiacchiere, che invece sono tante, troppe. E nemmeno nell’essere un visual album, perché ormai non è più una novità, o nell’essere apparso “a sorpresa” su Tidal, perché ormai l’hanno fatto quasi tutti.
Per questo Lemonade è un “album bla bla”.