“Le stelle non brillano solo in cielo”: le “radio girls” rivivono nel nuovo singolo di Ottavia Brown


A volte la musica riesce a dare voce a chi non l’ha mai avuta e a chi non sembra aver lasciato alcun segno nella storia e nel mondo.
E’ quello che è riuscita a fare l’illustratrice e songwriter Ottavia Bruno, in arte Ottavia Brown, con il suo nuovo album, Signora nessuno, in uscita il prossimo 10 aprile per UMA Records.
Un progetto sviluppato in dieci tracce tra rock, folk e atmosfere noir dedicate ad altrettante storie che riaccendono i riflettori su momenti chiave del passato che ancora illuminano il presente, anche se spesso pochi ne sanno riconoscere la luce. Ogni brano è inoltre accompagnato da un’illustrazione che ne racchiude il significato, opere della stessa artista.

Quasi un concept album, a cui fa da apripista il primo estratto Le stelle non brillano solo in cielo.
A ispirare il brano è una storia piuttosto triste avvenuta nel 1917, proprio negli anni splendenti della Belle époque: protagoniste, loro malgrado, furono un gruppo di ragazze ricordate come “radio girls”, operaie, spesso minorenni, in un’azienda statunitense produttrice di orologi, la United States Radium Corporation di Orange, nel New Jersey.
Molte di loro sono state avvelenate dalla vernice radioluminescente presente sui pennelli che inumidivano con la saliva per dipingere i quadranti orologi: l’azienda infatti le aveva infatti rassicurate sul fatto che la vernice al radio fosse del tutto innocua.
Il metallo era stato scoperto dai coniugi Curie solo pochi anni prima, nel 1898, e già Pierre Curie ne aveva intuito la pericolosità
Tuttavia, il carattere luminescente della sostanza fece sì che il radio venne utilizzato per produrre vernici, cosmetici, farmaci e addirittura per arricchire alimenti.
Nel giro di pochi anni, l’esposizione costante al metallo radioattivo causò a molte delle ragazze i primi sintomi di avvelenamento, tra cui la perdita dei denti, la disgregazione del tessuto osseo e l’insorgenza di tumori. Inoltre, fatto piuttosto inquietante, sembra che i loro copri iniziarono a brillare al buio.
Le operaie decisero quindi di citare in giudizio i datori di lavoro, segnando così un punto di svolta in tema di sicurezza sul lavoro.
E ancora oggi le ossa delle ragazze brillano.

Tra gli altri protagonisti dei brani di Signora nessuno vi sono Mary Shelley (Mary non c’è), Moby Dick (Capitano riposa) e Modigliani (Maledetto).

Marilyn Manson rivisita il classico folk “God’s Gonna Cut You Down”


God’s Gonna Cut You Down
è un classico del repertorio folk americano talvolta conosciuto anche con i titoli di Run On Run On for a Long Time, e con cui negli anni si sono cimentati giganti come Johnny Cash e Elvis.

Adesso è la volta di Marilyn Manson, che ne ha realizzato una personale versione dai toni dark, con un video dalle atmosfere apocalittiche girato nel deserto di Joshua Tree.

BITS-RECE: Alberto Nemo, “Olim”. Religione o poesia?

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit. 

Alberto Nemo è uno a cui piace parecchio sperimentare, ed anche uno a cui le idee su cui lavorare non mancano di certo, almeno stando alle sue recentissime produzioni.
Se già con Smania aveva realizzato un’opera densa e fortemente sperimentale che abbracciava elettronica, folk e ambient, con Olim, pubblicato praticamente in contemporanea, cambia radicalmente scenario, ma consegna un lavoro altrettanto ispirato.
Il nono album dell’artista veneto proietta infatti l’ascolto verso terrori più morbidi e rarefatti, senza le vigorose virate stilistiche di Smania, ma appoggiandosi soprattutto sulle atmosfere del folk e dell’ambient. I brani sono stati registrati interamente a 432Hz, e le frequenze dell’album sono utilizzabili a scopi terapeutici.
In una sorta di costruzione ad anello, l’opera si apre e si conclude con due composizioni strumentali, Eniro ed Eliro, dove tra le frange armoniche trovano spazio anche le note dell’arpa celtica e ogni riferimento spazio-temporale si annulla in un’unica, indefinita dimensione. Il cuore dell’album si apre invece ad atmosfere più sacrali, misticheggianti, magiche: Nemo non si risparmia in virtuosismi vocali, mentre i richiami sonori rimandano alle coste mediorientali, piuttosto che agli inni liturgici, aprendosi anche a respiri cinematografici.

La sensazione è di trovarsi a maneggiare un repertorio liturgico di una religione misteriosa, arcana, nata nella notte dei tempi e riesumata integra, e di cui nulla è dato sapere; ma allo stesso tempo niente vieta invece di considerare questi brani come la manifestazione di una umana, misteriosissima e potente vena poetica.
Ispirato da intenti divini o terreni, Olim – e con esso il suo creatore – ha comunque la forza di spalancare la visione su un mondo lontano e straniero.

“Mi sbaglio da un po’”, la svolta in italiano di Wrongonyou


Un ritorno che ha la forma del cambiamento, non fosse altro che per la lingua, che per la prima volta è l’italiano.

Wrongonyou torna sulle scene con Mi sbaglio da un po‘, prima anticipazione del nuovo album in uscita a ottobre.
Il titolo del brano è un gioco di parole che prende ispirazione dal nome d’arte di Marco Zitelli (vero nome di Wrongonyou): la canzone è stata scritta a quattro mani insieme a Zibba e prodotta da Katoo, ed è una liberatoria dichiarazione d’amore.

“A volte mettere da parte l’ego può solo che aiutare sia in una relazione ma anche nell’individualità di ciascuno: mettersi in discussione può solo che essere una svolta! All’interno del brano c’è uno special fatto con un coro gospel che in verità sono semplicemente io che ho sovrainciso 28 volte la mia voce e che dice “a volte è facile, a volte è difficile, ma io ancora credo in noi” . Mi sbaglio da un po’ è la prima canzone che ho scritto per questo disco ed è anche l’unica canzone che ho traslato dall’inglese all’italiano. Proprio per questo, ho voluto che fosse la prima ad inaugurare questo nuovo percorso!”.

Come ha lui stesso affermato, la scelta di scrivere e cantare in italiano è stata dettata al cantautore dalla voglia di togliere ogni filtro al racconto delle sue storie.

Caveleon, nella caverna delle meraviglie


Il mito della caverna è una delle più celebri pagine dell’opera di Platone. Racconta in sintesi questo: alcuni uomini vengono tenuti prigionieri all’interno di una caverna, all’interno della quale vedono proiettarsi sui muri, deformate, le immagini del mondo esterno. Non avendo altro termine di confronto, scambiano quelle proiezioni falsate per la realtà, fino a quando uno di loro riesce a fuggire e a uscire, scoprendo al di fuori un mondo completamente diverso da quello immaginato.
Immaginiamo ora di capovolgere il racconto platonico e di entrare noi stessi all’interno di una particolare caverna per scoprire un mondo nuovo. E’ più o meno quello che succede ascoltando le cinque tracce di Caveleon, omonimo EP di debutto di un progetto nato nel gennaio 2018 dall’incontro fra il polistrumentista e cantautore Leo Einaudi, figlio di Ludovico, la cantautrice Giulia Vallisari, il musicista elettronico Federico Cerati e il batterista Agostino Ghetti. 

Cosa c’entri in tutto questo la caverna, lo spiega proprio Leo Einaudi: “Le canzoni che compongono l’EP sono nate nel nostro piccolo studio in un seminterrato a Milano, lo abbiamo chiamato ‘The Cave’. E’ stato come aprire una grande porta e ritrovarsi in un luogo familiare ma allo stesso tempo inesplorato, in cui tutto ti sorprende e prende una nuova forma in modo molto naturale. Veniamo tutti da background musicali molto diversi. Questo ci ha permesso di avere grande libertà nella scrittura, amiamo i dettagli e i contrasti e ci piace pensare che grazie a questo Caveleon sia un progetto in continua evoluzione, che si arricchisce giorno dopo giorno delle influenze che ciascuno di noi porta con sé”.

Ed è così che negli anfratti silenziosi e appartati della loro caverna, i Caveleon hanno lavorato per mettere insieme il blues, il folk, l’indie pop, facendo ricorso anche all’elettronica, condensando poi il tutto in cinque brani nati da una totale libertà dagli schemi e dagli stili, in cui avanguardia, sperimentazione e tradizione si confondono tra loro.

Adesso che i Caveleon hanno socchiuso la porta della loro caverna, sta a noi fare il passo per entrarci e ascoltare come suona il loro mondo.

 

 

Ti ho scritto una lettera. Quattro chiacchiere con… The Leading Guy


Non a tutti i musicisti capita di fare un esordio come quello di The Leading Guy: nel 2015 il suo primo album Memorandum è stato infatti accolto con pressoché unanime entusiasmo da tutta la critica, inaugurando così il suo personale percorso cantautorale.
Quattro anni dopo, per il bellunese Simone Zamperi è arrivato il momento di un nuovo lavoro, Twelve Letters, un album che ha attirato anche l’attenzione di una major come Sony Music e di un’artista come Elisa, che lo ha personalmente voluto per aprire i concerti del suo ultimo tour.
Un disco che ha lo spirito verace del folk e del rock, ma anche i contorni un po’ romantici di una lettera intima scritta a cuore aperto con carta e penna e indirizzata a un destinatario che forse non la riceverà mai o sceglierà di lasciare in sospeso la sua risposta.
Partiamo dall’inizio: chi è The Leading Guy?
Sono nato a Belluno e ho trascorso un lungo periodo in Irlanda, per poi fare ritorno in Italia a Trieste, la città che mi ha adottato. Musicalmente parlando arrivo da un disco d’esordio, Memorandum, molto diverso dal nuovo album.

Che cosa ti ha portato verso una nuova direzione?
Volendo avrei potuto fare un album simile al precedente, ma sentivo che sarebbe stato sbagliato, per cui mi sono preso il tempo per capire cosa volevo davvero comunicare. Quando ho avuto tra le mani i brani in versione chitarra e voce mi sono reso conto che erano molto diversi dagli altri nella struttura e ancora di più nel messaggio. Forse un po’ egoisticamente, le canzoni di Memorandum parlavano molto di me, erano come un’analisi, queste invece sono proiettate verso l’esterno, creano quasi un confronto, un dibattito. Da qui è arrivata anche la decisione di circondarmi di musicisti e di riempire il disco con molto suono: dopo tre anni passati a fare concerti sempre da solo avevo voglia di avere accanto qualcuno. Quello che ne è venuto fuori è un disco molto vario, in cui a ogni canzone è stato messo un vestito diverso.

Un disco molto vario che hai scelto di aprire con un brano cupo come Black: perché?
Suona molto bene come prima canzone di un disco: schiacci play e rimani colpito. Dura poco, ma è tuonante: può essere considerata come le tredicesima traccia di Memorandum, è il modo per riallacciarmi a dove ero rimasto con l’altro album e da lì ripartire. Metterla in mezzo avrebbe spezzato il racconto. E poi mi piaceva l’idea che la prima parola dell’album fosse proprio “black”, è un richiamo al mondo delle mie influenze. Qualcuno potrebbe magari spaventarsi, ma il resto del disco va verso la positività.

Non hai paura che qualcuno possa invece fermarsi lì e farsi un’idea sbagliata dell’album?
Ammetto che è una canzone abbastanza catastrofica, c’è un messaggio ambientale un po’ apocalittico, ma alla fine arriva anche la speranza. No, di paura non ne ho: in Memorandum non c’era nessun brano che potesse essere scelto come singolo, ma l’ho fatto lo stesso, per cui posso fare anche una canzone così.

Il titolo e la copertina dell’album mettono al centro il concetto della lettera “come si faceva una volta”: per te che significato ha?
Quando mi son ritrovato il disco finito tra le mani ho capito che il filo conduttore dei brani era quello di una lettera indirizzata a un destinatario, reale o simbolico: ad alcuni ho anche inviato davvero in anteprima la canzone in forma di lettera. Quando in passato si scrivevano le lettere, si aveva il tempo di pensare, correggere, e magari alla fine si decideva di non spedirla, ma le parole restavano lì. Credo che dovrebbe essere così per chi scrive canzoni: prendersi il tempo di scrivere, cancellare, rifare. Una lettera non è una mail che si può cestinare con un clic, la si può bruciare, ma il messaggio arriva comunque in modo diverso. E anche chi ascolta una canzone dovrebbe leggerla come si legge una lettera, tornarci su per capire se si è davvero capito tutto quello che c’è scritto. L’ultimo brano dell’album, Can You Hear Me Now?, è una richiesta d’aiuto, ma anche un modo per chiedere di ascoltare e capire bene quello che sto dicendo.

Tutti i brani hanno un destinatario preciso?
No, sono messaggi che possono essere rivolti a chiunque, ma tutti hanno alle spalle una lunga riflessione e tutti hanno uno stile diverso. Free To Decide può essere per esempio le lettera che invieresti a un amico, mentre Black è la lettera incazzata che invieresti al sindaco del tuo paese per dirgli che le cose non vanno. Un paio hanno invece dei destinatari eali, amici che non ci sono più.

Da quanto tempo non scrivi e non ricevi una lettera?
Almeno 13 anni, se si parla di una lettera vera e propria, scritta e imbucata con il francobollo. L’idea di portare la lettera nei brani mi è venuta proprio facendo questa riflessione. Ho 32 anni, sono cresciuto quando le lettere si scrivevano. Ho provato anche a fare un sondaggio tra i miei fan, e ho scoperto che alcuni di loro le spediscono ancora.

L’introspezione sembra essere un elemento che ti caratterizza. E’ così?
Nella vita sono un tipo abbastanza “caciarone”, posso avere molte maschere, ma nella musica non lascio entrare la confusione, tutto deve essere pensato e ponderato: solo quando suono e soprattutto quando scrivo riesco a trovare un’introspezione vera. Scrivere non è un hobby, è qualcosa che esige rispetto.

Metti molti filtri tra i tuoi pensieri e la tua scrittura?
Sì, c’è parecchio filtro tra quello che mostro e quello che scrivo, e spesso le persone si confondono ascoltando la mia musica. Succedeva soprattutto con Memorandum, dove svelavo molto di più del mio passato, cose di cui non avevo mai parlato. Forse è sbagliato, perché ci deve essere somiglianza tra ciò che sei e quello che scrivi, ma tutti abbiamo un lato oscuro da nascondere. Le mie canzoni sono solo una parte di me, una parte che cerco di esorcizzare. Se fossi solo quello che metto nelle canzoni forse mi sarei già impiccato! (ride, ndr) Metto la tristezza nella musica per trovare gioia nella vita.

Ma anche nel disco si vede la gioia…
Sì, e me ne sono stupito anch’io. Penso che sia dovuto alla voglia che avevo di condividere: forse per un periodo l’avevo dimentica e ora ho ritrovato la gioia di fare le cose insieme agli altri.

Tu ed Elisa come vi siete conosciuti?
Ho conosciuto prima suo marito, Andrea Rigonat, che è anche il suo chitarrista: eravamo entrambi giudici in un concorso per giovani musicisti, e sono riuscito e fargli sentire Black, e lui non si spaventato! (ride, ndr) Sapevo che Elisa stava per partire con il tour e sono riuscito a far sentire il brano anche a lei: le è piaciuta, e non era scontato, e così ha deciso di portarmi con lei per aprire i suoi concerti. Sarò impegnato per tutto il mese di maggio e penso che solo alla fine di questa esperienza riuscirò a realizzare meglio quello che è successo, ma sono sicuro che sarà una grande lezione per il futuro.

Un altro progetto in cui sei stato recentemente coinvolto è quello di Faber Nostrum, al quale hai partecipato con la cover di Se ti tagliassero a pezzetti. Quella che esperienza è stata?
Ci è stata lasciata grande libertà sulla scelta del brano, anche perché sarebbe stato crudele ritrovarsi a interpretare un brano di De Andrè imposto da altri. Ne ho provati molti, finché ho capito che con Se ti tagliassero a pezzetti mi sentivo più a mio agio, mi ritrovavo di più. Cantare in italiano è stato uno choc, non è stato facile convincermi che ci sarei riuscito, soprattutto con De Andrè, ma ho pensato che era meglio di iniziare con una bella canzone. Credo inoltre che progetti come questo sono importanti perché fanno conoscere De Andrè alle nuove generazioni: non è scontato che oggi un ventenne sappia chi è, ma mi fa piacere quando in rete leggo i commenti alla mia cover da parte di ragazzi molto più giovani.

Potrebbe quindi essere uno spunto per iniziare a scrivere e cantare in italiano?
Non è che non abbia voglia di farlo, ma credo di non essere pronto, tecnicamente più che umanamente. Cantare in italiano sarebbe come ripartire da zero, non basta traslare la parole: la tecnica e la respirazione sono completamente diverse, e l’italiano è una lingua molto difficile. Ci ho messo 14 anni a imparare a scrivere bene canzoni in inglese, adesso voglio farle ascoltare un po’. Per l’italiano posso aspettare.

Concludo con una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di “ribellione”?
La vera ribellione è smettere di vedere i propri sogni irrealizzabili: ho iniziato a vivere bene e stare meglio quando ho capito che non ci stavo riuscendo con la musica perché avevo paura di buttarmi. Non so nuotare, ma in estate lavoravo come tuttofare in uno stabilimento balneare, tenendomi l’inverno per la musica: il mio gesto di ribellione è stato mollare del tutto il lavoro e investire nella musica, che oggi è la mia vita. Spesso ci si lamenta per come vanno le cose e si dà la colpa agli altri, invece bisognerebbe iniziare a prendersi la responsabilità dei propri insuccessi e uscire dalla propria tranquillità. E a volte non sono neanche insuccessi, semplicemente non ci si prova nemmeno.

La Berlino di George Herald tra suoni folk e animo punk

“Da quando ho visto il muro di Berlino dal vivo e le immagini della sua caduta, ho sempre pensato che sarebbe stato bello esserci quella notte del 9 novembre 1989. Non so bene perché, ma alla fine Fabio Copeta ha fatto in modo che quella sera ci fosse una mia canzone”.
E così, le immagini ormai entrate nella storia della caduta del muro di Berlino si accompagnano alle note acustiche di Berlino, il nuovo singolo di George Herald estratto dell’EP Per tutto ciò che vale.

Cantautore dall’attitudine punk ma prestato al folk (“Sono George Herald e scrivo canzoni folk” è la semplice formula con cui si presenta sulla sua pagine Facebook), George inizia a fare musica per “colpa” di suo fratello, che gli ha lasciato in camera le chitarre dei tempi in cui da adolescente militava nella punk band Macachi Trauma Center. Un inverno di qualche anno fa, preso dalla noia e dal freddo, George ha preso in mano quella acustica e ha iniziato a scrivere canzoni.

Timbuktu, il viaggio folk e onirico di Fabrizio Cammarata

“In un certo senso, mi piace l’idea di tirare l’ascoltatore fuori dalla sua “comfort zone”, verso un luogo in cui è costretto a rapportarsi senza difese con i suoi sentimenti più nascosti (i più belli ma anche i più “pericolosi”). Mi piace che questo accade in quel momento in cui io evoco con tutta la forza i miei di sentimenti, sul palco o attraverso una registrazione. Le mie canzoni non vogliono essere compagne di una serata comoda al calduccio di un camino, semmai devono fare ridere e piangere, senza controllo, in una sorta di rito collettivo di purificazione. È quello che ho imparato da Chavela Vargas e che provo a fare anche io.”

Fabrizio Cammarata parla così di Timbuktu, il suo nuovo singolo: un racconto folk in cui l’amore si intreccia al fascino di una città lontana a e quasi mitologica
Il brano anticipa l’uscita dell’album Lights, prevista per il 29 marzo 2019.

Il 30 novembre uscirà inoltre la deluxe version di Of Shadows, l’album pubblicato lo scorso anno, che conterrà materiale esclusivo, tra cui versioni acustiche e live recordings.

Il ritorno dei Dead Can Dance con Dionysus. A maggio due date live in Italia

unnamed
I Dead Can Dance annunciano l’attesissimo ritorno con il nuovo album Dionysus, in uscita il 2 novembre su [PIAS] Recordings.

Sin dalla nascita nel 1981, il duo australiano formato da Brendan Perry e Lisa Gerrard è sempre stato affascinato dalle tradizioni folk europee, non solo dal punto di vista musicale, ma anche da quello secolare, religioso e spirituale. Prendendo ispirazione da ciò, Brendan Perry esplora le feste del raccolto e della primavera tipiche della tradizione religiosa legata a Dioniso, un viaggio che porta alla luce le cerimonie e i riti che vengono praticati ancora oggi.

Durante questi due anni di lavorazione, Perry ha accumulato una gamma di strumentazioni folk, ispirandosi alle tradizioni di tutto il mondo.
I brani del nuovo album si sviluppano meno come canzoni e più come frammenti di un insieme compatto. Dionysus segue un sentiero familiare, utilizzando la tecnica del field recording (registrazione sonora prodotta al di fuori di uno studio di registrazione) e registrando così cantilene, alveari neozelandesi, il cinguettio degli uccelli latinoamericani e i caprai svizzeri.
L’obiettivo nella mente di Perry non è solo quello di evocare le atmosfere e i riferimenti simbolici, ma è anche quello di dimostrare che la musica può essere trovata ovunque, in una forma o nell’altra.

L’album comprende due atti attraverso sette movimenti che rappresentano le diverse sfaccettature del mito di Dioniso e del suo culto, e assume la forma musicale di un oratorio nello stile cinquecentesco. Le voci utilizzate in questi movimenti rappresentano alcune comunità in festa che cantano e il loro scopo è quello di trasmettere emozioni oltre ai confini del linguaggio stesso.
unnamed (1)
Nonostante l’album prenda ispirazione principalmente dalla storia di Dioniso, la copertina richiama le maschere fatte dagli Huichol, una popolazione della Sierra Madre in Messico, famosa per le perline e per i quadri di filato, ma anche per i riti sacri con il peyote, utilizzato per guarire ed per espandere la mente.
Questo è il cuore di Dionysus, una celebrazione dell’umanità che lavora fianco a fianco con la natura con rispetto e riconoscenza.

ACT I: Sea Borne – Liberator of Minds – Dance of the Bacchantes
ACT II: The Mountain – The Invocation – The Forest – Psychopomp

Inoltre, i Dead Can Dance partiranno per un tour europeo tra maggio e giugno 2019 e passeranno per l’Italia per due appuntamenti live il 26 e il 27 maggio a Teatro Degli Arcimboldi di Milano.

BITS-CHAT: Elogio della lentezza. Quattro chiacchiere con… i Secondamarea

Secondamarea_RayTarantino_b
Chi si ferma è perduto, recita la saggezza popolare, che insegna anche però che la fretta è una cattiva consigliera. Forse la giusta soluzione sta come sempre nel mezzo, ed è quella di rallentare: godersi il viaggio, gustarsi il panorama, raccogliere i dettagli.
Una filosofia di vita che i Secondamarea hanno fatto propria già da tempo e che hanno trasferito in Slow, il loro nuovo disco di inediti, un concept album dedicato appunto alla lentezza e ai suoi vantaggi. Coppia nella vita oltre che nella musica, Ilaria Becchino e Andrea Biscaro ormai da 12 anni hanno preferito lasciare Milano per trasferirsi nei più selvaggi scenari dell’isola del Giglio, dove è nato anche l’album. Ma sarebbe un errore affrettarsi subito a una facile conclusione: nessun inferno metropolitano contrapposto a un paradiso incontaminato. Perché anche negli angoli di Milano si può trovare la lentezza, magari sotto forma di farfalla.

Slow, un titolo di un disco, ma forse, e soprattutto, anche un manifesto di intenti…
Andrea: Sì, è un vero e proprio manifesto, il titolo di un concept album che è anche un modo di vivere, il nostro, un invito che auspichiamo possano accogliere anche gli altri: rallentare, guardarsi intorno, prendersi tempo.

Un modo di vivere che avete sempre avuto o che avete iniziato a seguire da un certo momento in poi?
Ilaria: Non c’è stata una vera rivoluzione nel nostro modo di vivere: sicuramente stabilirci sull’isola del Giglio ci ha aiutato, perché ci permette di stare a contatto con una natura più incontaminata, possiamo osservare il mare, guardare quello che porta a riva la marea, ma questa indole selvaggia, il desiderio di vivere seguendo i ritmi della natura, tra gli animali, era già dentro di noi. Già da prima di decidere di trasferirci sull’isola, anche quando stavamo a Milano: in città ci sono i parchi e gli angoli della metropoli offrono dei bellissimi scorci. Qualche anno fa in Sempione avevo visto una farfalla particolarissima, rossa e viola, che non sono più riuscita a trovare.

A Milano, la città più caotica e frenetica per eccellenza?
Ilaria: Eppure ci sono un sacco di luoghi molto vicini al cuore, luoghi che offrono occasioni di sconfinamento. Se si vuole, anche a Milano si può cogliere il silenzio.
Andrea: Se ci fai caso, Milano ha una fortissima dimensione umana. Abbiamo imparato a misurarla a passi, perché sull’isola ci spostiamo a piedi, e quando torniamo qui percorrere la città a piedi è come attraversare un paese.
Ilaria: Milano è come un insieme di tanti paesi, ognuno con la propria vita: i Navigli, Isola, Lambrate.

Per quanto anch’io riesca a vedere la magia nella città di Milano, quello che state offrendo è un ritratto un po’ inedito della città.
Andrea: In realtà non ci piace molto il luogo comune che vuole Milano come centro della frenesia, perché quella c’è ovunque, anche al Giglio. Non vogliamo contrapporre l’inferno al paradiso, perché tutti i luoghi sono potenzialmente dei paradisi, sta a noi riuscire a vederli in un certo modo.
Ilaria: Anche quando si dice che Milano è grigia si dice una grande bugia, qui ci sono degli azzurri bellissimi.

E allora perché la scelta di trasferirvi sull’isola del Giglio?
Ilaria: Ci siamo conosciuti là e abbiamo voluto vedere cosa riservava quel luogo oltre al mese di vacanza, osservarlo nell’intero ciclo delle stagioni. A volte ci chiedono come abbiamo fatto a abituarci, visto che lì non c’è niente, ma in realtà c’è tutto quello di possiamo aver bisogno.
Andrea: È sicuramente un luogo molto energetico, ma la verità è che ogni persona porta il mondo dentro di sé, dobbiamo imparare a coltivarlo per poterlo ritrovare anche all’esterno.

Contrariamente al titolo del disco, le canzoni sono nate però abbastanza in fretta.
Andrea: Sì, sono tutti brani che ci assomigliano molto e che probabilmente ci portavamo dentro da molto tempo, forse è per questo che poi la realizzazione dell’album è stata piuttosto rapida.
Ilaria: E poi c’è anche da dire che la velocità non è sempre in opposizione alla lentezza. Quando vado a fare un giro in bici posso anche andare veloce, ma se mi lascio andare al momento che sto vivendo sto in realtà rallentando. La velocità può in qualche modo essere lenta.

Quindi quale potrebbe essere una buona definizione di lentezza?
Ilaria: Assecondare il tempo che c’è, non invadere la realtà, ma lasciarsi invadere.
Andrea: È un fatto di sensazione, non di velocità.
RMR-435-Web4
Il disco si apre con C’hanno rubato l’inverno, un brano sui cambiamenti climatici. Un fenomeno sotto gli occhi di tutti, anche se uno degli uomini più potenti della Terra, Donald Trump, si ostina a negarlo. Come pensate sia possibile?
Andrea: È più facile credere a una falsa ideologia che alla realtà, perché si ha paura di perdere privilegi che derivano dallo sfruttamento delle energie del pianeta. Dal Dopoguerra è così, e sarebbe un paradosso se i potenti del mondo si mettessero a far guerra per quello in cui crediamo noi, se fossero cioè disposti a rallentare, a perdere dei privilegi.
Ilaria: Non si ha più voglia di attendere, non si vogliono più aspettare i tempi delle stagioni, rispettare i tempi della natura. Non ci si rende conto che il vero benessere non sta nella quantità, ma nella qualità.
Andrea: E negare che sia in atto un cambiamento climatico è l’unico modo che un politico ha per portare avanti le sue idee, solo così può legittimarsi agli occhi della gente, con il sorriso.

In Pellegrinaggio invece citate Byron.
Andrea: Amiamo molto la poesia, e questo testo in particolare ci piaceva perché descriveva un pellegrinaggio intimo, un modo di errare, e quindi anche di sbagliare, vagabondare.
Ilaria: Un modo di fare pellegrinaggio per portarsi sulla strada giusta.

Nel mondo di oggi, la possibilità di sbagliare e di adottare la lentezza come stile di vita è un lusso per pochi o tutti possono ancora permetterseli?
Andrea: L’errore è il primo inciampo per conoscere, e quindi anche per evolversi, mentre oggi non ci si vuole più evolvere, si preferisce fermarsi al dato di fatto: “noi siamo questo”, e da lì non ci si vuole spostare. Però mi auguro che sbagliare possa essere ancora una possibilità per tutti.

Con quali riferimenti artistici siete cresciuti?
Andrea: Ce ne sono talmente tanti… sarebbe una vera enciclopedia citarli tutti.
Ilaria: Si sono stratificati nel tempo, e ormai è difficile riconoscerli.
Andrea: Negli ultimi periodi abbiamo ascoltato un disco bellissimo di Josh Tillman, e tra gli ascolti recenti potrei citare The National, Glen Hansard, che amiamo molto anche con The Frames.
Ilaria: Poi ripeschiamo molto anche dal passato, per esempio Joni Mitchell, e spesso le influenze non sono neanche dirette, ma ci arrivano dal cinema o dall’ambiente stesso.

L’album si avvale della presenza di musicisti prestigiosi, da Leziero Recigno a Lucio Enrico Fasino, Raffaele Kohler: come li avete coinvolti?
Andrea: Li conoscevamo già, ma il meriti di averli coinvolti nel disco è del nostro produttore, Paolo Iafelice, che è riuscito a ricreare il mood adatto alla nostra musica.
Secondamarea_RayTarantino_b1
Pensate che la rivoluzione digitale sia stata dannosa per la musica?
Ilaria: Su di noi non ha avuto molto effetto, perché siamo due persone che ascoltano ancora i dischi e amano andare a cercarli in giro, però è un processo che ha indubbiamente accelerato i tempi, ed è paradossale che la velocità entri nel processo di ascolto e di ricerca della musica.
Andrea: Si elimina il gusto della ricerca, si ha a disposizione tutto e subito, e questo non permette di farsi le ossa con una cultura musicale approfondita, manca il sedimento. Torna un po’ il tema della lentezza. Mi ricordo che quando andavo nei negozi a cercare i dischi di De Andrè, a volte non c’erano e il negoziante doveva ordinarli, per cui dovevo aspettare per averli: anche questo è un modo in cui si crea affezione verso un artista.

Secondamarea: da dove arriva questo nome?
Ilaria: Da molto lontano (ride, ndr). La marea fa emergere cose, sensazioni, ed è un’immagine che ci piace, ed è la “seconda” perché i primi non piacciono.
Andrea: Poi ha anche un bel suono!

Per concludere, una domanda di rito di BitsRebel: che significato date al concetto di ribellione?
Passano alcuni secondi di riflessione.
Andrea: Penso che dipenda molto dal contesto e dal momento storico, ma oggi la ribellione è fare un disco come Slow. Ogni artista dovrebbe potersi esprimere in totale libertà.