#MUSICANUOVA: Cassio, “Amore ti odio”

#MUSICANUOVA: Cassio, “Amore ti odio”

Volevo portare un fiore
Ma ho trovato chiuso
Ho preso solo le foglie

Un brano di difficile categorizzazione: è dilatato e distorto, maledettamente punk, quasi folk, molto lo-fi, tremendamente emo.

“Amore ti odio” è il nuovo singolo di Cassio.

Un nowhere senza confini, visceralmente umano, una fotografia di vita generazionale, è tutto ciò che non si capisce finché non si vive questa vita.

Il nuovo singolo, che anticipa l’EP “Felice a ½”, parla di amore e paura, mentre il cantautore livornese si prende il lusso di sentirsi meno solo.

Mi chiedi “come stai?”
Di certo non sto
Come i bimbi africani con le mosche addosso
Di certo non sto
Al centro del mondo neanche in cima al mondo
Mi chiedi “dove stai?”
Di certo non su spiagge leopardate
Su un treno di ghiaccioli
Sto dove m’hai lasciato oggi
Sto dove il mare sbava
Sbava tutta la notte
Entro come un ladro in casa
Per baciarti in fronte
Per coprirti con le foglie
Volevo portare un fiore
Ma ho trovato chiuso
Ho preso solo le foglie
Amore ti odio
A volte ti guardo cantare da sola
E non ho mai il coraggio
Di dirti “amore sei bella ma a cantare non sei buona a un cazzo”
Vorrei essere già vecchio con te
Vorrei essere già vecchio con te
Per vedere se è vero che
Diventiamo vecchi insieme io e te
Mi chiedi “dove vai?”
Corro tutto il giorno
Per sdraiarmi la notte su un tappeto di farfalle
A dormire abbracciati con le mosche intorno
Portami a casa
Andiamo a casa amore
A colorare i gatti neri
I cani di velluto
I pensieri felici con la matita giallo ocra
Sono tutti poeti
Mentre rubo le foglie
Mentre la luna si scioglie
Amore questa vita non è un girotondo per me
Uno schiaffo al giorno
È dormire col secchio affianco del letto
Amore ti odio
A volte ti guardo cantare da sola
E non ho mai il coraggio
Di dirti “amore sei bella ma a cantare non sei buona a un cazzo”
Vorrei essere già vecchio con te
Vorrei essere già vecchio con te
Per vedere se è vero che
Diventiamo vecchi insieme io e te

Cassio è forse il modo in cui Simone Brondi riesce a stare al mondo senza sentirsi del tutto perso, raccontandosi e raccontando delle camere più scure in cui ha vissuto e che dentro di lui ancora vivono.

Simone è un cantautore livornese di 30 anni che si approccia alla scrittura molto presto. In adolescenza entra a far parte di un gruppo punk, i Tinkerbell. Nel 2010 fonda un gruppo gypsy-psichedelico, La Maison, che lo porta a suonare per le strade di Londra i due anni successivi. Nel 2014 La Maison pubblica Vaine House, prodotto da Enrico Gabrielli e Taketo Gohara, e rimane in tour fino al 2016 quando il gruppo si scioglie.

Comincia una manciata di anni di buio, nel punto più fondo del buio. Nel 2020 Simone entra nuovamente in studio e registra il disco d’esordio da solista, prodotto da Andrea Pachetti (The Zen Circus, Emma Nolde). La pubblicazione di quattro singoli estratti sfocia alla fine del 2022 nell’uscita del suo primo album, 19 Luglio 1944, un ritratto di famiglia e di sé, scritto tra le quattro mura di casa.

“Hertan”, il cuore oscuro dei Wardruna batte il suo ritmo arcaico

“Hertan”, il cuore oscuro dei Wardruna batte il suo ritmo arcaico

“‘Hertan’ è la parola proto-scandinava per ‘cuore” ed è esattamente ciò che vogliamo esplorare con questa canzone. La dualità del cuore con il ritmo, il flusso e le sue pulsazioni, tutte cose che possiamo ritrovare in natura.
L’idea più astratta del cuore, Il timone sulla nave delle emozioni, le nostre decisioni e i nostri veri desideri.”

Così il cantante dei Wardruna, Einar, ha presentato Hertan, il singolo che segna il ritorno della band norvegese sulle scene internazionali.

Il gruppo scandinavo, alfiere del neofolk norvegese, torna sulle scene con un brano epico e oscuro, scandito dal ritmo imperioso di tamburi e percussioni.

Per il video, la band ha collaborato con il regista e fotografo finlandese Tuukka Koski, che già in passato aveva diretto le clip di Raido, Voluspá e Grá.

Il video è stato filmato in Finlandia e nell’isola di Hailouto: “È sempre un vero piacere creare arte con Tuukka e i suoi colleghi di Breakfast Helsinki! La sua esperienza e l’attenzione per i dettagli, nonché la capacità di evocare sempre materiale di livello, sono molto stimolanti. Tre giorni, tre location, niente sonno ma molto cuore, ecco come è andata. Godetevi il risultato!”

BITS-RECE: James Jonathan Clancy, “Sprecato”. Pastorale per animi inquieti

BITS-RECE: James Jonathan Clancy, “Sprecato”. Pastorale per animi inquieti

 

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.


Se è vero che un disco non andrebbe giudicato dalla copertina, nel caso di questo album un’eccezione penso sia più che lecita. Se non per giudicarlo prima di averlo ascoltato, almeno per farsi istantaneamente un’idea dello stato d’animo che lo permea.

Soprattutto se – come in questo caso – è il frutto di un intenso scambio di idee, di collaborazioni e di reciproche contaminazioni tra l’artista che l’ha realizzata e il cantautore che firma il disco. Il primo è il disegnatore bolognese Michelangelo Setola, il secondo è il cantautore italo-canadese James Jonathan Clancy. L’album invece si intitola emblematicamente Sprecato, ed è il primo lavoro da solista di Clancy, dopo le esperienze con His Clancyness, A Classic Education, Settlefish e Brutal Birthday.

Tornando alla copertina, ciò che colpisce subito lo sguardo è un’idea profonda di inquietudine e alienazione, uno stato d’animo di tensione fosca, “tempestosa”.

Ed è esattamente questo che traspare – limpido e oscuro – dalle tracce del disco.

Folk, psichedelia, synth-pop, darkwave, ambient, i riferimenti presenti nell’album sono tantissimi, intrecciati tra loro in una vibrazione costante.
I suoni sono ora profondissimi ora eterei, ora armoniosi ora dissonanti.

Clancy spazia tra minimalismo e magniloquenza, tra visioni ariose e oniriche e cadute vertiginose, e con la voce dipinge atmosfere immaginifiche.

Sprecato è un disco che si vede, quasi si tocca, è fatto di tinte ombrose, caliginose, plumbee. Castle Night apre all’insegna di un’intimità tipicamente notturna, A Workship Deal è una nerissima sinfonia post-punk che esplode in un finale ruvido e dissonante, Had It All è una disperazione senza possibilità di ritorno cullata su un arpeggio, mentre Out And Alive cresce e si cosparge di un’aura quasi liturgica.

Tra drums, chitarre e synth, molto interessanti le coloriture create dai sax.

Sprecato suona come quelle giornate di passaggio tra estate e autunno, o tra inverno e primavera, quando la quiete viene travolta da una cavalcata nera e minacciosa di cumulonembi. Quelle giornate in cui gelide e improvvise raffiche di vento scompigliano la natura e agitano i pensieri.

Quelle giornate che preannunciano un cambiamento.

Registrato tra Bologna e Londra, Sprecato è stato realizzato grazie a Suner, progetto di Arci Emilia-Romagna sostenuto dalla Regione Emilia-Romagna nell’ambito della Legge 2 sulla musica.

“Le stelle non brillano solo in cielo”: le “radio girls” rivivono nel nuovo singolo di Ottavia Brown


A volte la musica riesce a dare voce a chi non l’ha mai avuta e a chi non sembra aver lasciato alcun segno nella storia e nel mondo.
E’ quello che è riuscita a fare l’illustratrice e songwriter Ottavia Bruno, in arte Ottavia Brown, con il suo nuovo album, Signora nessuno, in uscita il prossimo 10 aprile per UMA Records.
Un progetto sviluppato in dieci tracce tra rock, folk e atmosfere noir dedicate ad altrettante storie che riaccendono i riflettori su momenti chiave del passato che ancora illuminano il presente, anche se spesso pochi ne sanno riconoscere la luce. Ogni brano è inoltre accompagnato da un’illustrazione che ne racchiude il significato, opere della stessa artista.

Quasi un concept album, a cui fa da apripista il primo estratto Le stelle non brillano solo in cielo.
A ispirare il brano è una storia piuttosto triste avvenuta nel 1917, proprio negli anni splendenti della Belle époque: protagoniste, loro malgrado, furono un gruppo di ragazze ricordate come “radio girls”, operaie, spesso minorenni, in un’azienda statunitense produttrice di orologi, la United States Radium Corporation di Orange, nel New Jersey.
Molte di loro sono state avvelenate dalla vernice radioluminescente presente sui pennelli che inumidivano con la saliva per dipingere i quadranti orologi: l’azienda infatti le aveva infatti rassicurate sul fatto che la vernice al radio fosse del tutto innocua.
Il metallo era stato scoperto dai coniugi Curie solo pochi anni prima, nel 1898, e già Pierre Curie ne aveva intuito la pericolosità
Tuttavia, il carattere luminescente della sostanza fece sì che il radio venne utilizzato per produrre vernici, cosmetici, farmaci e addirittura per arricchire alimenti.
Nel giro di pochi anni, l’esposizione costante al metallo radioattivo causò a molte delle ragazze i primi sintomi di avvelenamento, tra cui la perdita dei denti, la disgregazione del tessuto osseo e l’insorgenza di tumori. Inoltre, fatto piuttosto inquietante, sembra che i loro copri iniziarono a brillare al buio.
Le operaie decisero quindi di citare in giudizio i datori di lavoro, segnando così un punto di svolta in tema di sicurezza sul lavoro.
E ancora oggi le ossa delle ragazze brillano.

Tra gli altri protagonisti dei brani di Signora nessuno vi sono Mary Shelley (Mary non c’è), Moby Dick (Capitano riposa) e Modigliani (Maledetto).

Marilyn Manson rivisita il classico folk “God’s Gonna Cut You Down”


God’s Gonna Cut You Down
è un classico del repertorio folk americano talvolta conosciuto anche con i titoli di Run On Run On for a Long Time, e con cui negli anni si sono cimentati giganti come Johnny Cash e Elvis.

Adesso è la volta di Marilyn Manson, che ne ha realizzato una personale versione dai toni dark, con un video dalle atmosfere apocalittiche girato nel deserto di Joshua Tree.

BITS-RECE: Alberto Nemo, “Olim”. Religione o poesia?

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit. 

Alberto Nemo è uno a cui piace parecchio sperimentare, ed anche uno a cui le idee su cui lavorare non mancano di certo, almeno stando alle sue recentissime produzioni.
Se già con Smania aveva realizzato un’opera densa e fortemente sperimentale che abbracciava elettronica, folk e ambient, con Olim, pubblicato praticamente in contemporanea, cambia radicalmente scenario, ma consegna un lavoro altrettanto ispirato.
Il nono album dell’artista veneto proietta infatti l’ascolto verso terrori più morbidi e rarefatti, senza le vigorose virate stilistiche di Smania, ma appoggiandosi soprattutto sulle atmosfere del folk e dell’ambient. I brani sono stati registrati interamente a 432Hz, e le frequenze dell’album sono utilizzabili a scopi terapeutici.
In una sorta di costruzione ad anello, l’opera si apre e si conclude con due composizioni strumentali, Eniro ed Eliro, dove tra le frange armoniche trovano spazio anche le note dell’arpa celtica e ogni riferimento spazio-temporale si annulla in un’unica, indefinita dimensione. Il cuore dell’album si apre invece ad atmosfere più sacrali, misticheggianti, magiche: Nemo non si risparmia in virtuosismi vocali, mentre i richiami sonori rimandano alle coste mediorientali, piuttosto che agli inni liturgici, aprendosi anche a respiri cinematografici.

La sensazione è di trovarsi a maneggiare un repertorio liturgico di una religione misteriosa, arcana, nata nella notte dei tempi e riesumata integra, e di cui nulla è dato sapere; ma allo stesso tempo niente vieta invece di considerare questi brani come la manifestazione di una umana, misteriosissima e potente vena poetica.
Ispirato da intenti divini o terreni, Olim – e con esso il suo creatore – ha comunque la forza di spalancare la visione su un mondo lontano e straniero.

“Mi sbaglio da un po’”, la svolta in italiano di Wrongonyou


Un ritorno che ha la forma del cambiamento, non fosse altro che per la lingua, che per la prima volta è l’italiano.

Wrongonyou torna sulle scene con Mi sbaglio da un po‘, prima anticipazione del nuovo album in uscita a ottobre.
Il titolo del brano è un gioco di parole che prende ispirazione dal nome d’arte di Marco Zitelli (vero nome di Wrongonyou): la canzone è stata scritta a quattro mani insieme a Zibba e prodotta da Katoo, ed è una liberatoria dichiarazione d’amore.

“A volte mettere da parte l’ego può solo che aiutare sia in una relazione ma anche nell’individualità di ciascuno: mettersi in discussione può solo che essere una svolta! All’interno del brano c’è uno special fatto con un coro gospel che in verità sono semplicemente io che ho sovrainciso 28 volte la mia voce e che dice “a volte è facile, a volte è difficile, ma io ancora credo in noi” . Mi sbaglio da un po’ è la prima canzone che ho scritto per questo disco ed è anche l’unica canzone che ho traslato dall’inglese all’italiano. Proprio per questo, ho voluto che fosse la prima ad inaugurare questo nuovo percorso!”.

Come ha lui stesso affermato, la scelta di scrivere e cantare in italiano è stata dettata al cantautore dalla voglia di togliere ogni filtro al racconto delle sue storie.

Caveleon, nella caverna delle meraviglie


Il mito della caverna è una delle più celebri pagine dell’opera di Platone. Racconta in sintesi questo: alcuni uomini vengono tenuti prigionieri all’interno di una caverna, all’interno della quale vedono proiettarsi sui muri, deformate, le immagini del mondo esterno. Non avendo altro termine di confronto, scambiano quelle proiezioni falsate per la realtà, fino a quando uno di loro riesce a fuggire e a uscire, scoprendo al di fuori un mondo completamente diverso da quello immaginato.
Immaginiamo ora di capovolgere il racconto platonico e di entrare noi stessi all’interno di una particolare caverna per scoprire un mondo nuovo. E’ più o meno quello che succede ascoltando le cinque tracce di Caveleon, omonimo EP di debutto di un progetto nato nel gennaio 2018 dall’incontro fra il polistrumentista e cantautore Leo Einaudi, figlio di Ludovico, la cantautrice Giulia Vallisari, il musicista elettronico Federico Cerati e il batterista Agostino Ghetti. 

Cosa c’entri in tutto questo la caverna, lo spiega proprio Leo Einaudi: “Le canzoni che compongono l’EP sono nate nel nostro piccolo studio in un seminterrato a Milano, lo abbiamo chiamato ‘The Cave’. E’ stato come aprire una grande porta e ritrovarsi in un luogo familiare ma allo stesso tempo inesplorato, in cui tutto ti sorprende e prende una nuova forma in modo molto naturale. Veniamo tutti da background musicali molto diversi. Questo ci ha permesso di avere grande libertà nella scrittura, amiamo i dettagli e i contrasti e ci piace pensare che grazie a questo Caveleon sia un progetto in continua evoluzione, che si arricchisce giorno dopo giorno delle influenze che ciascuno di noi porta con sé”.

Ed è così che negli anfratti silenziosi e appartati della loro caverna, i Caveleon hanno lavorato per mettere insieme il blues, il folk, l’indie pop, facendo ricorso anche all’elettronica, condensando poi il tutto in cinque brani nati da una totale libertà dagli schemi e dagli stili, in cui avanguardia, sperimentazione e tradizione si confondono tra loro.

Adesso che i Caveleon hanno socchiuso la porta della loro caverna, sta a noi fare il passo per entrarci e ascoltare come suona il loro mondo.

 

 

Ti ho scritto una lettera. Quattro chiacchiere con… The Leading Guy


Non a tutti i musicisti capita di fare un esordio come quello di The Leading Guy: nel 2015 il suo primo album Memorandum è stato infatti accolto con pressoché unanime entusiasmo da tutta la critica, inaugurando così il suo personale percorso cantautorale.
Quattro anni dopo, per il bellunese Simone Zamperi è arrivato il momento di un nuovo lavoro, Twelve Letters, un album che ha attirato anche l’attenzione di una major come Sony Music e di un’artista come Elisa, che lo ha personalmente voluto per aprire i concerti del suo ultimo tour.
Un disco che ha lo spirito verace del folk e del rock, ma anche i contorni un po’ romantici di una lettera intima scritta a cuore aperto con carta e penna e indirizzata a un destinatario che forse non la riceverà mai o sceglierà di lasciare in sospeso la sua risposta.
Partiamo dall’inizio: chi è The Leading Guy?
Sono nato a Belluno e ho trascorso un lungo periodo in Irlanda, per poi fare ritorno in Italia a Trieste, la città che mi ha adottato. Musicalmente parlando arrivo da un disco d’esordio, Memorandum, molto diverso dal nuovo album.

Che cosa ti ha portato verso una nuova direzione?
Volendo avrei potuto fare un album simile al precedente, ma sentivo che sarebbe stato sbagliato, per cui mi sono preso il tempo per capire cosa volevo davvero comunicare. Quando ho avuto tra le mani i brani in versione chitarra e voce mi sono reso conto che erano molto diversi dagli altri nella struttura e ancora di più nel messaggio. Forse un po’ egoisticamente, le canzoni di Memorandum parlavano molto di me, erano come un’analisi, queste invece sono proiettate verso l’esterno, creano quasi un confronto, un dibattito. Da qui è arrivata anche la decisione di circondarmi di musicisti e di riempire il disco con molto suono: dopo tre anni passati a fare concerti sempre da solo avevo voglia di avere accanto qualcuno. Quello che ne è venuto fuori è un disco molto vario, in cui a ogni canzone è stato messo un vestito diverso.

Un disco molto vario che hai scelto di aprire con un brano cupo come Black: perché?
Suona molto bene come prima canzone di un disco: schiacci play e rimani colpito. Dura poco, ma è tuonante: può essere considerata come le tredicesima traccia di Memorandum, è il modo per riallacciarmi a dove ero rimasto con l’altro album e da lì ripartire. Metterla in mezzo avrebbe spezzato il racconto. E poi mi piaceva l’idea che la prima parola dell’album fosse proprio “black”, è un richiamo al mondo delle mie influenze. Qualcuno potrebbe magari spaventarsi, ma il resto del disco va verso la positività.

Non hai paura che qualcuno possa invece fermarsi lì e farsi un’idea sbagliata dell’album?
Ammetto che è una canzone abbastanza catastrofica, c’è un messaggio ambientale un po’ apocalittico, ma alla fine arriva anche la speranza. No, di paura non ne ho: in Memorandum non c’era nessun brano che potesse essere scelto come singolo, ma l’ho fatto lo stesso, per cui posso fare anche una canzone così.

Il titolo e la copertina dell’album mettono al centro il concetto della lettera “come si faceva una volta”: per te che significato ha?
Quando mi son ritrovato il disco finito tra le mani ho capito che il filo conduttore dei brani era quello di una lettera indirizzata a un destinatario, reale o simbolico: ad alcuni ho anche inviato davvero in anteprima la canzone in forma di lettera. Quando in passato si scrivevano le lettere, si aveva il tempo di pensare, correggere, e magari alla fine si decideva di non spedirla, ma le parole restavano lì. Credo che dovrebbe essere così per chi scrive canzoni: prendersi il tempo di scrivere, cancellare, rifare. Una lettera non è una mail che si può cestinare con un clic, la si può bruciare, ma il messaggio arriva comunque in modo diverso. E anche chi ascolta una canzone dovrebbe leggerla come si legge una lettera, tornarci su per capire se si è davvero capito tutto quello che c’è scritto. L’ultimo brano dell’album, Can You Hear Me Now?, è una richiesta d’aiuto, ma anche un modo per chiedere di ascoltare e capire bene quello che sto dicendo.

Tutti i brani hanno un destinatario preciso?
No, sono messaggi che possono essere rivolti a chiunque, ma tutti hanno alle spalle una lunga riflessione e tutti hanno uno stile diverso. Free To Decide può essere per esempio le lettera che invieresti a un amico, mentre Black è la lettera incazzata che invieresti al sindaco del tuo paese per dirgli che le cose non vanno. Un paio hanno invece dei destinatari eali, amici che non ci sono più.

Da quanto tempo non scrivi e non ricevi una lettera?
Almeno 13 anni, se si parla di una lettera vera e propria, scritta e imbucata con il francobollo. L’idea di portare la lettera nei brani mi è venuta proprio facendo questa riflessione. Ho 32 anni, sono cresciuto quando le lettere si scrivevano. Ho provato anche a fare un sondaggio tra i miei fan, e ho scoperto che alcuni di loro le spediscono ancora.

L’introspezione sembra essere un elemento che ti caratterizza. E’ così?
Nella vita sono un tipo abbastanza “caciarone”, posso avere molte maschere, ma nella musica non lascio entrare la confusione, tutto deve essere pensato e ponderato: solo quando suono e soprattutto quando scrivo riesco a trovare un’introspezione vera. Scrivere non è un hobby, è qualcosa che esige rispetto.

Metti molti filtri tra i tuoi pensieri e la tua scrittura?
Sì, c’è parecchio filtro tra quello che mostro e quello che scrivo, e spesso le persone si confondono ascoltando la mia musica. Succedeva soprattutto con Memorandum, dove svelavo molto di più del mio passato, cose di cui non avevo mai parlato. Forse è sbagliato, perché ci deve essere somiglianza tra ciò che sei e quello che scrivi, ma tutti abbiamo un lato oscuro da nascondere. Le mie canzoni sono solo una parte di me, una parte che cerco di esorcizzare. Se fossi solo quello che metto nelle canzoni forse mi sarei già impiccato! (ride, ndr) Metto la tristezza nella musica per trovare gioia nella vita.

Ma anche nel disco si vede la gioia…
Sì, e me ne sono stupito anch’io. Penso che sia dovuto alla voglia che avevo di condividere: forse per un periodo l’avevo dimentica e ora ho ritrovato la gioia di fare le cose insieme agli altri.

Tu ed Elisa come vi siete conosciuti?
Ho conosciuto prima suo marito, Andrea Rigonat, che è anche il suo chitarrista: eravamo entrambi giudici in un concorso per giovani musicisti, e sono riuscito e fargli sentire Black, e lui non si spaventato! (ride, ndr) Sapevo che Elisa stava per partire con il tour e sono riuscito a far sentire il brano anche a lei: le è piaciuta, e non era scontato, e così ha deciso di portarmi con lei per aprire i suoi concerti. Sarò impegnato per tutto il mese di maggio e penso che solo alla fine di questa esperienza riuscirò a realizzare meglio quello che è successo, ma sono sicuro che sarà una grande lezione per il futuro.

Un altro progetto in cui sei stato recentemente coinvolto è quello di Faber Nostrum, al quale hai partecipato con la cover di Se ti tagliassero a pezzetti. Quella che esperienza è stata?
Ci è stata lasciata grande libertà sulla scelta del brano, anche perché sarebbe stato crudele ritrovarsi a interpretare un brano di De Andrè imposto da altri. Ne ho provati molti, finché ho capito che con Se ti tagliassero a pezzetti mi sentivo più a mio agio, mi ritrovavo di più. Cantare in italiano è stato uno choc, non è stato facile convincermi che ci sarei riuscito, soprattutto con De Andrè, ma ho pensato che era meglio di iniziare con una bella canzone. Credo inoltre che progetti come questo sono importanti perché fanno conoscere De Andrè alle nuove generazioni: non è scontato che oggi un ventenne sappia chi è, ma mi fa piacere quando in rete leggo i commenti alla mia cover da parte di ragazzi molto più giovani.

Potrebbe quindi essere uno spunto per iniziare a scrivere e cantare in italiano?
Non è che non abbia voglia di farlo, ma credo di non essere pronto, tecnicamente più che umanamente. Cantare in italiano sarebbe come ripartire da zero, non basta traslare la parole: la tecnica e la respirazione sono completamente diverse, e l’italiano è una lingua molto difficile. Ci ho messo 14 anni a imparare a scrivere bene canzoni in inglese, adesso voglio farle ascoltare un po’. Per l’italiano posso aspettare.

Concludo con una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di “ribellione”?
La vera ribellione è smettere di vedere i propri sogni irrealizzabili: ho iniziato a vivere bene e stare meglio quando ho capito che non ci stavo riuscendo con la musica perché avevo paura di buttarmi. Non so nuotare, ma in estate lavoravo come tuttofare in uno stabilimento balneare, tenendomi l’inverno per la musica: il mio gesto di ribellione è stato mollare del tutto il lavoro e investire nella musica, che oggi è la mia vita. Spesso ci si lamenta per come vanno le cose e si dà la colpa agli altri, invece bisognerebbe iniziare a prendersi la responsabilità dei propri insuccessi e uscire dalla propria tranquillità. E a volte non sono neanche insuccessi, semplicemente non ci si prova nemmeno.

La Berlino di George Herald tra suoni folk e animo punk

“Da quando ho visto il muro di Berlino dal vivo e le immagini della sua caduta, ho sempre pensato che sarebbe stato bello esserci quella notte del 9 novembre 1989. Non so bene perché, ma alla fine Fabio Copeta ha fatto in modo che quella sera ci fosse una mia canzone”.
E così, le immagini ormai entrate nella storia della caduta del muro di Berlino si accompagnano alle note acustiche di Berlino, il nuovo singolo di George Herald estratto dell’EP Per tutto ciò che vale.

Cantautore dall’attitudine punk ma prestato al folk (“Sono George Herald e scrivo canzoni folk” è la semplice formula con cui si presenta sulla sua pagine Facebook), George inizia a fare musica per “colpa” di suo fratello, che gli ha lasciato in camera le chitarre dei tempi in cui da adolescente militava nella punk band Macachi Trauma Center. Un inverno di qualche anno fa, preso dalla noia e dal freddo, George ha preso in mano quella acustica e ha iniziato a scrivere canzoni.