Dal blues alla house: fuori i remix ufficiali di “Times” di The Leading Guy


Anno decisamente fortunato per The Leading Guy, al secolo Simone Zampieri: l’uscita del secondo album Twelve Letters, l’invito di Elisa per aprire le date del suo tour nei teatri e la partecipazione al progetto Faber Nostrum con la cover di Se ti tagliassero a pezzetti.
Ora, a conferma di una credibilità sempre più consolidata arrivano anche i remix ufficiali di Times, singolo estratto dall’ultimo album e già scelto per la campagna pubblicitaria di Davidoff. Dal mondo rock e blues le sonorità di The Leading Guy arrivano così alla dance grazie alle nuove versioni realizzate da Addal, nome di punta della house italiana autore di remix per artisti come Rihanna, Avicii e Tom Walker, Albert Marzinotto, vincitore nel 2015 del format “Top DJ” prodotto da Sky, e KeeJay Freak, compositore, produttore e remixer attivo sulle scene dal nu-jazz al pop alla techno.

Caveleon, nella caverna delle meraviglie


Il mito della caverna è una delle più celebri pagine dell’opera di Platone. Racconta in sintesi questo: alcuni uomini vengono tenuti prigionieri all’interno di una caverna, all’interno della quale vedono proiettarsi sui muri, deformate, le immagini del mondo esterno. Non avendo altro termine di confronto, scambiano quelle proiezioni falsate per la realtà, fino a quando uno di loro riesce a fuggire e a uscire, scoprendo al di fuori un mondo completamente diverso da quello immaginato.
Immaginiamo ora di capovolgere il racconto platonico e di entrare noi stessi all’interno di una particolare caverna per scoprire un mondo nuovo. E’ più o meno quello che succede ascoltando le cinque tracce di Caveleon, omonimo EP di debutto di un progetto nato nel gennaio 2018 dall’incontro fra il polistrumentista e cantautore Leo Einaudi, figlio di Ludovico, la cantautrice Giulia Vallisari, il musicista elettronico Federico Cerati e il batterista Agostino Ghetti. 

Cosa c’entri in tutto questo la caverna, lo spiega proprio Leo Einaudi: “Le canzoni che compongono l’EP sono nate nel nostro piccolo studio in un seminterrato a Milano, lo abbiamo chiamato ‘The Cave’. E’ stato come aprire una grande porta e ritrovarsi in un luogo familiare ma allo stesso tempo inesplorato, in cui tutto ti sorprende e prende una nuova forma in modo molto naturale. Veniamo tutti da background musicali molto diversi. Questo ci ha permesso di avere grande libertà nella scrittura, amiamo i dettagli e i contrasti e ci piace pensare che grazie a questo Caveleon sia un progetto in continua evoluzione, che si arricchisce giorno dopo giorno delle influenze che ciascuno di noi porta con sé”.

Ed è così che negli anfratti silenziosi e appartati della loro caverna, i Caveleon hanno lavorato per mettere insieme il blues, il folk, l’indie pop, facendo ricorso anche all’elettronica, condensando poi il tutto in cinque brani nati da una totale libertà dagli schemi e dagli stili, in cui avanguardia, sperimentazione e tradizione si confondono tra loro.

Adesso che i Caveleon hanno socchiuso la porta della loro caverna, sta a noi fare il passo per entrarci e ascoltare come suona il loro mondo.

 

 

Il soul e l’hip-hop portano a Roma. Quattro chiacchiere con… Ainé


Si scrive Arnaldo Santoro, si legge Ainé, e il suo nome appartiene a buon diritto alla nuova generazione del soul italiano.
Nonostante non abbia ancora tagliato il traguardo dei 30 anni, tra le sue esperienze può vantare un periodo di studio alla Venice Voice Accademy di Los Angeles e una borsa di studio della Berklee College of Music di Boston.
La predisposizione all’eclettismo lo porta nel 2016 anche verso il jazz e alla collaborazione con Sergio Cammariere in Dopo la pioggia, poi è la volta del primo album, Generation One, a cui segue l’anno successivo l’EP UNI-VERSO.

Pop, soul, blues, hip-hop: sono queste le lingue del mondo sonoro di Ainé. Lingue che si incontrano, si scambiano e si fondono, fino a non distinguersi più, mantenendo ferma la lezione del passato, ma aprendo gli occhi sul presente e sul futuro.
Di questo talento si accorge anche Giorgia, una che con il soul ci ha giocato da sempre, e che nel 2018 coinvolge il ragazzo nel duetto di Stay, da inserire nel suo primo album di cover, Pop Heart.
Un riconoscimento importante, ma anche l’ultimo grande atto che ha anticipato l’uscita del nuovo album, Niente di me, pubblicato lo scorso 18 gennaio.
A sancire la nascita del nuovo astro del soul nostrano è anche la benedizione di Mecna, che nel disco collabora in Mostri, e Willie Peyote, ospite in Parlo piano.

Il tuo nuovo album si intitola Niente di me, anche se ascoltandolo sembrerebbe che tu ci sia dentro fino in fondo. Una contraddizione voluta?
E’ un po’ una provocazione, volevo lasciare al pubblico la possibilità di interpretare il titolo a seconda di come lo percepiva, vedendoci dentro tutto o niente di me stesso. La realtà è che in questo disco c’è molto di me.

Ti sei posto degli obiettivi prima di realizzarlo?
Crescendo si cambia sempre, umanamente e musicalmente. Anzi, più che in continuo cambiamento, preferisco vedermi in continua evoluzione: oggi non sono più quello che ero 6 mesi fa, e fra 6 mesi non sarò più quello che sono oggi. Con questo album ho voluto segnare il punto di partenza per un percorso nuovo del mio progetto. In tutti i miei lavori ho voluto sperimentare, perché è più divertente cimentarsi in cose nuove. Anche se i brani sono molto diversi tra loro, li accomuna il suono che ho voluto dare insieme alla mia band: volevo che ci fosse un suono “vecchio stile”, realizzato con una settimana in studio per stabilire gli arrangiamenti e poi registrato in presa diretta. La magia di questo disco sta proprio qui.

Rispetto al passato in cosa credi che sia davvero diverso questo album? Hai lavorato più in autonomia? 
No, c’è sempre stato un equilibrio tra il mio lavoro e quello delle persone che lavorano con me, e la mia firma nei brani c’è sempre stata. Prima però con la band era sempre un lavoro di ricerca, adesso credo che siamo riusciti ad arrivare a un punto fermo.

Con quali artisti ti sei formato?
Tra gli italiani soprattutto molti cantautori, Pino Daniele, Lucio Battisti, Lucio Dalla. Tra gli stranieri invece spazio veramente tanto tra Michael Jackson, Stevie Wonder, John Mayer, Justin Timberlake, Jamiroquai, Marvin Gaye, Chet Baker, Miles Davis, e poi l’hip-hop. Ascolto tantissima musica diversa.

Direi che dall’album questa varietà di influenze esce molto bene. Forse però in Italia la cultura soul e r’n’b non ha ancora un terreno molto solido, non pensi?

Secondo me ormai i confini geografici dei generi sono stati abbattuti, come era giusto che accadesse già tempo fa. Artisti come Kendrick Lamar, Anderson Paak, Marcus Miller, Tyler, the Creator possono avere successo in America come qui in Italia, è musica che si sente tutti i giorni, non suona più estranea. Credo anche che non sia corretto parlare di r’n’b, è un termine sbagliato: bisognerebbe parlare di hip-hop e soul. Prima esisteva il rhythm & blues, che però è una cosa completamente diversa, più old school. La definizione di r’n’b viene usata soprattutto quando si vuole dare un nome diverso all’hip-hop e al soul, ma le basi sono sempre quelle. Senza contare che oggi sono entrate anche contaminazioni dal rock, dal pop o dal jazz. Sono stato tra i primi a portare in Italia questo genere e a dargli credibilità quando non lo faceva ancora nessuno, mentre oggi vedo che ci sono altri giovani artisti italiani che hanno iniziato a proporlo.

A proposito di pop e di soul, ti abbiamo sentito duettare con Giorgia in Stay.
Ci eravamo già incontrati per il video di Non mi ami, a cui compaio mentre suono il piano, ma in questa occasione abbiamo lavorato davvero insieme. Tutto è nato con la massima naturalezza: lei mi ha scritto su Instagram proponendomi il brano e io sono subito andato a Milano per inciderlo.

Dopo le tue esperienze in America hai mai pensato di fermarti all’estero per fare musica o sei sempre stato convinto di voler tornare in Italia?
Ho sempre saputo di voler tornare: amo il mio Paese, la mia città, qui ho i parenti, gli amici, la fidanzata, e come si vive in Italia non si vive da nessuna parte. Sono stato tanto all’estero e sicuramente tornerò ancora in giro a suonare, ma la mia stabilità l’ho trovata qui. Ho da poco preso casa da solo vicino alla campagna di Roma.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Per me è sinonimo di libertà: libertà di espressione, di parola, di pensiero. Più che ribelli, dovremmo essere liberi. Sani e liberi.

DarKer, il blues made in Mumbai di Tum

Dai Pocket Chesnut al primo progetto solista, passando per Mumbai.
Si può riassumere così il percorso che ha portato Tum, al secolo Tommaso Vecchio, alla realizzazione di DarKer, il singolo che lo vede per la prima volta in solitaria, senza la band con cui per otto anni ha condiviso lo studio di registrazione e il palco.

DarKer è stato scritto a Mumbai ed la storia di un viaggio, che come spesso accade non è solo fisico ma anche metaforico: a Mumbai Tum ha imparato a suonare l’ukulele, l’unico strumento che potesse portarsi nello zaino durante le sue migrazioni, e insieme a Vernon Noronha, musicista indie-folk conosciuto durante il suo soggiorno in India, ha iniziato a scrivere canzoni.
Al ritorno in italia i brani sono stati ri-arrangiati con l’aiuto di Gabriele Galbusera (Doc Brown), Stefano Elli (Impression Material), Lorenzo Fornabaio (The Remington), Raffaele Bellan (Canada) e il giovanissimo batterista jazz Pietro Gregori.  

DarKer è diventato così un “rotten blues” con influenze ipnotiche.

Il videoclip che accompagna il brano è un montaggio onirico di vita quotidiana indiana tra Mumbai, Agra, Matheran e Nuova Delhi, e montato dal regista Alessandro Valbonesifilmato.

BITS-RECE: Tano e l’ora d’aria, Tano e l’ora d’aria. Canzoni di evasione

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Per un detenuto, l’ora d’aria è quell’unico momento della giornata in cui può ritrovare per un po’ se stesso e assaporare sulla pelle una parvenza di libertà, alzando magari gli oggi verso quel rettangolo di cielo per sognare l’evasione. Un momento di solitudine e insieme di condivisione, vissuto con tutti gli altri detenuti, ognuno con la sua storia diversissima dall’altra, ma tutti lì, trattenuti in un non-luogo.

Questo disco è proprio come un’ora d’aria, come dice già il suo titolo e come ha scelto di chiamarsi il quartetto di musicisti che lo ha scritto e suonato, Tano e l’ora d’aria.
E’ un disco che inizia a prendere forma un po’ di anni fa, verso il 2010, e che solo oggi diventa realtà: in questi otto anni è cresciuto, ha aggiunto storie alle storie, che si ritrovano ora a convivere in un unico ambiente, come nel cortile di un’ora d’aria.
E come in un’ora d’aria anelano alla libertà. O meglio, cercano l’evasione, nei temi e nella forma: sono canzoni “licenziose, sfacciate e provocatorie ma anche languide, tragiche, grottesche”, qualcuna colpevole, qualcuna innocente, tutte accomunate da un’attenta scelta delle parole. Non sono ancorate a nessuno stile in particolare, perché sono figlie del teatro-canzone, di un cantautorato recitato, del blues, del rock’n,roll, del gospel, del cabaret, del burlesque; sono ironiche, dissacrati, commoventi.

Raccontano le debolezze della vanità umana, l’amore, il peccato, le falle della nostra società, i piccoli e grandi mali
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Ma più di ogni cosa, le dodici storie di questo album sono libere, e da quel cortile di ora d’aria cercano la via per uscire dagli stereotipi e dai luoghi comuni di una musica troppo spesso obbediente alle sole regole del mercato.

BITS-CHAT: Riaccendete il Marshall! Quattro chiacchiere con… Mike Sponza

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Ogni decennio lascia dei segni indelebili nella memoria: se gli anni Ottanta sono stati il periodo del synth-pop e di qualche esperimento di discutibile valore e gli anni Settanta hanno rappresentato il momento più luccicante della disco music, gli anni Sessanta sono giustamente ricordati come il decennio del rock e del blues.

Ma sono anche gli anni che hanno visto una grande rivoluzione della società e del pensiero, con gli ideali di libertà della Summer of Love del ’67, le proteste giovanili del ’68 e il grande festival di Woodstock del ’69.

Agli anni Sessanta ha dedicato il suo ultimo album Mike Sponza, uno che il blues e il rock li ha ormai nelle vene: Made In The Sixties, questo il titolo del disco, è stato registrato agli Abbey Road Studios di Londra e ripercorre gli eventi di quel decennio in 10 pezzi, uno per ogni anno.
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Cosa significa essere “Made In The Sixties”? In altre parole, come è stato vivere in prima persona gli anni Sessanta e come ti sei trovato a raccontare oggi in un disco quel decennio?

In realtà ho vissuto per poco quel decennio, ma sono cresciuto circondato da quel feeling per tutti gli anni della mia infanzia, e quindi l’imprinting è stato forte. Essere “Made In The Sixties” significa per me volere fare le cose bene e con calma, rispettando chi ti sta vicino, puntando ad un continuo miglioramento, dare spazio alla creatività ed alla umanità, in empatia con gli altri. Quando ho avuto l’idea del concept per questo album, mi sono messo a fare subito un lungo lavoro di ricerca, per poi lasciare spazio alla pura creatività sia per i testi che per la musica, uscendo dal mio passato di “osservante” dei canoni del blues.

L’album vede la partecipazione di numerosi ospiti, protagonisti degli anni Sessanta: come è nato il loro coinvolgimento nel progetto?
Mi è sempre piaciuto avere ospiti nei miei progetti discografici, è un modo per arricchire l’album con sonorità diverse da quelle che propongo dal vivo. In Made In The Sixties, la presenza più importante è sicuramente quella di Pete Brown in veste di coautore dei brani: è un’icona del rock blues, ed è la penna dietro successi come Sunshine of your love, White Room, I Feel Free: Eric Clapton lo definisce il quarto membro dei Cream. La possibilità di lavorare con lui ha dato una forte spinta creativa ai brani. Con Dana Gillespie, protagonista importante della scena musicale londinese dei secondi anni Sessanta, siamo amici e collaboratori da anni, ed è uno dei miei link diretti a quel mondo della “swinging London” che è un po’ la mia ossessione.

Negli anni Sessanat il rock, e forse la musica in generale, avevano anche una valenza sociale e politica: un valore che forse oggi la musica non ha più, sei d’accordo? Cosa secondo te ha portato a questo cambiamento?
Penso che tutte le forme artistiche degli anni Sessanta avessero una forte valenza sociale e politica: si dicevano cose importanti attraverso le canzoni, ma anche attraverso la pittura, il teatro e i libri. La musica era sicuramente un medium per trasmettere forti messaggi. Oggi quasi tutto quell’approccio si è perso, sono d’accordo: penso in gran parte a causa dello schiacciamento che gli artisti oggi subiscono dalle logiche commerciali imposte dalle major, dai mass media, e dalle nuove forme di consumo della musica. È un processo irreversibile? Forse no. Credo che prima o poi arriverà un momento in cui una generazione si romperà le palle di ascoltare la spazzatura che ci viene imposta. Ci sarà una ribellione verso la musica vuota, come c’è stata verso la metà degli anni Sessanta. Qualche giovane band prima o poi deciderà di spegnere il computer e di accendere il Marshall.

Il disco racconta gli anni Sessanta in 10 pezzi, che sono anche 10 storie, una per ogni anno del decennio. Immaginando però di aggiungere un undicesimo tassello a questo quadro, cosa ti sarebbe ancora piaciuto raccontare degli anni Sessanta?
Avrei voluto avere lo spazio per parlare di tutto il movimento per i diritti civili, che ha attraversato tutta la decade: alcune cose le abbiamo raccontate in qualche verso, ma è un argomento troppo “corposo” per essere racchiuso in un’unica canzone.
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Quale credi che sia la più grande eredità o il più grande insegnamento che gli anni Sessanta hanno lasciato nella memoria e nella società? E cosa pensi invece che si sia perso soprattutto di quel decennio?
Vedo molto gli anni Sessanta come un’“età dell’oro”, che ha lasciato in tutti i campi dei grandi classici senza tempo, validi ancora oggi. Mi riferisco alla musica, ma anche al design, alla moda, alla cinematografia, alla letteratura. Credo che l’insegnamento principale sia quello di creare liberamente, osando di uscire dagli schemi, ma facendolo in modo da lasciare il segno con qualcosa di qualità indiscutibile. Penso che oggi sia perso questo: il gusto per la sperimentazione e la libera creatività, oggi è tutto soffocato dal marketing.

Pensi che oggi ci siano i presupposti per far risorgere lo spirito e gli ideali degli anni Sessanta?
Secondo me un crash down di internet aiuterebbe… Se parliamo di ideali di progresso e di pace, di uno stile di vita rispettoso delle scelte di chi ci sta accanto, di creatività e fuga dalla massificazione, secondo me parliamo di cose mai veramente scomparse anche a distanza di cinquant’anni. Penso che molti giovani le stiano ripescando, anche in modo inconsapevole, forse proprio perché se ne sente bisogno.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che definizione dai al concetto di ribellione?
Cercare di essere normali oggi è un forte atto di ribellione. Costruirsi uno stile di vita proprio e provare a vivere secondo i propri valori, è ribellione verso la lobotomia quotidiana. Tutti i gesti di ribellione classici, ormai sono stati anch’essi fagocitati dalle logiche di mercato. Vivere la propria vita è ribellione.

My God Is You: torna il rock psichedelico di Monsieur Voltaire

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Dietro all’anima cantautorale e psichedelica di Monsieur Voltaire si cela Marcello Rossi, musicista toscano attivo dal 1997 in diverse formazioni (Nativist, Greyscale, Najra, Los Dragos, Golden Shower, Bongley Dead, Vittorio Rossi) in cui ha avuto occasione di spaziare dal metal core all’indie noise, dal garage rock-blues al cantautorato pop.

Da solista, con lo pseudonimo di Monsieur Voltaire, nel 2013 ha pubblicato l’album 33 con la produzione di Carlo Barbagallo: un lavoro che gli ha permesso di mostrare le sue eclettiche influenze, che dal cantautorato anglo-americano di Nick Drake, Bert Jansch, Arthur Lee e Syd Barrett, abbracciano esiti psichedelici, grunge e country-rock.

A cinque anni dall’esordio Monsieur Voltaire torna con un nuovo album, My God Is You, che uscirà il prossimo 16 agosto, ancora una volta con la produzione a firma Noja e che ha visto anche la attiva collaborazione di Manuel Volpe (Rhabdomantic Orchestra) al basso e Francesco Alloa (La Moncada, Goat Man Records, Roncea & The Money Tree, Airportmen) alla batteria, affiancati dal lavoro di Barbagallo.
A novembre 2016, in pochi giorni immersi nell’accogliente Spazio Rubedo di Torino, i quattro hanno arrangiato a otto mani e registrato in presa diretta l’intero album scritto da Marcello, e poi completato a marzo 2017 alle pendici dell’Etna da Barbagallo.
La dimensione da band e la ripresa live fanno da sfondo perfetto a una musica che porta con sé riff “stoniani”, blues, funk kravitziano, psichelia arida, post-grunge e cantautorato delirante forte della lezione di Bob Dylan, John Lennon e Paul Weller.

Ad anticipare l’album è il singolo Days.

#MUSICANUOVA: Loners, Envy

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Nel 1977 – 2018, tanta è la strada percorsa dai Loners, band siracusana nata un po’ per caso da Sante Barbagallo e Salvo Rizzuto grazie al ritrovamento di una chitarra acustica Clarissa. Poi, dopo un primo esordio, le vie si sono separate, e poi di nuovo riunite dieci anni fa per un l’album I remember a dream, fino ad arrivare ai giorni nostri: con Gaetano Brancati al basso, Vincenzo Perticone alla chitarra e Alberto Mirabella alla batteria, i nuovi Loners cominciano a lavorare a dieci mani a dieci nuovi brani, registrati nella primavera del 2017 con la produzione di Carlo Barbagallo. 

Il nuovo album If I Only Could verrà pubblicato il 29 giugno dalla Noja Recordings,  ed è anticipato dal singolo Envy​, un sintesi di blues d’oltreoceano, british pop e un ironico abbellimento di psichedelia in stile orgogliosamente siculo.

BITS-RECE: Vertical, Equoreaction. Nel nome del groove

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Groove. Incessantemente groove. Instancabilmente groove.
Groove come una religione, una legge non scritta, ma ovviamente suonata.
Nell’universo interspaziale dei Vertical, popolato da afro-alieni, l’aria pulsa di groove in ogni angolo tra beat, giri di basso e squilli di fiati. Un groove che prende ora le forme del funk, ora quelle dell’afrobeat, ora quelle del blues, ora quelle di un pop psichedelico figlio degli anni ’70.
Tutto questo è concentrato e mescolato nelle quattro tracce di Equoreaction, secondo EP di una trilogia della band vicentina, che segue la pubblicazione di Alpha.
Nel nome del groove.