Il soul e l’hip-hop portano a Roma. Quattro chiacchiere con… Ainé


Si scrive Arnaldo Santoro, si legge Ainé, e il suo nome appartiene a buon diritto alla nuova generazione del soul italiano.
Nonostante non abbia ancora tagliato il traguardo dei 30 anni, tra le sue esperienze può vantare un periodo di studio alla Venice Voice Accademy di Los Angeles e una borsa di studio della Berklee College of Music di Boston.
La predisposizione all’eclettismo lo porta nel 2016 anche verso il jazz e alla collaborazione con Sergio Cammariere in Dopo la pioggia, poi è la volta del primo album, Generation One, a cui segue l’anno successivo l’EP UNI-VERSO.

Pop, soul, blues, hip-hop: sono queste le lingue del mondo sonoro di Ainé. Lingue che si incontrano, si scambiano e si fondono, fino a non distinguersi più, mantenendo ferma la lezione del passato, ma aprendo gli occhi sul presente e sul futuro.
Di questo talento si accorge anche Giorgia, una che con il soul ci ha giocato da sempre, e che nel 2018 coinvolge il ragazzo nel duetto di Stay, da inserire nel suo primo album di cover, Pop Heart.
Un riconoscimento importante, ma anche l’ultimo grande atto che ha anticipato l’uscita del nuovo album, Niente di me, pubblicato lo scorso 18 gennaio.
A sancire la nascita del nuovo astro del soul nostrano è anche la benedizione di Mecna, che nel disco collabora in Mostri, e Willie Peyote, ospite in Parlo piano.

Il tuo nuovo album si intitola Niente di me, anche se ascoltandolo sembrerebbe che tu ci sia dentro fino in fondo. Una contraddizione voluta?
E’ un po’ una provocazione, volevo lasciare al pubblico la possibilità di interpretare il titolo a seconda di come lo percepiva, vedendoci dentro tutto o niente di me stesso. La realtà è che in questo disco c’è molto di me.

Ti sei posto degli obiettivi prima di realizzarlo?
Crescendo si cambia sempre, umanamente e musicalmente. Anzi, più che in continuo cambiamento, preferisco vedermi in continua evoluzione: oggi non sono più quello che ero 6 mesi fa, e fra 6 mesi non sarò più quello che sono oggi. Con questo album ho voluto segnare il punto di partenza per un percorso nuovo del mio progetto. In tutti i miei lavori ho voluto sperimentare, perché è più divertente cimentarsi in cose nuove. Anche se i brani sono molto diversi tra loro, li accomuna il suono che ho voluto dare insieme alla mia band: volevo che ci fosse un suono “vecchio stile”, realizzato con una settimana in studio per stabilire gli arrangiamenti e poi registrato in presa diretta. La magia di questo disco sta proprio qui.

Rispetto al passato in cosa credi che sia davvero diverso questo album? Hai lavorato più in autonomia? 
No, c’è sempre stato un equilibrio tra il mio lavoro e quello delle persone che lavorano con me, e la mia firma nei brani c’è sempre stata. Prima però con la band era sempre un lavoro di ricerca, adesso credo che siamo riusciti ad arrivare a un punto fermo.

Con quali artisti ti sei formato?
Tra gli italiani soprattutto molti cantautori, Pino Daniele, Lucio Battisti, Lucio Dalla. Tra gli stranieri invece spazio veramente tanto tra Michael Jackson, Stevie Wonder, John Mayer, Justin Timberlake, Jamiroquai, Marvin Gaye, Chet Baker, Miles Davis, e poi l’hip-hop. Ascolto tantissima musica diversa.

Direi che dall’album questa varietà di influenze esce molto bene. Forse però in Italia la cultura soul e r’n’b non ha ancora un terreno molto solido, non pensi?

Secondo me ormai i confini geografici dei generi sono stati abbattuti, come era giusto che accadesse già tempo fa. Artisti come Kendrick Lamar, Anderson Paak, Marcus Miller, Tyler, the Creator possono avere successo in America come qui in Italia, è musica che si sente tutti i giorni, non suona più estranea. Credo anche che non sia corretto parlare di r’n’b, è un termine sbagliato: bisognerebbe parlare di hip-hop e soul. Prima esisteva il rhythm & blues, che però è una cosa completamente diversa, più old school. La definizione di r’n’b viene usata soprattutto quando si vuole dare un nome diverso all’hip-hop e al soul, ma le basi sono sempre quelle. Senza contare che oggi sono entrate anche contaminazioni dal rock, dal pop o dal jazz. Sono stato tra i primi a portare in Italia questo genere e a dargli credibilità quando non lo faceva ancora nessuno, mentre oggi vedo che ci sono altri giovani artisti italiani che hanno iniziato a proporlo.

A proposito di pop e di soul, ti abbiamo sentito duettare con Giorgia in Stay.
Ci eravamo già incontrati per il video di Non mi ami, a cui compaio mentre suono il piano, ma in questa occasione abbiamo lavorato davvero insieme. Tutto è nato con la massima naturalezza: lei mi ha scritto su Instagram proponendomi il brano e io sono subito andato a Milano per inciderlo.

Dopo le tue esperienze in America hai mai pensato di fermarti all’estero per fare musica o sei sempre stato convinto di voler tornare in Italia?
Ho sempre saputo di voler tornare: amo il mio Paese, la mia città, qui ho i parenti, gli amici, la fidanzata, e come si vive in Italia non si vive da nessuna parte. Sono stato tanto all’estero e sicuramente tornerò ancora in giro a suonare, ma la mia stabilità l’ho trovata qui. Ho da poco preso casa da solo vicino alla campagna di Roma.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Per me è sinonimo di libertà: libertà di espressione, di parola, di pensiero. Più che ribelli, dovremmo essere liberi. Sani e liberi.

Duvudubà: una raccolta di brani rimasterizzati e un inedito per celebrare il genio visionario di Lucio Dalla

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“Senti che bello, lascia suonare! Lascia suonare!”

Inizia così, con la voce di Lucio sospesa quasi in un’eco della memoria, Starter, l’inedito contenuto nella raccolta Duvudubà: quattro dischi (disponibili anche in versione in triplo LP) per un totale di 70 brani presi dallo sterminato repertorio di uno dei più “irregolari” poeti della canzone italiana e rimasterizzati dai nastri originali.
L’operazione rientra nelle celebrazioni per il 75esimo anniversario dalla nascita di Lucio Dalla e arriva a un anno dalla pubblicazione della Legacy Edition di Come è profondo il mare
Un anno nel quale, ricorda Stefano Patara, responsabile delle sezione Legacy di Sony Music, si è lavorato intensamente al fianco della Fondazione Lucio Dalla per rimasterizzare e ripubblicare tutti gli album di Dalla con particolare attenzione alla ripulitura dei suoni, senza dimenticare Almeno pensami, il brano ancora inedito del repertorio di Lucio portato a Sanremo da Ron.
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Nella tracklist di Duvudubà, il cui titolo riprende un frammento del testo nonsense della sigla di Lunedi Film, composta ed eseguita proprio da Lucio Dalla, trovano posto pietre miliari come 4/3/1943, Quale allegria, Disperato erotico stomp, Marco, L’anno che verrà, Ciao, Caruso, Canzone, Piazza Grande, Attenti al lupo, solo per citare i titoli più celebri. E Poi ancora rarità come Il mago pipo-pò, Amamus Deus, Unknown Love, e un booklet di 60 pagine con racconti e immagini per ripercorre la carriera unica e inimitabile del cantautore bolognese.
“Lucio era tutta anima. Era fantasioso, picaresco, colto, curioso”, dichiara Walter Veltroni, a lungo legato da un rapporto di amicizia con Lucio Dalla e che del cantautore traccia un lucido e appassionato ritratto. “E’ stato per la musica quello che Felini è stato per il cinema. Ha portato nella musica il fumetto, il cinema, lo sport, la coscienza italiana, la speranza, il jazz, il fado. Era più di un cantautore, era un vero intellettuale, e come tutti gli intellettuali era circondato da persone che lo seguivano: amava condividere. Era anche imprevedibile, irregolare, timido e sfrontato, uno dei più grandi bugiardi, perché inventava favole che non esistevano, ma non importa, erano vere lo stesso. Non era un tipo da muri, ma da ponti. Era libero in tutto, anche nelle idee politiche: pur avendo scelto da che parte stare, la sua curiosità lo portava a guardare la realtà da tutti i punti di vista”.

“Negli anni ’70 Bologna viveva una situazione molto movimentata dal punto di vista politico e io appartenevo all’area più estrema della sinistra”, racconta il regista Ambrogio Lo Giudice, “ma Lucio mi ha insegnato a girare intorno alle cose, perché lui era il contrario dell’integralismo”.
A proposito del lavoro per Starter, il regista dichiara: “E’ stato difficile girare il video, perché mancava l’artista. Ho deciso di girare per le strade di Bologna, facendo ascoltare il brano ai passanti e ai negozianti: tutti appena sentivano la voce di Lucio, provavano una grande emozione”.
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Quando il brano è stato recuperato era praticamente già chiuso, Lucio aveva fatto in tempo a finirlo: Tullio Ferro, che con Dalla aveva già lavorato in passato, è intervenuto soprattutto sul mixaggio dei suoni e ha aggiunto la parte di sax, che non è suonata da Lucio, ma che è stata inserita visto il suo amore per gli strumenti a fiato. Si tratta perciò di un brano appartenente all’ultima fase della produzione del cantautore, forse uno dei pezzi che sarebbero dovuti entrare in un album già in lavorazione nel 2012, quando Lucio Dalla è improvvisamente scomparso.
E’ solo degli inediti riscoperti negli archivi bolognesi dell’artista: altri usciranno probabilmente nei prossimi anni, ma si esclude la possibilità di un intero album postumo. Molte cose sono solo abbozzate e troppo lontane dalla forma definitiva che avrebbero dovuto avere, e non renderebbero giustizia alle intuizioni geniali di un eterno cantautore-bambino.

BITS-CHAT: Indie pop made in Parma. Quattro chiacchiere con… I Segreti

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Angelo Zanoletti, Emanuele Santona e Filippo Arganini arrivano da Parma e sono rispettivamente voce e tastiere, basso e batteria dei I Segreti, un progetto musicale nato nel 2015 con un EP autoprodotto e approdato ora al primo album ufficiale, Qualunque cosa sia.
Suonano indie pop, e la loro musica rimanda agli echi del passato, come dimostrano anche i singoli L’estate sopra di noi e Torno a casa.
Dopo un lungo percorso, il loro disco vede la luce, portando un senso di libertà e soddisfazione, soprattutto perché di solito – dichiarano – aDa Parmagli artisti delle città di provincia manca la voglia di guardare fuori.

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Quali sono i “segreti” che custodite? 
Angelo: Se ci fai caso, nei nostri testi c’è sempre qualcosa di introspettivo, le nostre canzoni rappresentano la nostra parte più intima, ecco perché abbiamo scelto di chiamarci così.

Ascoltando i brani dell’album sembra di risentire echi del passato. Con quali riferimenti musicali siete cresciuti?
Filippo: Ognuno di noi ha i suoi riferimenti personali, ma in generale tutti amiamo molto la musica degli anni ’70 e ’80. Anche la copertina dell’album rimanda un po’ a quell’epoca.
Angelo: Tra gli italiani, a me piacciono molto i Baustelle. Credo siano una delle realtà più interessanti in circolazione, e anche nel loro sound ci sono riferimenti agli anni ’70.
Emanuele: Io ho da sempre un amore grandissimo per Lucio Dalla, un grandissimo.

Pensando a Dalla non può non venire in mente Bologna, una città importantissima per il cantautorato italiano. Parma com’è la situazione?
Emanuele: Io direi che tutta l’Emilia è una regione che ha dato molto alla musica italiana, più di tutte le altre regioni. Parma però è purtroppo una città di medie dimensioni, come lo sono Reggio o Modena: queste città tendono a chiudersi in se stesse, si fanno bastare, perché non sono abbastanza grandi da offrire le opportunità di Bologna o Milano e non hanno quella spinta verso l’esterno che invece anima chi viene dai piccoli paesi. Vasco e Ligabue, per esempio, arrivano da due paesini di provincia, Zocca e Correggio, e sono realtà come quelle che danno agli artisti la voglia di uscire verso le grandi città, di “spaccare tutto”. In città come Parma invece si tende a restare fermi, chiusi nei soliti circuiti.

In quanto tempo è nato il disco?
Filippo: E’ stato un lavoro piuttosto veloce: in 6 mesi era pronto. Ma tutto è partito ormai due anni fa, quando abbiamo conosciuto Simone Sproccati, il nostro produttore. Da allora sono successe un sacco di cose, ma in queste canzoni ci ritroviamo ancora perfettamente: è come se le avessimo chiuse qualche giorno fa.

Avete trovato qualche ostacolo in particolare?
Filippo: Direi di no, è stato un percorso lungo, ma armonico: grazie all’EP precedente abbiamo incontrato tante persone che hanno creduto in noi.
Emanuele: Forse il momento più difficile è stato dopo la chiusura del disco, quando davanti a noi si è aperta l’incognita del futuro: non sapevamo cosa sarebbe successo, e per mesi siamo rimasti fermi, quando invece ci aspettavamo di vedere subito dei movimenti.
Filippo: Questa però è anche forse la cosa che ci ha in qualche modo salvato, perché se avessimo fatto uscire subito il disco, oggi saremmo qui a preoccuparci di doverne far uscire un altro. Invece siamo stati fortunati ad aver avuto un percorso più lento, ma ci meritiamo tutto.

In un periodo come questo, difficile per la discografia, molti artisti vedono la realizzazione del disco come un passaggio verso il live, che è spesso considerato l’obiettivo finale. Anche per voi è così?
Angelo: Il live è sicuramente importante, ma mentirei se dicessi che è il momento che preferisco di questo lavoro. Per me è semplicemente un passaggio, una tappa: fa parte del gioco, forse è più importante per chi viene ad ascoltarti.
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Venite indicati come una delle nuove realtà dell’indie italiano. Ma per voi cosa significa essere “indie”?
Filippo: Noi scriviamo semplicemente delle canzoni, facciamo la nostra musica senza pensare a come potrebbe essere catalogata. Definirla indie serve per inserirla in un canale, che attualmente è quello più in voga in Italia.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato date al concetto di ribellione?
Emanuele: E’ un atteggiamento, essere quello che si vuole essere Non è facile, perché può turbare gli altri, e infatti sono in pochi a riuscirci davvero.
Filippo: Per me è più una liberazione dagli schemi che vengono imposti dall’esterno, dalla società, è qualcosa che ha a che fare con se stessi.
Angelo: E’ l’applicazione dei propri il principi e dei propri valori, il coraggio di seguire il proprio istinto.

Il 26 ottobre partirà da Parma il “Qualunque cosa sia un tour”, una serie di appuntamenti live nei club di tutta Italia.
Queste le date confermate
:

26 ottobre – Parma @PULP – Release Party
16 novembre – Trento @BOOKIQUE
17 novembre – Fucecchio (FI) @LA LIMONAIA CLUB
24 novembre – La Spezia @TBA
30 novembre – Milano | FUTURA DISCHI PARTY @LINOLEUM (ROCKET)
1 dicembre – Varese @CANTINE COOPUF
2 dicembre – Como @OSTELLO BELLO
14 dicembre – Treviso @HOME ROCK BAR
21 dicembre – Torino @OFF TOPIC
22 dicembre – Carpi (MO) @MATTATOIO
29 dicembre – Rimini @BRADIPOP CLUB
12 gennaio 2019 – Rosà’ (VI) | FUTURA DISCHI PARTY @VINILE
19 gennaio 2019 – Bologna | FUTURA DISCHI PARTY @COVO CLUB
25 gennaio 2019 – Santa Maria a Vico (CE) @SMAV
26 gennaio 2019 – Avellino @TILT
27 gennaio 2019 – Roma @SPAGHETTI UNPLUGGED
1 febbraio 2019 – Foggia @THE ALIBI
8 febbraio 2019 – Asti @DIAVOLO ROSSO
9 febbraio 2019 – Pistoia @H2O

Ron: “Il mio omaggio alla trasparenza di Lucio Dalla”

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Si intitola semplicemente Lucio!, con un punto esclamativo, quasi come quando si vuole attirare l’attenzione di un amico che si incontra per caso e che non si rivede da tempo.
Sono passati sei anni da quando Lucio Dalla non c’è più, morto improvvisamente in Svizzera una mattina di inizio marzo, solo pochi giorni dopo l’ultima partecipazione a Sanremo.
Solo oggi, nell’anno in Lucio avrebbe festeggiato i 75 anni, Ron, che di Dalla è stato collega, collaboratore e che è tra i pochissimi a potersi dire veramente suo amico, è riuscito a rendergli omaggio con un album: “Quando ti capita un dolore così, vuoi solo startene per i fatti tuoi, tranquillo. Quando lui è morto non ho sentito il bisogno di far sapere che c’ero stato, come invece hanno fatto molti altri”.
Ed è per questo che Lucio! arriva adesso: dentro, 12 brani, 11 rivisitazioni di successi di Dalla e l’inedito Almeno pensami, portata in gara da Ron all’ultimo Festival di Sanremo e vincitore del Premio della critica “Mia Martini”.
Un brano riscoperto grazie alla collaborazione degli eredi di Dalla e proposto a Ron da Claudio Baglioni, direttore artistico del festival: “La canzone doveva far parte di un album che Lucio stava realizzando, ma che non ha fatto in tempo a finire, e di Almeno pensami esisteva già un demo: io non ho modificato niente del testo e della musica, l’ho solo fatto mio, cercando di non perdere quella trasparenza da bambino che apparteneva a Lucio”.
Con lo stesso criterio Ron ha rimesso mano agli altri 11 brani del disco: solo tre di queste canzoni portano la sua firma (Piazza grande, Attenti al lupo e Chissà se lo sai), perché l’intento del progetto non era quello di fare un disco a metà, ma un tributo in cui Dalla fosse al centro: le registrazioni sono avvenute in presa diretta con il solo utilizzo, oltre alla voce e alla chitarra di Ron, della batteria, del basso e del pianoforte.
Un lavoro speciale è stato invece riservato a Come è profondo il mare, l’unico brano del disco cantato da Lucio, di cui Ron ne aveva già curato l’arrangiamento originale. Recentemente si è ritrovato a riascoltare la traccia vocale del nastro, che gli ha dato l’idea per una nuova veste strumentale più sporca e distorta.
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Con il solo grande rammarico di non aver incluso nel disco Le rondini, Ron resta speranzoso sulla possibilità di trovare altri inediti: “Lucio era abbastanza disordinato, lasciava pezzi in giro, per cui non è escluso che da qualche parte ci siano ancora canzoni non ancora incise”.
Il disco è dedicato a Michele Mondella, storico collaboratore di Dalla, scomparso alcune settimane fa.

Ron presenterà del vivo il suo omaggio a Lucio Dalla in due concerti speciali in programma per il 6 maggio al Teatro Dal Verme di Milano e il 7 maggio all’Auditorium Parco della Musica a Roma: due serate interamente dedicate alle canzoni dell’artista bolognese, in uno spettacolo teatrale arricchito anche da contributi inediti. Poi in estate le altre date. 
  

ASPETTANDOSANREMO: "Voglio solo raccontarvi una storia". Quattro chiacchiere con… Mirkoeilcane

Romano, classe 1986, Mirko Mancini ha scelto di presentarsi al pubblico con il nome di Mirkoeilcane, ma non chiedetevi il perché: è un segreto che non vuole svelare.
Ha iniziato a fare musica già da alcuni anni, suonando con diversi artisti e dedicandosi anche alla scrittura di brani per colonne sonore di web serie e film. Poi, nel 2016, è stata la volta del suo primo, omonimo album, che gli è valso importanti riconoscimenti, tra cui il Premio Bindi.

Quest’anno è entrato tra le otto Nuove proposte che partecipano al Festival di Sanremo: si presenta con Stiamo tutti bene, un brano piuttosto distante dai canoni sanremesi, una canzone quasi parlata che è prima di tutto una storia. C’è di mezzo l’immigrazione e un disperato viaggio “della speranza”, descritto dagli occhi inconsapevoli e sorridenti di un bambino. Ma non traete conclusioni affrettate: qui di posizioni politiche non ce ne sono e nelle canzoni di Mirkoeilcane c’è molto di più.
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Qual è la storia che c’è dietro a Stiamo tutti bene? E perché proporre proprio questa canzone alle selezioni per Sanremo?

La canzone è nata da una chiacchiera che ho fatto con un ragazzo, a cui ho dato il nome di Mario, che mi ha raccontato la sua esperienza: una storia atroce, ma che lui mi ha raccontato con un grande sorriso sulle labbra. Questo mi ha spinto a correre subito a casa e trascrivere le sue parole, per poi farne una canzone. Ho voluto proporla per Sanremo quasi come un scommessa.
Essendo una canzone così lontana dai canoni sanremesi non avevi paura che potesse essere accolta male dalla commissione?
Ho 31 anni, e posso dire che ho seguito per 30 anni Sanremo da casa: conosco bene i meccanismi, so cosa ci si aspetta di sentire su quel palco, ma non volevo tradire me stesso, la mia identità, e ho quindi scelto di non cambiare il brano solo perché lo stavo proponendo per quel particolare contesto.
La produzione del brano è di Steve Lyon, che in passato ha lavorato anche con Paul McCartney e Depeche Mode. Come siete entrati in contatto?
Steve si è occupato anche della produzione di tutto il mio secondo mio, che uscirà il 9 febbraio. Ci siamo conosciuti durante un evento a Roma: alla fine della serata abbiamo parlato un po’ e lui ha espresso pareri molto positivi sulla musica, ci siamo trovati in linea su molti aspetti e ci siamo piaciuti anche umanamente. Poter lavorare con lui mi è servito per dare un paio di marce in più al disco e mi ha permesso di imparare molto.
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Non hai paura che la tematica del brano possa generare strumentalizzazioni?
Mi sembra eccessivo parlare di paura, in fondo stiamo parlando di canzoni. Pur con un evidente riferimento all’immigrazione, è semplicemente la storia di un bambino, e sbaglia chi vuole vederci dentro qualcosa di diverso, non c’è nessuna presa di posizione, nessuno schieramento politico. Anche il nome stesso del bambino, Mario, è fittizio. Qualcuno ha provato ad associarmi a determinate aree politiche, ma sono manovre da cui voglio stare lontano.
Come si pone questo brano rispetto al nuovo album, Secondo me?
Come ho già fatto nel primo disco, mi piace prendere in giro gli stereotipi della società. Non che io mi trovi molto distante da certe dinamiche, non vivo in un faro da eremita, ma mi lascia sempre di stucco vedere come a volte si perda il senso della realtà. Forse rispetto agli altri brani, in Stiamo tutti bene non me la sono sentita di usare molto l’ironia e il sarcasmo, anche se di solito mi piace scherzare su tematiche importanti, mi sembra un modo per far arrivare meglio i messaggi.
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Con quali influenze musicali sei cresciuto?
Inizialmente i Beatles, ho consumato i loro dischi. Avendo fatto studi da musicista, ho poi ascoltato anche molta musica strumentale: potrei citare Jeff Beck, tanto per fare un nome. La scrittura invece arriva dai grandi cantautori italiani, Dalla, De Gregori, Fossati, ma anche autori più moderni come Samuele Bersani, Max Gazzè, Daniele Silvestri.
Pensi che oggi i cantautori abbiano un ruolo diverso rispetto al passato?
Decisamente, anche perché è un ruolo che è stato ghettizzato nei club di qualche quartiere, mentre una volta le canzoni dei cantautori facevano parte della vita delle persone: c’è chi si sposava con quella musica. Oggi il cantautorato ha lasciato spazio a una musica più superficiale, adatta ad accompagnare lo shopping, come se non ci fosse più il tempo di sedersi e ascoltare le parole. Si è persa la valenza del messaggio, che è un po’ il centro della canzone.
Non hai mai voluto svelare l’origine del tuo nome d’arte, quindi non indagherò. Ma perché vuoi mantenere il segreto, hai promesso a qualcuno di non rivelarlo mai?
Sembra una trovata di marketing, ma non sono così intelligente. Adesso mi diverto a mantenere questo segreto, ma posso dire che rispecchia la volontà di non prendermi troppo sul serio. Si può parlare di certe tematiche anche mentendo una certa allegria, e credo che questo nome la comunichi.
Come ti stai trovando nel turbinio sanremese?
Mi sono sempre chiesto come fosse la vita degli artisti che andavano a Sanremo, e mi immaginavo giornate piuttosto complicate: in effetti, mi sono ritrovato a dover parlare di me con molte persone, ed essendo piuttosto riservato per natura non è stato facile, ma sto imparando a condividere dettagli che in altri contesti avrei tenuto segreti. Tutto sommato, lo trovo molto divertente. Nessuna ansia comunque, non mi appartiene.
Pensando al festival, cosa vorresti evitare?
Vorrei evitare di essere etichettato come un cantautore schierato. Mi piacerebbe dare a Stiamo tutti bene la risonanza e la visibilità che secondo me merita, anche per la tematica che affronta, ma spero che la gente si interessi anche al resto del mio lavoro. Non voglio passare solo come “quello della canzone sugli immigrati a Sanremo”.

Il ritorno di Noemi sotto il segno… della luna

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Fin dalla notte dei tempi la luna esercita il suo potere e le sue suggestioni su poeti, scrittori, pittori e, naturalmente, musicisti. Con il suo volto continuamente mutabile, la luna si è fatta silenziosa ascoltatrice di preghiere, desideri, confidenze, maledizioni.

Proprio a lei Noemi dedica il suo ultimo lavoro, La luna appunto, in uscita il 9 febbraio, nei giorni in cui l’artista romana sarà in gara a Sanremo con il brano Non smettere mai di cercarmi, una delle 13 canzoni (di cui 12 inedite) presenti nel disco.
Per Noemi è la quinta volta sul palco dell’Ariston: quest’anno al festival porterà un brano che unisce elettronica e canzone d’autore, “uno slogan da cantare a pieni polmoni”, di cui lei stessa è co-autrice.
L’ispirazione per il titolo dell’album è invece arrivata da Vasco: “Tra i tanti motivi per cui ho scelto questo titolo è perché, come dice Vasco Rossi in Dillo alla luna, mi piace l’idea di poter parlare alla luna, sperando che porti fortuna. E poi anche perché la luna è un po’ diva, proprio come voglio vivere anch’io questo album.”
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La luna esce a due anni da Cuore d’artista, disco pubblicato a ridosso della precedente partecipazione sanremese di Noemi (con La borsa di una donna), ed è un lavoro che mette in luce alcuni suoi aspetti finora poco conosciuti: tra i brani infatti non manca una buona dose di pop elettronico, come già avevano fatto sentire i due singoli pubblicati nei mesi scorsi, Autunno e I miei rimedi (quest’ultima inizialmente destinata a Sanremo nel 2016), ma si scopre anche l’amore dell’artista romana per il country in My Good, Bad And Ugly, pezzo scritto da Matthew Weedon ed Penny Elizabeth Forter e tenuto al segreto fin dai tempi di Made In London. Particolarmente impegnativa dal punto di vista tecnico, per diretta dichiarazione dell’artista, è Love Goodbye, mentre Porcellana cerca di raccontare in musica gli attacchi di panico.
Presente anche una cover di Lucio Dalla, Domani, brano non tra i più noti del cantautore, ma scelto per l’efficacia delle sue immagini (“saremo ancora così lontani, ci annuseremo da lontano come i cani”).
Spazio dato ovviamente anche al blues e al cantautorato, territori su cui Noemi è ormai piuttosto abituata a muoversi: ne sono esempi L’attrazione, firmata da Giuseppe Anastasi e La luna storta, che porta la firma di Tricarico.

Per presentare il nuovo album sono inoltre stati annunciati due speciali appuntamenti live in programma il 27 maggio a Roma (Auditorium Parco della Musica) e il 29 maggio a Milano (Teatro degli Arcimboldi).
I biglietti saranno disponibili online sul sito di TicketOne (www.ticketone.it) dalle ore 11.00 di lunedì 29 gennaio e in tutti i punti vendita autorizzati dal 1 febbraio.

Come è profondo il mare, una nuova edizione per il capolavoro di Lucio Dalla

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A quarant’anni esatti di distanza dalla prima pubblicazione, Come è profondo il mare, uno dei dischi più significativi della carriera di Lucio Dalla, viene ripubblicato in una nuova edizione.

Due le versioni disponibili, CD e LP rimasterizzato, a cui si aggiunge un secondo disco con le tracce dell’album riproposte in versione live.
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Come è profondo il mare è il disco che ha segnato uno spartiacque nella discografia di Dalla, essendo il primo lavoro di cui l’artista è stato anche autore di tutti i testi.
Fino a quel momento infatti il cantautore si era avvalso della collaborazione con il poeta Roberto Roversi, dalla cui scrittura però avvertì a un certo punto la necessità di staccarsi, non senza qualche iniziale malumore dell’altro. Ma mentre Dalla aveva un’idea chiara di cosa voleva creare, nessuno sapeva cosa sarebbe uscito da quel nuovo percorso, e chi all’epoca lavorò al progetto – come Ron – non poté che restare esterrefatto dal risultato raggiunto, da quella scrittura fuori dagli schemi, da quegli elementi rivoluzionari che da sempre hanno caratterizzato la personalità di Dalla: “Lucio sapeva di essere alla vigilia di un qualcosa di grande. In termini di vendita, il disco andò bene, anche se non eccessivamente, ma fu il trampolino di lancio per i due dischi successivi, Dalla e Lucio Dalla“.
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Oltre al brano omonimo, nell’album sono raccolti pezzi storici come Corso Buenos Aires e Disperato erotico stomp, di cui viene svelata per la prima volta una frase inedita, rimasta censurata nella versione originale del disco.
La nuova pubblicazione di Come è profondo il mare rientra in un’ampia operazione di Sony Music, volta a recuperare alcuni capolavori in veste restaurata di grandi cantautori della scena italiana, e che interessa tra le altre anche le opere di Battisti e De Andrè.

Ad accompagnare l’uscita dell’album è anche un nuovo video ufficiale della canzone che dà il nome al disco, un modo per far avvicinare le nuove generazioni ai capolavori del passato.

BITS-CHAT: Un meticcio, Bologna e gli anni ’90. Quattro chiacchiere con… Senhit

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È nata e cresciuta a Bologna, ma le origini della sua famiglia portano lontano, fino all’Eritrea. E canta in inglese. Nessun dubbio quindi che Senhit possa guadagnarsi l’appellativo della “più internazionale delle cantanti italiane”.
Attiva sulle scene tra teatro e musica già da qualche anno, ha da poco pubblicato l’EP Hey Buddy, in cui ha raccolto i brani realizzati nel corso dell’ultimo anno e che vedono anche il contributo di Corrado Rustici e Brian Higgins, super produttore inglese che in passato ha messo mano a successi di Kylie Minogue e Pet Shop Boys, e che con la musica di Senhit ha riportato la memoria agli anni ’90, gloriosissimo periodo della dance.
E mentre il remix di Something On Your Mind si fa strada nei club inglesi, lei si divide tra live, video blog, partite di calcio e Buddy, un compagno molto speciale arrivato da Brindisi.

Cosa nasconde il titolo dell’EP?
Buddy è il nome del mio cagnolino, un meticcio che è con me ormai già da qualche anno. Arriva da Brindisi, e quando l’ho preso si chiamava già così. È diventato il mio vero compagno di avventura. Posso quasi dire che le mie relazioni si sono annullate per lui (ride, ndr). Buddy è però anche un termine usato nello slang americano. “Hey Buddy!” è un po’ come il nostro “Ciao caro! Come stai?”, un modo molto cordiale e caloroso di salutarsi quando ci si incontra. Le prime volte che camminavo per strada in America sentivo continuamente gente che si apostrofava in quel modo e pensavo che Buddy fosse un nome, solo che lo dicevano anche a me, e non capivo perché mi chiamassero così!

Nei suoni dei brani sembra di ritrovare molto degli anni ’90.
Verissimo. Ho voluto proprio riprendere quei suoni, con una freschezza nuova: oggi va fortissimo l’elettropop e i suoni di quegli anni si sono un po’ persi, invece quel periodo è stato importantissimo, pensiamo solo a cosa è stata Corona per l’Italia o a certi ritornelli che tornano in testa a distanza di vent’anni (accenna l’inizio di Saturday Night di Whigfield, ndr). Prima di arrivare a questo genere però ho fatto tante altre cose e ho provato suoni diversi, fino a quando non ho incontrato Brian Higgins, anche lui con una passione per gli anni ’90: è stato lui a creare queste atmosfere.
Cover
Quasi sempre gli artisti bolognesi dichiarano di avere un rapporto molto forte con la tradizione musicale della loro città: è così anche per te?
Tutto per me è partito da Bologna e grazie a Bologna. Il mio primo album solista è stato prodotto da Gaetano Curreri ed è stato una sorta di omaggio che abbiamo voluto fare ai cantautori legati alla città, come Dalla e Morandi, riarrangiando alcune loro canzoni. Bologna ha una tradizione musicale fortissima, da cui nessuno dei suoi artisti può staccarsi completamente. Sarà il potere della mortadella?

Dell’Eritrea invece cosa porti con te?
Penso la passione. I miei genitori sono eritrei e in casa ho sempre respirato l’atmosfera di quel paese. Mia mamma cucina eritreo, quando si incazza parla eritreo e l’Eritrea è un posto in cui mi piace tornare. Mio padre ci è tornato da poco, aveva bisogno di staccarsi da ciò che aveva qui. Un po’ di Eritrea c’è anche in alcune sonorità dei miei brani del passato.

In un video su Youtube parli dell’ambiente discografico come di un mondo pieno di squali. Quali sono le difficoltà che hai incontrato fino a oggi?
Penso di essere arrivata nel periodo peggiore della discografia italiana. Tutto ruota intorno ai talent, le case discografiche prendono i ragazzi e li spremono finché possono dare qualcosa, poi li mollano a loro stessi senza dare una possibilità di crescita: ho fatto fatica a trovare qualcuno che volesse investire su di me nel tempo, provando cioè diverse strade fino a trovare quella più adatta. Mi viene in mente una come Zara Larrson, che è uscita da un talent show, ma ha poi avuto la possibilità di cambiare. Gli squali comunque ci sono nel mondo discografico, e in qualunque altro ambiente di lavoro.

Hai avuto la possibilità di suonare a Londra, Amsterdam, Berlino, Parigi: all’estero che atmosfera hai respirato?
Ho visto tanta curiosità. La gente va ai concerti e poi vuole conoscere l’artista, sapere chi è, da dove viene, si ferma a parlarti, e non importa se sei il ragazzino che suona la chitarra o Ed Sheeran. In alcuni casi ho notato un po’ di iniziale diffidenza, come a Parigi: la gente vedeva me, italiana ma di colore, che cantavo in inglese, ed è stata un po’ dura, ma in generale ho percepito una grande apertura. In Italia si preferisce non rischiare: siamo sempre un passo indietro agli altri, su tutto, come se prima volessimo vedere come va e poi casomai ci accodiamo.
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Oltre alla musica, tra i tuoi impegni recenti c’è stato anche il tour dei “Giochi del calcio di strada”.
Bellissima esperienza, anche perché sono un’ex calciatrice! Avevo una compagna che giocava a calcio, ma non riuscivo mai ad andare a vederla, allora mi sono messa a giocare anch’io e da lì mi è nata la passione. Questo tour è nato da un invito dei Calciatori brutti (la più grande community calcistica italiana, ndr): ogni weekend eravamo in una località diversa e ci dividevamo tra tornei, conferenze e live, e io mi sono divertita anche a fare la blogger raccontando le tappe del tour con dei video. Ovviamente, Buddy è sempre stato con me!

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Penso che la ribellione sia legata al rispetto che si deve esigere per se stessi. Se questo rispetto non arriva, bisogna ribellarsi per ottenerlo, sempre. Lo dico per esperienza, perché io stessa mi sono ribellata alla mia famiglia uscendo dalla porta da cui mio padre, in maniera piuttosto teatrale, mi aveva indicato di uscire se avessi voluto fare la cantante. Diceva che non sarei andata da nessuna parte, ma io il desiderio di fare musica lo sentivo fortissimo. Se usata in questo modo, per farsi rispettare, la ribellione funziona, e va usata in qualunque situazione per raggiungere uno scopo, coronare un sogno o chiedere diritti, come accade nei Pride. Ribellatevi, ostinatevi, credeteci sempre.

BITS-CHAT: Un frontale con l'amore. Quattro chiacchiere con… Roberta Giallo

Se dovesse scegliere un’ambientazione per il suo nuovo lavoro, Roberta Giallo sceglierebbe un Medioevo post-atomico, oscuro, con una sola piccola luce come guida. Non ha caso, il titolo dell’album è L’oscurità di Guillaume.
Ma non lasciatevi ingannare: nessun riferimento all’anarchico svizzero James Guillaume. Al centro dei brani c’è una storia d’amore, vissuta però non con curve e luce con cui di solito si racconta questo sentimento, quanto piuttosto passando attraverso spigoli e buio.

Un disco che è anche la porta per entrare in un vero e proprio mondo di musica e immagini, in cui Roberta, artista bolognese molto più che cantautrice, si è ritagliata spazi perfettamente su misura, senza confini di generi e con un ringraziamento molto speciale da fare.
1.Roberta Giallo_foto di Mattia Pace
Vorrei partire chiedendoti qualcosa sul titolo dell’album, che mi ha incuriosito molto.

L’Oscurità Di Guillaume è un titolo oscuro e misterioso, proprio come la storia che racconta. Protagonisti di questa strana storia, che tra l’altro ho vissuto anni fa, siamo io e Guillaume, un ragazzo francese che ho incontrato un giorno a Bologna e con cui è partita un’intensa e singolare corrispondenza via web, che si è poi evoluta in un amore dal finale inaspettato e, ahimè, non lieto.
Musicalmente il disco è molto variegato, con spunti ricercati: come ci hai lavorato? 
Sono partita dall’essenziale. La mia voce e il pianoforte, per rispettare al massimo la genesi delle canzoni, tutte ispirate, tutte intime, nate nella mia camera, nel “piccolo”. Mauro Malavasi, noto arrangiatore che ha fatto la storia della musica italiana, ha prodotto l’album e con gli arrangiamenti ha voluto abbracciare questa filosofia dell’essenziale, del non superfluo, del ricercato appunto. Per lui la storia da raccontare e le canzoni erano già importanti e dense, bisognava vestirle con rispetto, estrema cura e parsimonia di elementi, solo così accade la magia.
Copertina L'Oscurità di Guillaume_b
Tema centrale dell’album è l’amore, dipinto però con tonalità un po’ tormentate. Prima dicevi di esserti ispirata a un’esperienza personale: oggi nell’amore ci credi ancora?
E’ una storia personalissima che, vinta la timidezza, ho deciso di racchiudere in un disco, come una specie di scrigno-libro, con anche nascosti alcuni segreti, che forse un giorno svelerò. Un disco nato probabilmente dal dolore e dalle lacrime, che hanno trovato il modo di germogliare.
Cosa ha rappresentato nella tua vita Lucio Dalla?
L’incontro artistico più folgorante e fortunato che abbia mai fatto! Una specie di anno Zero nella mia vita. E’ l’artista al quale mi sento in assoluto più vicino, un po’ per affinità elettiva, un po’ per simpatia. Lucio è Lucio, inimitabile, irripetibile, un mago che gioca con tutti i colori: è folle, serio, leggero, irriverente, un alchimista.Da lui ho imparato che potevo dare sfogo alla mia anima cangiante con naturalezza, e senza curarmi troppo degli altri. Quando seppi che voleva conoscermi, e mi disse che voleva entrare nel progetto e coinvolgermi in alcuni progetti suoi, non potevo crederci e, soprattutto, non potevo non dedicargli questo album! Grazie Lucio per tutto quello che mi hai regalato e che siamo riusciti a realizzare insieme!
2. Roberta Giallo_foto di Mattia Pace
Ci sono altri artisti che ti hanno particolarmente influenzata?
Non saprei. E dico non saprei, perché tutto ciò che per me è bello probabilmente mi influenza.  E fare un elenco è impossibile. Posso citarne alcuni, oltre a Lucio naturalmente: Beatles, Edith Piaf, Battiato…
Interessante anche la tua immagine e il tuo look: a cosa ti ispiri?
Non lo so, alle forme della natura e ai fumetti. A volte mi scambiano per un cartoon giapponese o per Betty Boop! 
Oltre che cantautrice, sei performer teatrale, pittrice e scrittrice. C’è un ambito artistico che ti incuriosisce e che non hai ancora esplorato?
Il cinema. Vedremo…
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concerto di ribellione?
La ribellione è la profonda consapevolezza di te stesso che ti porta a trovare il modo più giusto per combattere ciò che non ti va, ma con i tuoi mezzi, con le tue misure, con la tua testa! Diventare se stessi in un mondo che ci vuole omologati e spersonalizzati, è la più grande forma di ribellione, per me, oggi.

BITS-CHAT: "Dove sono le grandi canzoni?" Quattro chiacchiere con… i Decibel

“Questa musica non contiene groove di batteria preconfezionati e strumenti virtuali.”
È scritto proprio così nella pagina dei crediti dell’album. Un monito come quello – oggi sempre di più frequente – delle confezioni di alimenti per avvertire della possibile presenza di glutine, olio di palma o frutta con guscio.

Per i Decibel l’equivalente dell’olio di palma è l’omologazione, l’appiattimento, il luogo comune, tutti termini attorno ai quali girerà gran parte di questa intervista, rilasciata in occasione dell’uscita di Noblesse Oblige, il loro terzo album.

Il nucleo del gruppo nacque esattamente quarant’anni fa tra i banchi del liceo Berchet di Milano e si fece portatore del punk e della new wave in Italia. Nei pochi anni di attività, anche una partecipazione a Sanremo, con Contessa, sufficiente a lasciare traccia nel grande pubblico.
Dopo un lungo periodo di attività separate, lo scorso anno Enrico Ruggeri, Silvio Capeccia e Fulvio Muzio si sono ritrovati a Londra e lì ha preso corpo l’idea di far risorgere il gruppo. Niente nostalgia però, solo musica, con lo stesso orgoglio di essere una band di nicchia.
Ecco allora il nuovo album: 11 inediti e due cover nell’edizione standard e un’edizione limitata e numerata con altri tre brani, vinili e memorabilia vari.
Perché il rock di oggi è come la musica classica, parola di Ruggeri.

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A distanza di quarant’anni, che ambiente musicale vi ritrovate intorno?

Enrico: Non vorrei dire lo stesso, ma quasi. Quarant’anni fa, quando i Decibel pubblicavano l’album Punk, gli Homo Sapiens vincevano Sanremo con Bella da morire. Due anni dopo i Decibel andavano a Sanremo con Contessa e si trovavano di fianco Toto Cutugno, Pupo e i Collage. Erano i tempi dei capelli cotonati, le camicie con lo sbuffo, le voci in  falsetto, e noi eravamo come marziani. Prendevamo ispirazione dai viaggi a Londra, ogni volta tornavamo con una giacca diversa, un paio di occhiali, i capelli ossigenati: era facile fare i diversi. A noi oggi tornare sembrava più difficile, con Internet tutto viaggia velocissimo, ma l’impressione è la stessa di allora. Se accendi la radio senti sempre lo stesso pezzo, i groove, i pad. Siamo ancora mosche bianche, e questo ci riempie di orgoglio.
Come è maturata l’idea di tornare alla musica?
Silvio: In questi anni non ci siamo mai persi di vista, anche perché l’esperienza della band non si è chiusa per nostra volontà, ma per cause tra discografici. Ultimamente abbiamo suonato spesso insieme in eventi privati e poi ci siamo trovati a Londra in occasione delle celebrazioni per i quarant’anni di Kimono My House degli Sparks  e abbiamo pensato a qualcosa di più di qualche singolo concerto.
E: Quest’anno poi io festeggio 60 anni, sono 40 anni dal primo album dei Decibel, 30 da Quello che le donne non dicono e Si può dare di più. Tante ricorrenze che valeva la pena festeggiare. Di sicuro, sapevo che volevo evitare come la peste il disco di duetti, poi ho pensato ai Decibel: Silvio e Fulvio mi hanno passato dei pezzi e abbiamo iniziato a lavorarci, ma nell’ottica di fare qualcosa per pochi intimi. Un giorno li ho fatti sentire in macchina ad Andrea Rosi, presidente della Sony, ma prima di tutto amico: al terzo pezzo ha stoppato e ha detto “Nicchia un cazzo! Se non andate avanti vi ammazzo!”. Da lì tutto ha preso contorni sempre più grandi.
S: Nessuna idea di fare un’operazione discografica comunque, altrimenti avremmo potuto ripiegare su un album di cover.
Fulvio: Alla base di tutto, c’è un’identità di gusti e di intenti che abbiamo ritrovato intatta.
Ritrovarvi in studio insieme com’è stato?
F: Molto divertente, perché non avevamo l’ansia dell’operazione commerciale, mentre oggi fare un giro negli studi di registrazione vuol dire spesso assistere a una veglia funebre.
E: In studio abbiamo suonato davvero, senza computer.
Le nuove tracce sono nate nell’ultimo periodo o avevate cose già pronte?
F: C’erano già nuclei di ispirazione originaria, parti di brani precedenti che abbiamo ripreso e amalgamato. Molti dei nuovi pezzi sono nati proprio da fusioni di strofe e ritornelli di canzoni diverse, come si faceva una volta del resto, e ci sono tracce arrivate di recente, come Triste storia di un cantante.
S: Il fatto però che canzoni mie si amalgamassero bene con quelle di Fulvio non era per nulla scontato ed è sintomo di  quell’unità di gusti di cui si parlava prima.
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My My Generation ha un riferimento piuttosto chiaro al brano degli Who. Loro cantavano la voglia di esprimersi, voi come vedete la vostra generazione?
E: Gli Who parlavano della loro generazione, quella di cinquant’anni fa, che non aveva riferimenti a cinquant’anni prima. Noi oggi facciamo rock come si faceva in quel periodo, con la differenza che oggi il rock è la nuova musica classica, un genere di nicchia, ma sono in pochi ad ascoltarlo. Ed è per questo che fin dall’inizio ho chiesto a Sony di trattare questo album come un progetto di musica classica a tutti gli effetti: ecco allora la limited edition, il tour nei teatri a prezzi alti. In questo rientra anche il titolo dell’album.
Premesso che avete voluto evitare l’album di duetti, non c’era nessun ospite che avreste voluto avere nel disco?
E: Volendo sognare, ti direi Elvis Costello, John Cale o Jean-Jacques Burnel.
S: In un tuo disco ha suonato Andy Mackay dei Roxy Music, vero?
E:
 Ecco, potrebbe essere un’idea per il futuro… Tra gli italiani, l’unico che avrebbe avuto motivi artistici per entrare nell’album sarebbe stato Faust’O (pseudonimo di Fausto Rossi, ndr). Soprattutto sotto Natale i cantanti passano il tempo a visitarsi in studio uno con l’altro, magari detestandosi, e nei loro pezzi si sente una disperata ricerca di attenzione da parte delle radio e del pubblico.

Non si salva nemmeno la scena indipendente?
E: Non siamo informatissimi, ma l’impressione generale è che in giro manchino le grandi canzoni. Lou Reed ha fatto anche album pieni di rumore, ma prima aveva scritto Perfect Day. Se chiedevi a Picasso di disegnarti una Madonna, la faceva bellissima, poi ha inventato il Cubismo. Si può anche scegliere di fare i matti, gli indie, ma prima bisogna dimostrare di saper scrivere belle canzoni.
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C’è stato un momento o un fattore che ha portato all’appiattimento della musica di oggi?
E: La crisi discografica. Negli anni ’80 c’era più pazienza, le case discografiche ti mettevano sotto contratto per cinque album e tu avevi il tempo di crescere. Se guardiamo i grandi, quelli venuti fuori quarant’anni fa, è tutta gente che non ha sfondato al primo album. Oggi non sarebbe possibile, serve arrivare al successo subito. Il Fabrizio De Andrè del 2021 esiste, ma ha già smesso di suonare perché Linus non gli passava il pezzo in radio. Gli artisti capaci di scrivere le grandi canzoni ci sono, ma quelle canzoni non andrebbero in radio. In tutto questo, i talent non sono che una conseguenza, un patto scellerato tra le case discografiche e la televisione, ma tra Battiato, De Gregori, Vasco Rossi, Dalla, Paolo Conte quanti vincerebbero un talent? Forse Gianni Morandi.
Quindi è cambiato il gusto del pubblico?
S: E’ un loop: alla gente piace un genere perché può ascoltare solo quello. Noi vogliamo portare qualcosa di nuovo. Forse siamo più all’avanguardia oggi di quanto non lo fossimo quarant’anni fa.
Viviamo davvero nella società dell’apparire?
E: Ne parliamo in molte canzoni dell’album, da La bella e la bestia a Fashion. Oggi la gente crede di poter decidere, ma non ha capito che ormai viviamo sotto la dittatura delle televisione. Tutto è indotto dall’esterno, anche nella politica. Lo dicevamo già in Lavaggio del cervello, un brano che ha precorso i tempi, proprio come in Superstar parlavamo del rapporto malato tra l’artista e i fan pochi anni prima che Chapman uccidesse Lennon.
Oggi c’è qualcuno con le potenzialità di essere aggiunto all’elenco dei grandi nomi che fate in My My Generation?
S: Se avessimo potuto aggiungere una strofa avremmo inserito altri nomi, ma sempre di quel periodo e di quelle latitudini.
E: Oggi mancano i grandi progetti, le grandi linee musicali: una volta mettevi su una canzone e capivi subito di chi era, oggi è impossibile. Forse oggi solo i Red Hot Chili Peppers hanno ancora questa capacità di distinguersi, soprattutto per il basso.
Quel cervello sulla copertina che significato ha?
E: E’ un appello…
S: Eravamo incerti se mettere il cervello o l’orecchio, e abbiamo optato per entrambi, due cose che oggi mancano. E poi ci sono rimandi ad altri altre band, come i Kraftwek.
E: L’idea è un po’ anche quella di incuriosire chi in un futuro lontano, fatto di umanità bionica, guarderà il disco e davanti a un cranio sezionato scoprirà che dentro c’era spazio per un cervello.
Per il tour cosa avete preparato?
S: Semplicemente saliamo sul palco e suoniamo, con strumenti veri. Niente maxi-schermi, niente effetti speciali, niente esplosioni. Ovviamente senza computer, neanche nascosti, ed è raro, lo ribadiamo.
E: Anche nell’indie. E io non volerò sul pubblico!

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato date al concetto di ribellione?
F: Nel nostro lavoro è la scelta di aver fatto una musica diversa, senza l’uso delle tecnologia e senza aver chiamato i soliti produttori.
E: Il nemico di oggi è il luogo comune: non ci vedrete spaccare le vetrine, quello lo fanno i giovani, noi ci ribelliamo in un altro modo.
Ma davvero il luogo comune un tempo non era così imperante come oggi?
E: Almeno ce n’erano tanti! Quando eravamo ragazzi noi in giro c’erano i fricchettoni, quelli che ascoltavano gli Inti-Illimani, chi ascoltava il rock, e poi la musica era molto più connotata politicamente.
F: Le forme di conformismo appartenevano ai genitori, oggi è tutto molto omologato.
Queste le prossime date confermate del tour: 17 marzo a Castelleone – Cr (Teatro del Viale); 18 marzo a Pomezia – Rm (Club Duepuntozero); 25 marzo a Perugia (Teatro Morlacchi); 28 marzo a Torino (Club Le Roi); 29 marzo a Asti (Teatro Palco 19); 8 aprile a Genova (Teatro della Tosse); 10 aprile a Milano (Teatro della Luna); 26 aprile a Bologna (Teatro Il Celebrazioni); 18 maggio a Bergamo (Teatro Creberg); 19 maggio a Nova Gorica (Casinò Perla).