BITS-RECE: Beyoncé, “COWBOY CARTER”. Il country non è una terra straniera

BITS-RECE: Beyoncé, “COWBOY CARTER”. Il country non è una terra straniera

 

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Il nome di Beyoncé non ha mai fatto – e probabilmente mai farà – rima con minimalismo.

Da quando il mondo della musica la conosce, la signora Carter non ha mai fatto nulla per passare inosservata e per nascondere una personalità, diciamo così, prorompente.

A fronte di un talento straordinario, forse l’unico vero appunto che si potrebbe fare a Queen Bey sta proprio nel non saper usare le mezze misure, nell’essere in tutto ciò che fa prepotente per indole, egocentrica, esagerata.
Ma se sei Beyoncé, se hai quella voce, se sei una belva da palco, se hai nel cuore tutto quel coraggio e se hai già dimostrato di saper cambiare le regole del gioco puoi bellamente fregartene di fare la modesta e puoi permetterti di fare quello che hai in testa.
E lei, ancora una volta, così ha fatto.

Dopo REINASSENCE del 2022, un omaggio alla club culture, da subito annunciato come il primo atto di un progetto più ampio, tutti erano in attesa di conoscere quale sarebbe stata la sua mossa successiva. Con quale poderosa zampata Beyoncé avrebbe scosso la scena musicale?

La risposta è arrivata netta e chiarissima nelle 27 (ventisette!) tracce di COWBOY CARTER, il suo nuovo, monumentale album, secondo atto del progetto.
Un disco solo dal punto di vista formale, si potrebbe dire, perché nei fatti si tratta di un manifesto di identità, di rivendicazione, di libertà. In poche parole, COWBOY CARTER è un atto politico messo in musica.

«Questo album ha richiesto più di cinque anni – ha dichiarato Beyoncé – È stato davvero fantastico avere il tempo e la grazia di poter dedicare il mio tempo. Inizialmente avrei dovuto far uscire Cowboy Carter per primo, ma con la pandemia il mondo era troppo pesante. Volevamo ballare. Meritavamo di ballare».

Come dire, prima vi ho fatto ballare, adesso mi ascoltate seriamente.

Lei, che aveva già brandito la musica come un’arma di orgoglio e indipendenza con Lemonade, adesso sferra un altro colpo fatale abbracciando un genere troppo a lungo e erroneamente considerato estraneo alla black culture: il country. Sì, proprio il genere americano per eccellenza, le cui origini sembrano essere state dimenticate dagli americani stessi.
Beyoncé lo va a riprendere, ci scava dentro e ne riscopre la comune ascendenza con il blues, che non è esattamente un genere “bianco”.

«[Questo album] È nato da un’esperienza che ho avuto anni fa, in cui non mi sono sentita ben accolta… ed era molto chiaro che non lo ero. Ma, a causa di quell’esperienza, ho fatto una ricerca più approfondita sulla storia della musica country e ho studiato il nostro ricco archivio musicale. È bello vedere come la musica possa unire così tante persone in tutto il mondo, mentre amplifica le voci di alcune persone che hanno dedicato così tanto della loro vita all’educazione sulla nostra storia musicale. Le critiche che ho affrontato quando mi sono approcciata per la prima volta a questo genere mi hanno costretta a superare i limiti che mi erano stati imposti. Act II è il risultato della sfida che mi sono lanciata, e del tempo che ho dedicato a mescolare i generi per creare questo lavoro».
Il riferimento sembra correre dritto al 2014, a Daddy Lessons, e alle controversie che si generarono attorno al genere musicale dentro cui far rientrare il brano (sì, in America sono ancora molto affezionati a questo tipo di etichette).

Libertà, dicevamo, rivendicazione, orgoglio.

Con COWBOY CARTER Beyoncé non sta parlando solo al suo pubblico, e non sta parlando neppure solo agli amanti della musica: sta parlando a tutti. Il suo è un messaggio universale di rivoluzione. Che sarebbe poi una delle principali missioni che la musica è da sempre chiamata a svolgere, ma quanti artisti della scena mainstream oggi hanno quel potere e quella forza?
E qui il discorso potrebbe andare avanti a oltranza.

Tornando al disco, sarebbe riduttivo liquidare Cowboy Carter semplicemente come un album country: è sicuramente un album che attinge a piene mani dal country, ma che non nasconde influenze r’n’b, soul, gospel, pop. C’è persino un inserto lirico, in cui Beyoncé canta in italiano (il brano è DAUGHTER, e l’inserto è tratto da Caro mio ben, un’aria del XVIII secolo di Tommaso Giordani).

In fondo, perché porsi barriere quando se ne può fare a meno?

A chiarire gli intenti dell’album sarebbero sufficienti le due tracce poste a introduzione e conclusione, rispettivamente AMERIICAN REQUIEM e AMEN, potenti e sacrali, due preghiere purificatrici, una sorta di De profundis intonato alle idee del passato, a ciò che a lungo è stato e che mai più sarà.

“Se prima vi eravate posti dei limiti, vi faccio vedere che quei limiti non sono mai esistiti”, sembra essere il sottotesto.

Per nulla casuale la scelta di riprendere anche BLACKBIIRD dei Beatles, da molti interpretata come una canzone sui diritti civili.

Ma in COWBOY CARTER non mancano nemmeno gli ospiti, che per la maggior parte sono stati arruolati dalla scena country: c’è Willie Nelson in SMOKE HOUR ★ WILLIE NELSON, c’è Dolly Parton, che presenta la cover della sua Jolene, di cui Beyoncé rivista anche anche il testo, c’è Miley Cyrus, che il country ce l’ha letteralmente nel sangue, in II MOST WANTED. E c’è Linda Martell, autentica pioniera nel country, essendo stata la prima donna di colore a debuttare al Grand Ole Opry, programma radiofonico dedicato a country, folk e bluegrass, e prima donna di colore a debuttare nella classifica country di Billboard.

Proprio Martell compare in SPAGHETTII, un brano di chiara impronta urban, perché come dicevamo questo non è semplicemente un album country.

Infine, due parole sul titolo: perché Cowboy – e non Cowgirl – Carter? Anche qui il riferimento è da ricercare nel passato, quando la parola cowboy era usata in modo dispregiativo per appellare gli ex schiavi, “i ragazzi, boys“, abili a svolgere i lavori più duri nel maneggiare cavalli e bestiame.
Ancora una volta, orgoglio.

Beyoncé non ha usato il country per togliersi un capriccio, o per inaugurare una nuova era con un cambio di look e di genere. E neppure aveva bisogno di dimostrare di saper fare il country.
Il suo bisogno era piuttosto quello di far capire che lei poteva farlo. E che ci sono barriere che possono e devono essere abbattute, nella musica, nella società, nella vita.

Insomma, l’album è uscito solo da pochi giorni, ma di una cosa sono abbastanza sicuro: COWBOY CARTER è un disco fatto per restare.

“The Writing’s on the Wall” delle Destiny’s Child compie 20 anni. In arrivo un vinile e un’app


Festeggiamento in arrivo per il 20° anniversario della pubblicazione di The Writing’s on the Wall, l’album che ha fatto delle Destiny’s Child uno dei più importanti gruppi della musica mondiale degli ultimi decenni.

Certified Classics, la divisione di Legacy Recordings dedicata ai grandi artisti Sony Music del Catalogo Hip-Hop ed R&B, ha annunciato la pubblicazione di un vinile colorato in edizione speciale attraverso Urban Outfitters il 1 novembre 2019. Qui il link per il pre-order.
Certified ha inoltre annunciato l’arrivo, via ESSENCE.com, di DC Writings 20: Destiny’s Child – Dating Commandments 2019, una ‘experience’ creata sul modello di ‘Tinder’ ispirata ai comandamenti originali delle Destiny’s Child sui rapporti, uno dei temi centrali dell’album The Writing’s on the Wall. Qui il link.

DC Writings 20: Destiny’s Child – 2019 Dating Commandments invita i fan ad approfondire i ‘comandamenti’ in materia di appuntamenti ai nostri giorni: questa sperienza virtuale interattiva riformula gli iconici comandamenti contenuti in The Writing’s on the Wall (ad esempio “Tu devi pagare le bollette/ Thou shall pay bills” diventa oggi “Devi divedere le spese in casa/ Thou shall split the fare home”). Una volta che i fan avranno dichiarato il proprio assenso o dissenso verso i 14 comandamenti, potranno creare la propria lista di comandamenti da condividere insieme alla playlist delle Destiny’s Child.

Pubblicato originariamente dalla Columbia Records il 27 luglio 1999, The Writing’s on the Wall è il secondo album in studio delle Destiny’s Child, lavoro che supera le formidabili aspettative stabilite dal loro disco di debutto dell’anno precedente, affermando la straordinaria stargenia di Beyoncé ed assicurando alle DC lo status di uno dei gruppi vocali femminili di maggior successo della storia della musica. All’epoca dell’uscita del disco il gruppo non era ancora nella definitiva formazione a tre con cui ha conosciuto la consacrazione: ne facevano parte infatti Beyoncé Knowles, Kelly Rowland, LaTavia Roberson e LeToya Luckett. Queste ultime due ne sarebbero uscite pochi anni dopo, rimpiazzate da Michelle Williams e Farrah Franklin, che abbandonò però presto la band.

Prodotto da Mathew Knowles, The Writing’s on the Wall contiene brani prodotti da Missy Elliott, Kevin “She’kspere” Briggs, Rodney Jerkins, Eric Nealante Phillips e Beyoncé.
Ben 4 furono i singoli ad entrare nella Top 40: il #1 negli USA Bills, Bills, Bills e Say My Name, ma anche Jumpin’ Jumpin’ (#3) e Bug a Boo (#33).

Bills, Bills, Bills, il primo singolo, fu accompagnato da un elettrizzante video musicale diretto da Darren Grant, girato in un iconico salone di bellezza (come tributo alla mamma di Beyoncé, Tina Knowles). Rimase al #1 della Hot R&B/Hip-Hop Singles & Tracks per nove settimane consecutive.

Il terzo singolo, Say My Name, diventò una delle tracce fondamentali delle Destiny’s Child, grazie alla quale la band si aggiudicò due Grammy Awards nel 2001 come migliore performance R&B di un gruppo e miglior canzone R&B. Il video del brano ottenne anche un MTV Video Music Award 2000 come miglior canzone R&B. Billboard classificò Say My Name al 7° posto della lista dei 100 brani delle miglior Girl Group di tutti i tempi.

Jumpin, Jumpin, il quarto singolo estratto, è stato scritto e co-prodotto da Beyoncé con Chad Elliott e rimase al #1 della Hot 100 Airplay per sette settimane consecutive.

Ad oggi, l’album ha venduto oltre 6 milioni e 300 mila copie nei soli Stati Uniti e 2 milioni in Europa.

Marco Mengoni: un red carpet… da leone a Los Angeles


E’ ufficiale, Marco Mengoni sarà la voce di Simba adulto nella versione italiana del Re Leone, il nuovo flive action targato Disney in uscita nelle sale il prossimo 21 agosto.
Il 9 luglio il cantante, reduce dalla trionfale tournée dell’Atlantico Live, è stato invitato alla premiere mondiale del film a Los Angeles, sfilando sullo stesso red carpet di Beyoncé (che dà la voce a Nala adulta nella versione inglese), Donald Glover (Simba adulto), il regista Jon Favreau e gli altri membri del cast americano.

Nel Marco interpreta anche L’amore è nell’aria stasera, versione italiana del brano di Elton John Can You Feel The Love Tonight.

Photo by Alberto E. Rodriguez/Getty Images for Disney

Intanto il 14 luglio, Mengoni partirà per il Fuori Atlantico Tour, una serie di speciali appuntamenti live alla scoperta della natura e delle bellezze italiane nel completo rispetto dell’ambiente. L’ennesimo riconoscimento, nell’anno in cui festeggia i 10 anni di carriera con 50 dischi di platino, dopo il successo dell’album doppio platino e un tour sold out in Italia ed Europa con oltre 200mila biglietti venduti.

Con “thank u, next” Ariana Grande si è presa il trono dell’r&b


Mariah, Janet, Mary, Erykah. Ma anche Beyoncé, Rihanna, e Ariana.
La schiera delle “sorelle” che hanno fatto grande l’r&b contemporaneo da oggi si arricchisce a tutti gli effetti di un nuovo nome, quello di Ariana Grande.
Partita alcuni anni fa come nuova, folgorante stella del pop, Ariana ha fatto molto parlare di sé soprattutto per una voce che la metteva in diretta competizione con la Mariah Carey dei tempi d’oro (si vedano gli anni ’90) e ha più volte citato Madonna tra le sue icone, ma ha anche sempre tenuto un occhio puntato sull’r&b. Mai come negli ultimi album però ci si è avvicinata con tanta convinzione.
Nell’arco dell’ultimo anno, a pochi mesi di distanza, la ragazza ha sfornato non uno, ma due album, entrambi piazzati al vertice delle classifiche che contano, ma soprattutto – come si direbbe nel gergo tecnico – due dischi con le contropalle. Se con Sweetener, uscito ad agosto 2018 e inevitabilmente influenzato dalla tragedia del concerto di Manchester dell’anno precedente, la Grande ha inteso creare un punto di congiunzione tra quanto fatto fino a Dangerous Woman e quanto avrebbe fatto da lì in avanti, l’ultimo thank u, next è sicuramente il lavoro più ambizioso e spiazzante dell’artista, il suo vero e totale approdo con i piedi ben piantati nel terreno dell’r&b. Anzi, del contemporary r&b, giusto per fare i puntigliosi.
Come spesso succede, anche in questo caso si tratta di un album figlio del dolore, e nello specifico quello per la morte dell’ex Mac Miller, avvenuta nel settembre scorso. Un fatto drammatico che ha fatto da leva per la scrittura di un disco che ha visto la luce in pochissimi mesi e che forse verrà ricordato come una dei migliori prodotti dell’anno. Sicuramente, è una fiera celebrazione di r&b al femminile, come non se ne ascoltava da qualche tempo: con Mariah Carey, Janet Jackson e Mary J Blige ormai innegabilmente in parabola calante, con Erykah Badu latitante da troppo tempo, con Beyoncé concentrata un po’ sulla famiglia e un po’ sul progetto Carters insieme al consorte, l’unica da cui ci si poteva aspettare un album di r&b di risonanza globale – soprattutto dopo il percorso intrapreso con Anti – era Rihanna, che pare prossima all’uscita di un nuovo lavoro ma che al momento non è ancora uscita dal letargo. Un po’ a sorpresa, ecco che a riscattare il genere ci ha pensato Ariana Grande.

thank u, next è infatti un album solido, pieno di personalità e carattere, che passa con la stessa scioltezza dal dolore alla rabbia a celebrazioni di orgoglio. E pazienza per le accuse di plagio e le polemiche che si sono sollevate in seguito all’uscita del singolo 7 rings: se Ariana si sia davvero indebitamente appropriata di stilemi culturali che non le appartengono, facendoli passare addirittura per parodia, diventa un elemento di secondaria importanza di fronte all’ascolto di pezzi come imagine, con il suo arrangiamento torreggiante di archi e gli acuti virtuosistici, o gli echi old school di needy e fake smile; in bad idea è invece un’atmosfera urban pizzicata dalle chitarre a farla da padrone, e il pezzo acquista un tiro che non lascia scampo, mentre make up mostra una tonicità reggae.
Con la voce che si ritrova, la Grande non poteva poi privarsi dell’occasione di regalarci una ballatona, ed ecco la toccante ghostin, vellutata e notturna come il più limpido dei cieli stellati, ma pure la trappeggiante in my head non teme di sfidare le ottave. Quasi in chiusura, la titletrack è esattamente il brano che una decina di anni fa (o forse un po’ di più) ci saremmo aspettati da due maestre dell’urban come Janet Jackson o Mariah Carey, e invece ce lo ritroviamo interpretato da una che fino a un paio di anni fa pareva non averci niente a che spartire.

Volutamente ho tenuto il pezzo forte alla fine, e sto parlando di bloodline, sintesi perfetta di r&b, funk e reggaeton, sferzante e brioso quanto basta per sentirlo una volta e non farselo più uscire dalla testa.
Insomma, se non fosse abbastanza chiaro, Ariana Grande ci ha dato uno dei dischi urban di cui ci ricorderemo per i prossimi anni.

Solange, “When I Get Home”. Houston, ermetismo e cosmic jazz

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Ho ascoltato questo disco più per curiosità che per altro. Dopo A Seat At The Table la fama della più piccola delle sorelle Knowles è andata sempre più crescendo e anche questa nuova prova discografica testimonia la ferma volontà della ragazza di liberarsi dalla sempre incombente ombra di Beyoncé.
Per farlo – o almeno per provarci – Solange mette insieme un disco che più personale di così non poteva fare: un progetto interamente pensato e realizzato da lei, che ne ha curato anche la produzione pur avvalendosi del prezioso aiuto di collaboratori blasonati che portano i nomi di Tyler, the Creator, Gucci Maine e Pharrell, giusto per citarne alcuni.
Ma When I Get Home è un album personale anche perché parte da Houston, per la precisione dal Third Ward, il quartiere dove Solange è cresciuta, e la città ha influenzato ogni singolo brano del disco nelle liriche e nella musica. Una sorta di omaggio all’infanzia e a quello che ne è rimasto.

Da sempre artista con una spiccata attitudine visuale e visionaria, Solange compie mosse da giocatrice ambiziosa in direzione di sonorità urban ermetiche e ostiche al primo ascolto, combinando r’n’b, soul psichedelico, hip-hop e influenze di cosmic jazz. Ma anche la forma del prodotto non ha nulla di scontato: i 19 brani della tracklist occupano infatti solo 40 minuti scarsi di ascolto per la presenza di numerosi interlude e di una durata media delle tracce che non va oltre i 3 minuti.
Nessuna concessione viene fatta in favore di un sound radiofonico, con il risultato che solo chi avrà davvero la voglia di indagare questo album riuscirà ad andare oltre la patina stilosa che lo avvolge dall’inizio alla fine.
Per tutti gli altri c’è sempre Beyoncé.

BITS-CHAT: “Solitudine? No, libertà”. Quattro chiacchiere con… Luana Corino

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Gli inizi come LaMiss, poi un periodo di pausa e l’anno scorso il ritorno con il suo nome, Luana Corino, e l’EP M.W.A vol. 1, anticipato da un brano agguerritissimo di riscatto femminile come Lucille.
Adesso per Luana è la volta di Gita al mare, un singolo dall’atmosfera serena e all’insegna dell’indipendenza: la storia è quella di un amore finito, un lui fuggito senza troppe spiegazioni e una lei rimasta sola, ma ancora abbastanza forte da trasformare la solitudine in orgogliosa manifestazione di amore per se stessa.
La storia di una donna libera, con le idee molto chiare anche quando si parla di un ambito maschilista come l’r’n’b italiano.
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Ascoltando il tuo ultimo singolo, Gita al mare, si ha subito l’impressione di percepire un mood diverso rispetto a quello che avevamo trovato lo scorso anno nell’EP M.W.A. vol. 1: è così? Si è aperta per te una nuova fase?

Diciamo che un progetto ufficiale rispetto a un mixtape parte già con altri presupposti. Nutro aspettative diverse verso me stessa e quello che voglio raccontare. Quando si tratta di lavorare a degli inediti diventa un vero e proprio lavoro di squadra, un insieme di energie che inevitabilmente danno alla luce qualcosa di molto più intenso. L’approccio a un mixtape è molto più easy e disinteressato… nell’EP, che uscirà dopo l’estate, e in Gita al mare, sto cercando di dare il massimo sotto ogni aspetto creativo.

Come hai sviluppato l’idea del pezzo e del video, dove sei l’assoluta protagonista?
Come spesso accade alle idee migliori, vengono e basta, come un fulmine a ciel sereno. Sentivo la necessità di parlare di questa storia, sotto alcuni punti di vista, autobiografica. Ce l’avevo sulla punta della lingua e della penna, e ho aspettato di stare abbastanza male per ricordarmene. L’ho scritta in un giorno e il video era già nella mia testa. Da quando lavoro nel campo dei videoclip, è difficile per me scrivere un pezzo e non visualizzarlo, ormai per me il video non è altro che il completamente di una canzone.

Che valore ha nella tua vita e nel tuo lavoro l’indipendenza?
È il fulcro della mia esistenza. Essere indipendenti per me significa essere liberi. Sarà brutto da dire ma non sopporto di affidare ad altri la responsabilità di decisioni per me importanti. Voglio avere il privilegio di poter scegliere cosa fare, come farlo e quando. La vita è una e i tempi della discografia sono molto lenti. Se decidono che non sei il loro progetto principale, un’etichetta, spesso una major, può parcheggiarti là anche per quattro o cinque anni, rubandoti gli anni migliori. Ho visto tantissimi artisti rinunciarci nonostante il talento e questa cosa mi ha portato a non provane nemmeno mai a proporre un mio progetto a un’etichetta che non fosse indipendente.

Quali sono gli artisti di riferimento e i modelli con cui sei cresciuta?
Michael Jackson in primis, da sempre: la disciplina, la dedizione e il perfezionismo a cui ci ha abituato durante tutta la sua carriera sono stati per me grande fonte di ispirazione. Janet Jackson, per la sua vocalità e gli arrangiamenti vocali, e sicuramente Beyoncè, che soprattutto negli ultimi anni ci sta dimostrando come una donna sta al comando.
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Cosa puoi già anticipare del nuovo EP? Si tratta del seguito di M.W.A. vol 1?
Si chiamerà Vertigini, parla di donne, del loro modo di affrontare l’amore , delle loro fragilità, della loro forza e complessità. Sarà molto intimo, anche molto sfacciato. Non mi sto trattenendo in nulla, sto cercando di scrivere nel miglior modo che conosco.

Nel panorama urban italiano è difficile trovare nomi femminili che si possano contendere la scena con gli uomini: le eccezioni ci sono (vedi Baby K), ma l’impressione è che le donne dell’hip-hop e dell’R&B italiano debbano accontentarsi dell’underground. Secondo te perché succede?
Ci sarebbe un discorso molto lungo da fare, che cercherò di semplificare il più possibile, dando solo degli spunti di riflessione. L’ambiente urban, in generale, e quello hip-hop, nello specifico, sono ancora a prevalenza maschile. Nonostante negli anni i mezzi per autoprodursi siano diventati sempre più accessibili, l’emisfero femminile non si è ancora abituato all’idea di poter creare dei prodotti indipendenti senza doversi avvalere per forza del supporto maschile. Sulla base di questi presupposti si somma anche la difficoltà di fare gioco di squadra. Ci hanno sempre abituato all’idea che ci sia posto per una sola donna alla volta, questo inevitabilmente mette tutte in estrema competizione. Cambiare la nostra mentalità e imparare a fare più gioco di squadra potrebbe migliorare le cose. Ma, per ora, ho l’impressione che siamo ancora molto lontane da fare questo passo. La carriera artistica di una donna è meno longeva: dopo i 25 anni subentrano le responsabilità di cui spesso una donna, per natura, se ne fa più carico rispetto a un uomo. In alcuni casi subentra la maternità e, nel caso di un artista indipendente, soprattutto se la musica non diventa anche il tuo lavoro entro i 30 anni, spesso è motivo di abbandono o rallentamento creativo. Poi, per quanto riguarda l’R&B nello specifico, beh, è un genere che va studiato e approfondito, senza contare che in Italia non ha ancora una rilevanza discografica, probabilmente proprio per la scarsità di artisti che lo fanno). Oltre a me e a Martina May non conosco altre ragazze con un background solido che hanno contribuito o stanno contribuendo a sfamare il pubblico con prodotti di un certo livello, ma posso permettermi di parlare per noi due e dire che vige stima, amicizia e supporto, proprio perché desideriamo un cambiamento e vediamo le cose sotto un altro punto di vista.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Non aver paura di essere coerenti con se stessi e i propri gusti, rispettarsi senza temere di andare contro corrente. A volte fare cose che vanno contro le necessità o le richieste popolari è molto difficile, la tendenza è quella di omologarsi facendo i “ribelli” per finta. Per me ribellione significa guardare in faccio i propri sentimenti e raccontarli apertamente senza aver paura di sembrare deboli.

Beyoncé e Jay Z, ovvero The Carters: a sorpresa, un album insieme

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Dopo averci piazzato i suoi ultimi due album a sorpresa, Beyoncé poteva forse fare diversamente con la nuova collaborazione che la vede impegnata insieme al marito – nonché stella illustrissima dell’hip-hop- Jay-Z

Certo che no!
E allora eccolo qui, annunciato co un semplice post su Facebook, Apeshit, il singolo che inaugura la nuova collaborazione di The Carters, ormai non più una coppia di sposi, ma un’istituzione dello showbiz.

Il video che accompagna il brano è stato girato nelle sale del Louvre, a Parigi.

Ma non è tutto: Apeshit è infatti solo il primo estratto di Everything Is Love, il primo album realizzato dalla coppia e già disponibile in esclusiva – per ora – solo su Tidal a questo link.

La coppia è attesa in Italia il 6 e l’8 luglio a Milano e Roma per due date dell’OTR II Tour.

BITS-RECE: Fergie, Double Dutchess. Il gran bis della “duchessa”

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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11 anni. Tanto ci ha messo Fergie a tornare in pista. Cioè, a dir la verità non sono stati proprio 11 anni di silenzio questi, perché in mezzo ci sono stati due album con i Black Eyed Peas e qualche brano inedito snocciolato durante il percorso. Però insomma, il secondo capitolo della sua carriera solista si apre adesso, con Double Dutchess, un discone di 17 tracce a cui va ad aggiungersi anche il pacchetto di tutti i video (tranne You Already Know) nella Visual Experience, riuniti nel film Seeing Double. Un po’ insomma come aveva fatto Beyoncé con il Visual Album di qualche anno fa.
Ampiamente anticipato da L.A. Love, M.I.L.F. $ e Life Goes On, Double Dutchess restituisce una Fergie in pienissima forma, anche se forse un po’ appannata dal punto di vista mediatico, ma desiderosa di buttarsi ancora al centro della mischia con un album generosissimo di spunti e poderoso nei suoni.
Quello che colpisce da subito è l’atmosfera decisamente urban in cui è immerso Double Dutchess, capace di passare attraverso momenti molto diversi, con poco spazio riservato al puro pop: l’apertura, grandiosa e sorprendente, è affidata ad Hungry, con le sue note oscure e quasi goticheggianti di trap (dentro ci è finito addirittura il campionamento di Dawn Of The Iconoclaste, successo dei Dead Can Dance) e il featuring di Rick Ross, mentre le tracce successive sono una raffica di variazioni che dal più classico R&B toccano l’hip-hop, il reggae, l’elettronica, per arrivare a chiudere in bellezza con i fuochi d’artificio grazie il rock ardente e affilato di Love Is Pain, in cui si intravede – neanche troppo velata – l’anima di Purple Rain di Prince in un omaggio non ufficialmente dichiarato.
Assolutamente spassosissimi i toni tropicali di Enchanté (Carine), insieme ad Axl Jack, il figlio di Fergie, così come il potente giro di funk di Tension, che sembra – a dirla tutta – rubata dagli archivi di Kylie Minogue.

Insomma, un album sfaccettato e studiatissimo per il ritorno di una protagonista di prima linea degli anni Duemila, che si trova oggi circondata dall’affamata schiera della nuova generazione e che sapeva quindi di doversi giocare il tutto per tutto per dimostrare che oggi c’è ancora posto lei. Almeno sulla carta, il risultato non manca di ispirazione e parrebbe darle ragione: dopo tanti anni Fergie è tornata, c’è, e tiene perfettamente il passo con i tempi.
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Sul versante video invece c’è da segnalare qualche punto di domanda rimasto in sospeso, dal momento che in più di un episodio l'”esperienza visuale” si rivela essere non molto di più che un semplice contenuto bonus aggiunto alla versione audio. Portando il confronto sull’analoga operazione di Beyoncé, la signora Carter – tra l’altro citata tra le fonti d’ispirazione – si porta a casa la vittoria a mani basse.
Tra i momenti da salvare, sicuramente l’intensità immaginifica di Love Is Pain.

… Ready For It?, il nuovo inedito di… Tayloncé

Taylor Swift deve soffrire di una qualche crisi d’identità: dopo aver spiazzato tutti con l’r’n’b elettronico e tagliente di Look What Me Made Me Do, ha rilasciato a sorpresa … Ready For It?, un altro inedito tratto dal nuovo album Reputation.
E se possibile, qui l’avanzata di Taylor nel territorio dell’universo urban si è fatta ancora più decisa, arrivando a sfiorare il rap.

… Ready For It? è un brano che troverebbe tranquillamente posto in un album di Beyoncé o di Rihanna, ma non sfigurerebbe nemmeno come una delle innumerevoli opere sfornate dalla prolifica Nicki Minaj, sempre in equilibrio tra hip hop, pop ed elettronica.
Sarà un caso che dopo aver sentito l’inizio del pezzo la memoria mi è corsa subito a Hey Mama?

Insomma, la vecchia Taylor Swift è morta, lo abbiamo capito: al suo posto sembra essere arrivata … Tayloncé, o Taylor Minaj, fate voi!

BITS-RECE: Luana, M.W.A. vol.1 EP. Orgoglio, sangue e Beyoncé

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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L’r’n’b grida vendetta.
Mentre l’hip-hop da ormai qualche anno si è preso il centro della scena in Italia, il suo cugino conterraneo – cioè statunitense – qui da noi si deve accontentare delle briciole dell’underground. Sì, ogni tanto c’è qualche voce che riesce a farsi sentire, qualche brano che riesce a spuntarla su iTunes, ma nel complesso gli artisti dell’rhythm & blues e dell’urban nostrano sono seguiti da pochi, veraci, estimatori.
Manca la vera cultura dell’r’n’b, si potrebbe pensare, quella che in America si respira a ogni angolo della strada: può anche essere vero, ma anche l’hip-hop ha le radici oltreoceano, eppure qui si è trapiantato alla grande. All’r’n’b manca ancora qualcosa per fare il grande salto, forse solo l’occasione giusta, e forse un giorno arriverà anche la sua rivincita, ma per ora i suoi esponenti vanno cercati con attenzione.
Per fortuna però, ce ne sono in giro alcuni che vale davvero la pena portare allo scoperto.

Come Luana, ad esempio. Dopo un esordio alcuni anni fa con lo pseudonimo di La Miss e due album all’attivo (in cui ha ospitato anche Baby K per una collaborazione, tanto per dire), è ripartita con il suo nome di battesimo e ha da poco sfornato il suo primo EP, M.W.A. vol. 1, dove M.W.A. sta per “Mama With Attitudine” e vol. 1 è l’augurio di poter in futuro pubblicare anche il seguito.
Luana, dicevo, è un personaggio interessante nel panorama r’n’b italiano, perché è una a cui piace osare, buttarsi, rischiare, e sporcarsi le mani.
Lo dimostra subito Lucille, prima traccia dell’EP, nonché primo singolo estratto: un brano tosto, tostissimo, duro come l’acciaio e ruvido come l’asfalto. Si parla di violenza sulle donne, ma senza retorica o pietismo: anzi, facendo a pezzi ogni velo di ipocrisia, il testo ha come protagonista una lei che, arrivata al culmine dell’esasperazione per le violenze di lui, si trasforma nella sua assassina. Una dichiarazione di innocenza e vendetta di “un’anima massacrata”, una collisione di sentimenti che si accompagna a uno scontro di generi musicali, con il pop portato da Romina Falconi, spietata interprete del pop elettronico italiano, anche lei allergica a ipocrisie e cotonature buoniste.
Di tutt’altro tenore Queen B, che se nel titolo rende ovviamente omaggio alla signora Carter, nel testo e nella musica rimanda all’universo degli anni ’90, con riferimenti che spaziano dalle TLC a Missy Elliott, a Run DMC. Un pezzo d’amore solare e disimpegnato, in cui Jay-Z e Beyoncé diventano l’esatto corrispettivo dei più tradizionali Romeo e Giulietta o Al Bano e Romina (“fai lo scemo davanti allo specchio imitando Jay-Z / io sono la tua Queen B”).
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Dichiarazione d’orgoglio e rivalsa, soprattutto musicale, è Fuori dal coro, che vede la partecipazione di Giovane Feddini e Shine, in un incontro tra R&B e rap nella più fedele tradizione, mentre a Tappandomi gli occhi sono affidate le riflessioni più personali sui dubbi e le paure.
In chiusura, Lampioni di Giovane Feddini, proposta in una cover remixata e già resa nota alcuni mesi fa.

M.W.A. vol. 1 è un manifesto di coraggio e indipendenza musicali e personali, un prodotto in sincero spirito r’n’b, ma orgogliosamente Made in Italy. Tra soul, trap, hip-hop e pop, Luana attraversa umori molto diversi, dai sorrisi spensierati fino a scendere negli angoli più bui dell’anima.
D’altronde, cos’è questa se non vera attitudine?

M.W.A. vol. 1 è in free download sul sito www.luanacorino.it