BITS-RECE: Beyoncé, “COWBOY CARTER”. Il country non è una terra straniera

BITS-RECE: Beyoncé, “COWBOY CARTER”. Il country non è una terra straniera

 

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.

Il nome di Beyoncé non ha mai fatto – e probabilmente mai farà – rima con minimalismo.

Da quando il mondo della musica la conosce, la signora Carter non ha mai fatto nulla per passare inosservata e per nascondere una personalità, diciamo così, prorompente.

A fronte di un talento straordinario, forse l’unico vero appunto che si potrebbe fare a Queen Bey sta proprio nel non saper usare le mezze misure, nell’essere in tutto ciò che fa prepotente per indole, egocentrica, esagerata.
Ma se sei Beyoncé, se hai quella voce, se sei una belva da palco, se hai nel cuore tutto quel coraggio e se hai già dimostrato di saper cambiare le regole del gioco puoi bellamente fregartene di fare la modesta e puoi permetterti di fare quello che hai in testa.
E lei, ancora una volta, così ha fatto.

Dopo REINASSENCE del 2022, un omaggio alla club culture, da subito annunciato come il primo atto di un progetto più ampio, tutti erano in attesa di conoscere quale sarebbe stata la sua mossa successiva. Con quale poderosa zampata Beyoncé avrebbe scosso la scena musicale?

La risposta è arrivata netta e chiarissima nelle 27 (ventisette!) tracce di COWBOY CARTER, il suo nuovo, monumentale album, secondo atto del progetto.
Un disco solo dal punto di vista formale, si potrebbe dire, perché nei fatti si tratta di un manifesto di identità, di rivendicazione, di libertà. In poche parole, COWBOY CARTER è un atto politico messo in musica.

«Questo album ha richiesto più di cinque anni – ha dichiarato Beyoncé – È stato davvero fantastico avere il tempo e la grazia di poter dedicare il mio tempo. Inizialmente avrei dovuto far uscire Cowboy Carter per primo, ma con la pandemia il mondo era troppo pesante. Volevamo ballare. Meritavamo di ballare».

Come dire, prima vi ho fatto ballare, adesso mi ascoltate seriamente.

Lei, che aveva già brandito la musica come un’arma di orgoglio e indipendenza con Lemonade, adesso sferra un altro colpo fatale abbracciando un genere troppo a lungo e erroneamente considerato estraneo alla black culture: il country. Sì, proprio il genere americano per eccellenza, le cui origini sembrano essere state dimenticate dagli americani stessi.
Beyoncé lo va a riprendere, ci scava dentro e ne riscopre la comune ascendenza con il blues, che non è esattamente un genere “bianco”.

«[Questo album] È nato da un’esperienza che ho avuto anni fa, in cui non mi sono sentita ben accolta… ed era molto chiaro che non lo ero. Ma, a causa di quell’esperienza, ho fatto una ricerca più approfondita sulla storia della musica country e ho studiato il nostro ricco archivio musicale. È bello vedere come la musica possa unire così tante persone in tutto il mondo, mentre amplifica le voci di alcune persone che hanno dedicato così tanto della loro vita all’educazione sulla nostra storia musicale. Le critiche che ho affrontato quando mi sono approcciata per la prima volta a questo genere mi hanno costretta a superare i limiti che mi erano stati imposti. Act II è il risultato della sfida che mi sono lanciata, e del tempo che ho dedicato a mescolare i generi per creare questo lavoro».
Il riferimento sembra correre dritto al 2014, a Daddy Lessons, e alle controversie che si generarono attorno al genere musicale dentro cui far rientrare il brano (sì, in America sono ancora molto affezionati a questo tipo di etichette).

Libertà, dicevamo, rivendicazione, orgoglio.

Con COWBOY CARTER Beyoncé non sta parlando solo al suo pubblico, e non sta parlando neppure solo agli amanti della musica: sta parlando a tutti. Il suo è un messaggio universale di rivoluzione. Che sarebbe poi una delle principali missioni che la musica è da sempre chiamata a svolgere, ma quanti artisti della scena mainstream oggi hanno quel potere e quella forza?
E qui il discorso potrebbe andare avanti a oltranza.

Tornando al disco, sarebbe riduttivo liquidare Cowboy Carter semplicemente come un album country: è sicuramente un album che attinge a piene mani dal country, ma che non nasconde influenze r’n’b, soul, gospel, pop. C’è persino un inserto lirico, in cui Beyoncé canta in italiano (il brano è DAUGHTER, e l’inserto è tratto da Caro mio ben, un’aria del XVIII secolo di Tommaso Giordani).

In fondo, perché porsi barriere quando se ne può fare a meno?

A chiarire gli intenti dell’album sarebbero sufficienti le due tracce poste a introduzione e conclusione, rispettivamente AMERIICAN REQUIEM e AMEN, potenti e sacrali, due preghiere purificatrici, una sorta di De profundis intonato alle idee del passato, a ciò che a lungo è stato e che mai più sarà.

“Se prima vi eravate posti dei limiti, vi faccio vedere che quei limiti non sono mai esistiti”, sembra essere il sottotesto.

Per nulla casuale la scelta di riprendere anche BLACKBIIRD dei Beatles, da molti interpretata come una canzone sui diritti civili.

Ma in COWBOY CARTER non mancano nemmeno gli ospiti, che per la maggior parte sono stati arruolati dalla scena country: c’è Willie Nelson in SMOKE HOUR ★ WILLIE NELSON, c’è Dolly Parton, che presenta la cover della sua Jolene, di cui Beyoncé rivista anche anche il testo, c’è Miley Cyrus, che il country ce l’ha letteralmente nel sangue, in II MOST WANTED. E c’è Linda Martell, autentica pioniera nel country, essendo stata la prima donna di colore a debuttare al Grand Ole Opry, programma radiofonico dedicato a country, folk e bluegrass, e prima donna di colore a debuttare nella classifica country di Billboard.

Proprio Martell compare in SPAGHETTII, un brano di chiara impronta urban, perché come dicevamo questo non è semplicemente un album country.

Infine, due parole sul titolo: perché Cowboy – e non Cowgirl – Carter? Anche qui il riferimento è da ricercare nel passato, quando la parola cowboy era usata in modo dispregiativo per appellare gli ex schiavi, “i ragazzi, boys“, abili a svolgere i lavori più duri nel maneggiare cavalli e bestiame.
Ancora una volta, orgoglio.

Beyoncé non ha usato il country per togliersi un capriccio, o per inaugurare una nuova era con un cambio di look e di genere. E neppure aveva bisogno di dimostrare di saper fare il country.
Il suo bisogno era piuttosto quello di far capire che lei poteva farlo. E che ci sono barriere che possono e devono essere abbattute, nella musica, nella società, nella vita.

Insomma, l’album è uscito solo da pochi giorni, ma di una cosa sono abbastanza sicuro: COWBOY CARTER è un disco fatto per restare.

Forever Words: in un album, le poesie e i testi sconosciuti di Johnny Cash

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Uscirà il prossimo 6 aprile in CD e vinile Forever Words, un album composto da canzoni nate dalla poesia, dai testi e dalle lettere sconosciute di Johnny Cash e trasferite in musica da un gruppo di grandi artisti contemporanei. 

Dopo la scomparsa di Johnny e June Carter Cash, il figlio John ha trovato un “mostruoso ammasso” di cose, un tesoro composto da materiale inedito fatto di lettere scritte a mano, poesie e documenti.
Negli ultimi due anni, proprio in veste di produttore, John Carter Cash assieme a Steve Berkowitz ha deciso di invitare un cast stellare di musicisti a creare nuove musiche che potessero rappresentare questi scritti sconosciuti.
Molte delle canzoni traggono ispirazione dal libro Forever Words: The Unknown Poems, mentre altre sono basate su scritti inediti. Il mood dell’album è chiaro già dal brano di apertura Forever / I Still Miss Someone, in cui Kris Kristofferson recita un poema con l’accompagnamento della chitarra di Willie Nelson. Si passa poi alla più intima A June This Morning, una lettera che Johnny aveva scritto a sua moglie June, qui interpretata dalla coppia Ruston Kelly e Kacey Musgraves.

Tra i tesori del disco, You Never Knew My Mind, una delle ultime registrazioni realizzate da Chris Cornell, il leader dei Soundgarden morto suicida lo scorso anno: un modo con cui l’artista ha ricambiato il favore a Cash, che nel 1996 aveva inciso la cover di Rusty Cage dei Soundgarden per l’album Unchained.

“La scelta dell’artista da abbinare ad ogni canzone è stata solo una questione di cuore” ha dichiarato John Carter Cash. “Ho scelto gli artisti che sono più legati a mio padre, che avevano un vissuto personale con lui; è stato un sforzo eccitante mettere insieme questi lavori e presentarli a persone diverse che li avrebbero portati a termine nel modo in cui papà avrebbe voluto”.
L’obiettivo dell’album non è stato quello di creare le memorie “perdute” di Johnny Cash, piuttosto un modo per far sì che i musicisti lavorassero su queste poesie permettendogli di restare vive per sempre in un nuovo mondo fatto di sola musica.

Questa la tracklist:
Forever/I Still Miss Someone – Kris Kristofferson and Willie Nelson
To June This Morning – Ruston Kelly and Kacey Musgraves
Gold All Over the Ground – Brad Paisley
You Never Knew My Mind – Chris Cornell
The Captain’s Daughter – Alison Krauss and Union Station
Jellico Coal Man – T. Bone Burnett
The Walking Wounded – Rosanne Cash
Them Double Blues – John Mellencamp
Body on Body – Jewel
I’ll Still Love You – Elvis Costello
June’s Sundown – Carlene Carter
He Bore It All – Daily and Vincent
Chinky Pin Hill – I’m With Her
Goin’, Goin’, Gone – Robert Glasper featuring Ro James, and Anu Sun
What Would I Dreamer Do? – The Jayhawks
Spirit Rider – Jamey Johnson

BITS-RECE: Carla Bruni, French Touch. Una prova di coraggio

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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La carriera di cantante di Carla Bruni è iniziata tra qualche stupore di popolo nel 2002 con Quelqu’un M’a Dit, album che in Italia sarebbe arrivato l’anno seguente e che all’epoca fece incetta di giudizi clamorosi da parte di critica e pubblico.
Sorprendentemente, si scoprì che l’ex supermodel aveva fatto un disco che non aveva l’aria di un pretesto per battere cassa, ma offriva spunti interessanti nel suo allure cantautorale sfacciatamente naïf e francese.
Al primo album ne sono seguiti negli anni altri tre, tutti accolti con sempre meno entusiasmo, al punto che si dava ormai per certo che la signora Bruni, ora in Sarkozy, avesse appeso chitarra e microfono al chiodo.
E invece non solo torna adesso con il quinto disco in studio, ma per far capire che per lei la musica è una faccenda seria ha deciso di coinvolgere nel progetto un gigante come David Foster (se non sapete chi è, googlatelo e capirete).
Il titolo dell’album è alquanto emblematico, French Touch: in discografia, l’espressione si usa convenzionalmente per indicare una branca della house molto amata dagli artisti d’oltralpe, che ne hanno fatto un vero e proprio sottogenere.
Qui invece, il tocco francese in questione rimanda a un’atmosfera minimalista, intimista e molto ben pettinata, che è stata un po’ la chiave di lettura di tutti i lavori dell’ex première dame. Bene, sotto lo sguardo di Foster, la Bruni il suo french touch l’ha messo addosso a 11 cover (a dispetto del titolo del disco, tutte in inglese) che spaziano tra pop, jazz, country, synthpop e – udite udite – rock. Ora, non siamo davanti a un album rivoluzionario, però questo disco ha il grande potere di stupire, proprio nei suoi toni sommessi, composti e curatissimi.

Carla Bruni
Photo: Mathieu Zazzo

L’anticipazione di Enjoy The Silence, capovolta e riletta splendidamente, ne aveva dato un ottimo assaggiato, così come la reinterpretazione di Miss You dei Rolling Stones, e adesso ascoltando l’intero album si resta di stucco di fronte a The Winner Takes It All degli ABBA, Perfect Day di Lou Reed, e soprattutto Highway To Hell, magicamente trasformata in una sorta di standard ai confini del blues.
Nella tracklist fa poi capolino Crazy, eseguita addirittura insieme al suo interprete originale, Willie Nelson, autentico monumento del country statunitense.
A lungo andare, l’umore dell’album tende a girare su se stesso, e dal punto di vista vocale la Bruni non si allontana mai troppo dai suoi sussurri increspati, però non le si può non riconoscere un certo coraggio nell’essersi messa a confronto di pietre miliari così distanti fra loro e così distanti dall’immagine che siamo abituati ad avere di lei.
Se mai qualcuno ne dubitasse ancora, questo album è una prova di un amore sincero verso la musica, soprattutto per quella di alcuni decenni fa, un disco fatto per essere realmente ascoltato, cosa che non sempre capita con chi arriva alla musica solo in un secondo tempo della carriera.
Se siete amanti della chanson apprezzerete probabilmente anche questo lavoro, così come potrete avere l’occasione di scoprire qualche sfumatura inedita della sua interprete e dei suoi gusti. Se invece amate gli AC/DC, potreste davvero non credere alle vostre orecchie.
In ogni caso, un album a cui va concesso il privilegio di almeno un intero ascolto.