BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Nero, bianco, blu elettrico, rosso, giallo, oro. Valeria Vaglio descrive con questo particolare arcobaleno a sei colori le tracce dell’EP Mia. Sei colori accesi, vividi, qualche volta in contrasto, ma affiancati uno all’altro.
A cinque anni dall’ultimo album, l’artista barese torna con il racconto di una storia che si è sviluppata nell’arco di un anno, e lo fa con una decisa svolta stilistica, usando i suoni sintetici e grondanti di bpm di un pop elettronico.
Accompagnati da atmosfere che rimandano agli anni ’80 e ’90, i testi dei nuovi brani parlano di un amore viscerale, carico di passionalità carnale, come nella titletrack; un amore che quando si manifesta assale con voracità e con l’istinto, ma che sa anche nascondersi dietro al silenzio per farsi desiderare; un amore tenuto in vita con la pazienza dei piccoli passi, con i dettagli di una mattina di primavera; un amore di partenze disperate e di ritorni.
Fino a quando tutto torna a quadrare e ci si ritrova in due ad augurarsi il meglio, sulla poesia appena accompagnata al pianoforte di Le cose che dicono.
Ketty Passa è la cantante con i capelli blu.
Oddio, in realtà è molto di più, ma questa è la prima cosa che salta all’occhio appena si incrocia il suo sguardo, e soprattutto questo è l’elemento che la rende immediatamente riconoscibile.
Ma Ketty Passa è molto di più perché con la musica non ci ha a che fare solo come interprete, ma anche come conduttrice in radio e TV e dj in alcune serate di milanesi. Ultimo incarico che le è stato assegnato in ordine di tempo è la selezione musicale per il nuovo programma di Rai2 Nemo-Nessuno escluso. Insomma, è una che nella musica ci sguazza dentro in pieno.
Nel 2013, insieme ai Toxic Tuna ha pubblicato il suo primo album, #CANTAKETTYPASSA, e ora, a distanza di tre anni, si prepara al ritorno: questa volta però lo fa da sola, e con uno stile tutto nuovo.
Per pubblicare il nuovo album e dare al pubblico la “bella copia” del CD, ha accettato la proposta dei fondatori di Musicraiser Giovanni Gulino dei Marta sui tubi e della sua compagna Tania Varuni, dj e produttrice, che, rimasti entusiasti dei primi ascolti, l’hanno esortata a dare il via alla missione #kettypassainloop, iniziata a fine settembre e attiva fino al 25 novembre. Per chi si offrirà di finanziare il progetto, sono previsti numerosi pacchetti di offerte, dall’edizione speciale dell’album fino a una cena e al dj set privato. Tutte le info a questo link.
Ti avevamo lasciata nel 2013 con il tuo precedente album, #CANTAKETTYPASSA e ti ritroviamo ora pronta a fare un nuovo passo con un disco che si preannuncia molto diverso: cosa è successo in questo periodo? L’esperienza con la band è stata bella, ma difficile, e alla fine non abbiamo trovato l’incastro giusto. Già subito dopo il tour era emersa l’esigenza da parte di alcuni di prendere altre strade: così, senza nessun tipo di rancore, abbiamo abbandonato il progetto e io mi sono messa a pensare a cosa avrei voluto fare davvero come cantante. Quello che da tempo volevo proporre era qualcosa che mischiasse pop, elettronica e hip hop: io lo definisco urban, ma solo perché ha uno stile piuttosto street e si rifà all’America, con il cantato a volte punk, a volte melodico.
Un genere non proprio frequente in Italia: come hai trovato la chiave giusta per lavorarci? Ho iniziato in studio, accompagnata dal mio produttore, Max Zanotti, la persona che più di tutti ha creduto in questo progetto dall’inizio. Anche per lui era una scommessa, perché ha sempre avuto a che fare con tutt’altra musica, mentre qui si trattava di mettere insieme melodia su basi elettroniche piuttosto ritmate, spinte, che di solito in Italia sono usate dai rapper. E’ anche per questo che ci ho messo due anni a fare il disco.
Difficoltà particolari che hai incontrato? La lingua: l’italiano non è spigoloso come l’inglese, è rotondo, e adattarlo a quella musica non è stato facile, ho dovuto lavorare molto in quel senso, cercando di adattare le parole alle basi che mi arrivavano da musicisti che lavoravano nell’ambito dell’hip hop. Per creare l’atmosfera mi sono ispirata molto a Gwen Stefani, M.I.A., Kimbra, ma anche Rihanna e Beyoncé. Tra i pezzi meglio riusciti c’è Sogna, il primo singolo, dove sono riuscita a trovare il linguaggio perfetto, mentre in altri casi ho dovuto rispettare un po’ di più le esigenze dell’italiano e mi sono adeguata a un andamento più melodico. Anche i temi che affronto sono molto diversi: nei 10 pezzi nuovi ci sono canzoni più allegre, altre più intime, in un’altra parlo di come sia difficile portarsi dietro la propria diversità nella società di oggi abituata a ragionare in franchising.
E sei poi arrivata a Musicraiser… Per questo album ho lavorato in maniera diversa rispetto a prima, andando in studio e non più in sala prove, e tutto questo ha un costo: sono stata contattata da Giovanni Gulino e Tania Varuni di Musicraiser e mi è sembrato un buon modo per sostenere le spese e avere una nuova visibilità. La parte economica in un progetto discografico ha un grande peso e le operazioni messe in atto da piattaforme come questa sono un grandissimo aiuto, soprattutto per gli artisti come me che non hanno alle spalle case discografiche che possano finanziare il lavoro. Ho posto un obiettivo piuttosto ambizioso, 10.000 euro, che mi serviranno per coprire una parte delle spese che ho già sostenuto e darmi la possibilità di realizzare anche un paio video. Fare musica è anche un investimento su di sé, per cui molto ho già investito di mio: aderire a Musicraiser mi permetterà di avere più visibilità e poter dare al pubblico la “bella copia” del disco. La campagna si chiuderà il 25 novembre e ho previsto numerosi pacchetti per chi deciderà di aiutarmi a portare a termine il progetto. Voglio che le persone siano invogliate a finanziare la mia missione, non voglio sono elemosinare.
A Musicraiser sei arrivata dopo aver ricevuto la proposta di Giovanni e Tania: prima non ci avevi pensato? No, non ero molto convinta: di solito alle cose devo arrivarci da sola, con i miei tempi, e in questo caso non pensavo che potesse fare al caso mio. Poi invece i ragazzi di Musicraiser mi hanno contattata ed erano molto entusiasti dei provini che hanno ascoltato e così ho deciso di mettermi in gioco: mal che vada, se non raggiungo l’obiettivo, resto a zero come sono ora. Sarà forse un po’ avvilente, ma è un tentativo. D’altra parte, l’alternativa sarebbe stata quella di aprire un mutuo. Mi ha aiutato molto anche il fatto di aver incontrato l’etichetta 22Rcon la quale si è instaurato un rapporto di fiducia. In questa campagna mi sto impegnando tantissimo, sto mettendo tutta me stessa, tutta la creatività che ho, anche per creare pacchetti esclusivi e ricchi da proporre: tra i progetti c’è anche quello di creare delle strisce di fumetto in cui racconto una storia. Per ora non posso dire molto, ma sarà una cosa molto divertente che sto preparando insieme a un tatuatore: riguarderà uno dei brani e avrà come protagonisti una bambina e un animale.
E’ stato difficile trovare musicisti adatti al tipo di musica che volevi proporre in questo album? Più che dal punto di vista pratico, la difficoltà è stata soprattutto trovare chi volesse fidarsi e mettersi in questo progetto: mi rendo conto che proporre brani urban non sia facile in Italia, e devo dire che in effetti molti non capiscono, sono convinti che la musica italiana non sia pronta. Io però sapevo di non voler fare quello che fanno le altre cantanti: è vero, dopotutto faccio pop, per cui i punti di contatto ci saranno, ma io voglio proprio fare musica con un linguaggio diverso, e sono curiosa di vedere come verrà recepita questa operazione.
Pensi che Musicraiser possa rappresentare il futuro della discografia? Sì, ma più che Musicraiser penso che sia il web in generale a rappresentare il domani della discografia. Prendiamo il caso di Salmo: quando lui è arrivato, il suo tipo di musica non lo proponeva nessuno, lo ha portato lui, e oggi è entrato in una major. Le grandi realtà discografiche ormai servono soprattutto a supportare fenomeni già esistenti, lavorano con i talent, ma non presentano cose nuove, e questo per meccanismi di mercato che posso anche comprendere, ma che non aiutano a portare qualcosa di diverso. In passato ho ricevuto proposte per partecipare a dei talent, ma ho capito che se avessi accettato sarei entrata in logiche più grandi di me e come artista sarei morta. Non mi serviva avere quella visibilità e non avevo voglia di farmi scrivere le canzoni da altri.
Prima accennavi a un brano dell’album che tratterà il tema della diversità: secondo te che cosa fa paura alle persone nell’essere diversi? Essere diversi vuol dire sentirsi continuamente sbagliati: noi umani siamo brutti, sviluppiamo una serie di convenzioni sociali che ci portano al confronto, al giudizio verso gli altri. Lo facciamo tutti, nessuno escluso. Essere diverso ti porta a vivere con più difficoltà anche nel concreto, perché magari sei tentato di fare scelte meno convenienti economicamente ma più stimolanti. Essere diversi è difficile proprio dal punto di vista pratico, mentre una vita facile è quella che porta gli altri a non giudicarti e romperti le palle.
A proposito del caso di Tiziana Cantone, sulla tua pagina Facebook hai scritto: “il problema non sono i social, sono le persone”. Non pensi però che i social abbiano amplificato l’imbarbarimento della società? Certo, perché, come dicevo, siamo tutti prontissimi a scagliarci sugli altri per nasconderci, anche se commettiamo gli stessi errori. L’indole umana porta a puntare il dito per sentirsi puliti, mentre si sta perdendo la capacità di autocritica: dietro allo schermo di un computer siamo tutti coraggiosissimi, ma non riusciamo a reggere il confronto diretto. In questo caso specifico, la ragazza è stata convinta a essere lei dalla parte del torto, mentre la vera colpa in questa storia è stata mettere on line un video senza il suo consenso, quello è un reato! Il senso di colpa per quello che si vedeva in quel video è stato però così grande che Tiziana si è tolta la vita, ed è gravissimo. Per questo ho scritto che il problema non sono i social, ma le persone che li usano e il modo in cui li usano. Siamo fatti male, siamo fatti per spiare e giudicare, e Facebook non è altro che lo specchio di questo comportamento.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato ha per te il termine “ribellione”? E’ difficile spiegarlo: sono molto diversa da come appaio, posso sembrare estroversa e ribelle, ma sono molto più tranquilla. Forse ribellarsi è portare avanti dei valori che riconosci in te, ma di cui non trovi riscontro nella società. Ribellarsi può essere anche avere il sogno della musica, ma andare a lavorare in ufficio se il tuo paese non ti offre le condizioni per farlo in totale libertà o se l’unica alternativa è andare in un talent. Ecco, io ho ancora la lucidità di dire no.