La tigre e il cantautore: ecco “Mina Fossati”, un disco tra la luna, le farfalle e una carrettera


Mina Fossati
, un titolo che dice tutto quello che serve sapere. D’altronde, quando si parla di due giganti della musica italiana come Mina e Ivano Fossati cos’altro servirebbe mai sapere?
Basta solo il fatto che i due abbiano messo la propria arte al servizio di un progetto condiviso, uno di quei progetti che non si vedono – anzi non si ascoltano – esattamente tutti i giorni: 11 brani nuovissimi, scritti appositamente per questa occasione dal cantautore genovese e interpretati (quasi tutti) a due voci insieme a colei che più di tutte rappresenta il simbolo della voce italiana.
Mina Fossati sarebbe dovuto uscire negli anni ’90, poi le cose sono andate diversamente e non se n’è più fatto nulla, ma nella testa di Mina l’idea è sempre rimasta viva, tanto che l’artista l’ha riproposta al collega, pur sapendo che ormai da otto anni aveva abbandonato le scene per dedicarsi all'”ozio” privato. Ma come si fa a dire di no a Mina? “Se dici di no a Mina chiedo il divorzio”, pare che Fossati si sia sentito minacciare dalla moglie. Insomma, quell’album si doveva fare, e infatti eccolo qui, dopo due anni di lavoro, in tutta la sua magistrale presenza.

Quando si ha a che fare con Mina non si sa davvero mai fino in fondo che cosa aspettarsi, perché “la tigre” sa essere camaleontica e spiazzante, costantemente curiosa di novità e in grado di interpretare praticamente ogni cosa con la stessa, sbalorditiva capacità. La scelta di affidarsi a Fossati era però fin dall’inizio un buon indizio su quello che sarebbe stato questo disco: un album di scrittura altissima e poetica, in cui tutto, ma proprio tutto, è stato calcolato al dettaglio, con gli arrangiamenti come sempre curati da Massimiliano Pani.
Se i due album realizzati da Mina con Celentano avevano dato vita anche a episodi divertenti e talvolta spassosi, qui a prevalere è la superbia e l’imponenza di certe interpretazioni. Non ci sono – volutamente – sfoggi di virtuosismi, e chi è alla ricerca dei celebri “acuti” della Signora rimarrà probabilmente un po’ deluso, ma dall’altra parte ci sono l’eleganza e la profondità di brani come L’infinito di stelle o Luna diamante, uno dei momenti destinati a restare nel tempo.
Ogni brano, ogni parola e ogni nota sono stati scritti da Fossati con la consapevolezza che sarebbero stati cantati da e insieme a Mina: “Ognuna di queste 11 interpretazioni potrebbe essere oggetto di una lectio magistralis“, ha dichiarato il cantautore. “Mina non ascolta la musica, la scannerizza, e dietro a ogni sua nota c’è sempre il pensiero, in questo mi ricorda John Coltrane. Di Mina si dice sempre che è una grande interprete, ma lei è anche una grande musicista”.

Se il cantautorato elegante e sofisticato è il grande protagonista dell’album, ciò non significato che non ci sia spazio anche per altro: Ladro è per esempio un episodio che si avvicina molto all’r&b, così come il singolo Tex Mex è uno svago del gusto fossatiano per le chitarre blues e le solari atmosfere latine, mentre in L’uomo perfetto sono finte perfino percussioni africane. Il momento più gustoso del disco lo regala però Farfalle, una perla giocosa che rende omaggio all’estate e alla stagione della consapevolezza, senza cadere nei luoghi comuni.

Nell’insieme, Mina Fossati è un disco che solo due nomi così grandi della musica avrebbero potuto realizzare, un album che è in realtà il risultato di due carriere e due esperienze intoccabili.
Un disco che potrebbe aprirsi a una serie infinita di domande: almeno una però merita una risposta, la carrettera citata in Tex-Mex è la stessa di Non sono una signora? “Prima di inserirla nel testo, devo dire la verità, ci ho pensato”, confessa ancora Fossati, “Nella mia testa non è la stessa, è solo una parola. L’avevo già usata, è vero, ma era anche il 1982!”

 

 

Io sono Mia: al cinema il bio-pic dedicato a Mia Martini

Febbraio 1989, Sanremo: Mia Martini si prepara a tornare sulle scena dopo sei anni di esilio. Un allontanamento volontario, ma nei fatti provocato dalle sempre più pressanti maldicenze sul suo conto. “Mia Martini porta sfortuna”, si diceva ormai da tempo nell’ambiente dello spettacolo, al punto che molti altri artisti si rifiutavano di avere a che fare con lei, i suoi dischi non vendevano più e gli impresari non la ingaggiavano più nelle trasmissioni televisive. Addirittura facevano fatica a pronunciare il suo nome. Tutto per alcune sfortunate coincidenze e la voglia di qualcuno di vendicarsi di un’artista dal carattere forse non proprio semplice (“L’unica cosa su cui sono sempre stata d’accordo”).

“E’ stata una vera e propria violenza compiuta su una persona, su una donna, e forse all’epoca tutti quanti non abbiamo fatto abbastanza per fermare questa calunnia. Questo è il mio modo di chiederle scusa”. Sono le parole di Riccardo Donna, il regista di Io sono Mia, il bio-pic dedicato alla storia di Mimì prodotto dalla Eliseo di Luca Barbareschi in collaborazione con Rai Fiction. La pellicola verrà proiettata in quasi 300 sale cinematografiche italiane solo nelle giornate del 14, 15 e 16 gennaio, per approdare sugli schermi di Rai 1 prossimamente.
Dopo il successo dello scorso anno con la minifiction Fabrizio De André principe libero, la Rai torna così a dare spazio alla vita di un’altro grande nome della musica italiana.
Il film parte proprio da quel festival dell’89, quando ancora nessuno sapeva che per Mia Martini non si sarebbe trattato solo di un grandioso ritorno in scena, ma che in quell’occasione la musica italiana avrebbe anche ricevuto in regalo la preziosissima interpretazione di Almeno tu nell’universo.
Mimì quell’anno non vinse il Festival, e non lo vinse in nessuna delle altre sue partecipazioni, ma quello che è stata in capace di lasciare sul palco va oltre ogni vittoria.

“Per convincere gli organizzatori a far partecipare Mimì quell’anno al Festival, una persona, di cui non posso fare il nome, dovette firmare un contratto come garante per tutto che di spiacevole sarebbe potuto succedere: durante l’esibizione si sarebbe dovuta sedere in prima fila all’Ariston, così se fosse crollato il teatro ci sarebbe rimasta sotto anche lei”: a raccontare l’aneddoto è Loredana Bertè, sorella di Mia, probabilmente colei che più di ogni altro la conosce e la può raccontare, e che per questo film è stata coinvolta in veste di consulente. La persona di cui parla Loredana pare sia Renato Zero, anche se sulla veridicità dell’evento non c’è molta chiarezza, dal momento che Adriano Aragozzini, organizzatore della manifestazione nell’89, ha chiaramente smentito l’intera vicenda in una recente intervista al Fatto quotidiano.
Comunque siano andate le cose, è certo che per Mimì si trattò di un autentico riscatto, che la riportò al grande pubblico dopo che per anni si era accontentata di cantare alle sagre di paese.

A dare corpo, voce e (tanta) anima a Mia Martini è Serena Rossi, che regala un’interpretazione che non si fatica troppo a definire eccezionale: “Ho letto molto su di lei, ho guardato molte sue interviste e ho ascoltato tanto la sua musica, come continuo a fare ancora adesso. Fin dal primo giorno di riprese sapevo che non avrei dovuto cercare di imitarla per non rischiare di scimmiottarla. Ero sicura che da tutte le persone coinvolte nel lavoro avrei ricevuto tantissimo amore, e così è stato. Io non posso che ringraziare e ritenermi fortunata per l’opportunità che mi è stata offerta”.
Pur lontana dall’imitazione, l’attrice riporta con impressionante fedeltà e intensità le espressioni di Mimì, i gesti viscerali delle sue mani e i movimenti delle sue labbra durante le esibizioni, fino a far rivivere la luce tragica che i suoi occhi emanavano.
Sfruttando l’espediente di un’intervista rilasciata a poche ore dall’esibizione sanremese a Sandra, una giornalista arrivata in realtà per incontrare Ray Charles, nel film Mia Martini ripercorre la sua vita, dalle interpretazioni dei brani di Ella Fitzgerald davanti allo specchio della cameretta, al travagliato rapporto con il padre, fino alla delicata operazione alle corde vocali. E poi l’incontro con il manager Alberigo Crocetta e quelli con Califano e Lauzi, che scriveranno per lei pagine importantissime della sua discografia, il rapporto con la sorella Loredana, interpretata da Dajana Roncione, e la storia d’amore con Andrea, un fotografo, personaggio dietro al quale non è difficile riconoscere Ivano Fossati.
E’ ancora Loredana a spiegare: “Ci sono due persone che hanno espressamente richiesto di non essere nominate in questo film, Ivano Fossati e Renato Zero”. Quest’ultimo viene portato sullo schermo nella figura di Anthony, un eccentrico amico conosciuto per caso fuori da un locale.

Alla fine, dopo aver ripercorso tra i suoi ricordi buona parte della sua vita, viene quasi spontaneo anche a noi porci la stessa domanda che Sandra rivolge a Mia: “Come sei riuscita a sopportare tutto questo?”
E nella risposta di Mimì non potremo che ritrovarci tutti d’accordo.

Come Cenerentola, ma non solo fino a mezzanotte. Il nuovo inizio di Enrico Nigiotti

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Ci sono già almeno tre inizi nella breve carriera di Enrico Nigiotti. O almeno, ci state almeno tre volte in cui il pubblico lo ha visto ripartire.
La prima volta è datata 2008, quando ha partecipato alla nona edizione di Amici, quella da cui è poi uscita vincitrice Emma.
La seconda risale al 2015, con la partecipazione a Sanremo tra le nuove proposte con Qualcosa da decidere.
La terza partenza è di meno di un anno fa, ed è avvenuta sotto al segno di X Factor: Nigiotti non ha vinto, ma la sua partecipazione non è affatto passata inosservata, grazie alla pubblicazione dell’inedito L’amore è, a cui è seguito Nel silenzio di mille parole. A chiudere in bellezza l’annata fortunata sono state la collaborazione con Gianna Nannini in Complici e ora l’uscita del terzo album, Cenerentola: “Non volevo dare al disco il titolo di una canzone, e ho pensato a Cenerentola perché mi fa pensare al riscatto e alla vendetta. La mia storia adesso la conoscono tutti. Cenerentola sono io: in copertina mi sono voluto mostrare sporco, con i vestiti logori, e questa è Cenerentola prima del ballo, senza il principe. L’altra Cenerentola è dentro al disco, e arriva quando si schiaccia play”.

Una trasformazione che il cantautore livornese si augura non abbia fine a mezzanotte, come nella celebre favola, ma che sia solo l’inizio, questa volta l’ultimo, quello definitivo.
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Cresciuto a pane e cantautori (gli americani su tutti, e con Clapton e Hendrix in testa), Nigiotti considera Fossati il più grande rappresentante della categoria nel panorama nostrano, mentre del concittadino Piero Ciampi parla come di “uno dei più grandi poeti italiani”. E poi lei, la Nannini, la Gianna, anche lei toscana, ma di Siena: “Sono cresciuto con la musica di Gianna, lei è il corrispettivo femminile di Vasco, e ha delle melodie che ne fanno il Puccini del rock. Con me è sempre stata molto carina, mi ha portato grande rispetto”.
E proprio con la Nannini è il fortunato duetto di Complici, attualmente in radio: “Tutto è nato in maniera spontanea, senza niente di troppo studiato. L’idea di fare qualcosa insieme è venuta quando le ho aperto la tournée alcuni anni fa: Gianna ha sentito la canzone e l’ha provinata a Londra. Cantandola, nel ritornello ha pronunciato ‘complici’, anziché dire ‘semplice’, ed è rimasta così”.

Tanti punti di riferimento quindi, ma nessun idolo: “Non ho mai idolatrato nessuno, forse perché non sono mai stato uno sportivo, e quindi non ho mai vissuto quel tipo di competizione. Da Gianna ho avuto inoltre un grande insegnamento: un giorno mi ha detto ‘Ricordati che gli artisti passano, le canzoni restano’. Ecco perché ero contento quando le persone mi fermano per strada riconoscendomi come ‘quello di L’amore è’, ma magari senza ricordarsi il mio nome. Quello che faccio lo faccio per la musica, è questo l’importante”.
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Al traguardo di questo nuovo album Nigiotti arriva conoscendo bene la paura di non essere ascoltato: “Ci ho messo dentro i brani che ho scritto in questi anni, è come una sorta di Greatest Hits di pezzi che finora conoscevo solo io. Gli ultimi 12 mesi sono stati pieni di luce, mentre prima vedevo solo buio intorno, senza neanche potermi illuminare con un accendino. Ecco perché adesso, per dirla come dalle mie parti, vivo ‘con la testa tra le nuvole e la merda sotto i piedi’. Quando sono arrivato ad Amici avevo 21 anni, e a quell’età sei istintivo: adesso so di cosa parlo, mi conosco di più, e quando vedo una buca ho imparato come schivarla oppure riesco a capire se cadendoci dentro saprò poi venirne fuori”. Tra i brani, anche Lettera da uno zio antipatico, dedicata alla nipotina Gaia.

Per dicembre sono in programma tre date live nei teatri (il 3 dicembre a Milano, Auditorium Fondazione Cariplo, il 5 a Livorno, Teatro Carlo Goldoni e il 10 a Roma, Auditorium Parco della Musica, Sala Petrassi): “Il teatro ha un’atmosfera sacra, richiede attenzione, tutto è puntato su di te. Voglio fare un tour emotivo, empatico, e mi voglio sfogare un po’ con la chitarra, più di quanto ho fatto nel disco”.

Settant’anni da spirito Pravo

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No, non chiamatela “la ragazza del Piper”, perché lei nel locale romano che le ha dato notorietà ci ha messo piede sì e no un paio di volte in tutta la carriera. E non chiamatela neppure “bambola”, epiteto troppo abusato e banale per contenere un’indole come la sua.
Patty Pravo non si può definire, perché ogni definizione finirebbe col circoscrivere, e quindi inevitabilmente ridurre, una tra le più imponenti personalità artistiche che la musica italiana abbia mai conosciuto. Il suo camaleontismo, la chioma sempre platinatissima, la sua r “annoiata”, quasi evanescente sono ormai patrimonio della storia dello spettacolo, così come quel nome d’arte rubato alle dannate di Dante. E poi la leggendaria notte in giro per Roma sulla 500 con Jimi Hendrix, l’amicizia con Sinatra, le frequentazioni con Fontana e Schifano, la passione solitaria per i deserti, i matrimoni.

Fuggita presto dall’ambiente borghesissimo di Venezia in cui era nata (pare che a casa sua fosse ospite abituale il patriarca Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII) e a cui sarebbe probabilmente stata destinata, ma non priva di una formazione musicale accademica, nel corso di una carriera di oltre mezzo secolo, Nicoletta Strambelli è stata diva intoccabile, volto e corpo anticonformista, interprete sofisticata e sorprendentemente ironica, angelo del rock, ovviamente supericona dell’immaginario gay.fb_img_1462552997903
Seriamente allergica alle convenzioni, ha vissuto senza risparmiarsi gli eccessi e la spensieratezza degli anni ’60 e ’70, mentre la sua voglia di sperimentazione l’ha portata – tra gli anni ’80 e i 2000 – a soddisfare gusti esotici e a compiere scelte inaspettate, rischiando anche di allontanarsi dal grande pubblico, che se qualche volta non l’ha compresa fino in fondo ha però sempre trovato l’occasione di riavvicinarsi: dalla canzone d’autore delle grandi firme (Fossati e Vasco su tutti) e dei nomi dell’ultima generazione (tra gli altri, Ermal Meta, Zibba, Rachele Bastreghi), passando per le potenzialità dell’elettronica, fino alla musica tradizionale cinese di un album come Ideogrammi. Patty Pravo ha azzardato in tutto, spesso cogliendo nel segno, qualche volta mancando il bersaglio, ma anche oggi che compie settant’anni resta circondata da un’aura di fascino inspiegabile e impossibile da replicare: difficilissimo cogliere la linea di demarcazione tra il personaggio e la persona, capire fin dove certi suoi atteggiamenti siano voluti o restino frutto del caso, distinguere la provocazione costruita ad arte dal carattere innato.
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L’esordio nel 1966 con Ragazzo Triste, cover di un pezzo di Sonny Bono e Cher, ha già del paradossale: mentre la Rai censura un verso della canzone, Radio Vaticana la trasmette come primo pezzo pop della sua programmazione. Negli anni seguenti arriveranno Se perdo te, La bambola (successo mondiale da milioni di copie), e poi Pazza idea, Pensiero stupendo (scandaloso manifesto degli anni ’70 firmato fa Fossati), E dimmi che non vuoi morire (diamante d’autore, opera di Vasco Rossi, Gaetano Curreri e Roberto Ferri), fino al successo di Cieli immensi, solo per segnare alcune tappe principali di una discografia sterminata ed eterogenea.
Ma per comprendere la portata di un personaggio così bisogna andare oltre i grandi successi, scendere tra le pieghe degli album meno conosciuti e meno fortunati, dove si nascondono sorprendenti perle di avanguardia stilistica.

Pur con il beneficio del gusto personale, ecco quindi cinque momenti delle carriera di Patty Pravo che forse non tutti ricordano, ma che spiegano meglio delle parole l’immensità del suo personaggio.

Per un bambola: look futuristico, vagamente alieno e orientale, con il vestito in maglia di metallo di Versace, Patty scende le scale di Sanremo nel 1984 con un brano atipico che le fa vincere il Premio della critica.

Contatto: singolo del 1987 incluso nell’album Pigramente signora, nonostante le sue atmosfere ipnotiche, ha avuto un successo decisamente al di sotto delle aspettative.

La viaggiatrice – Bisanzio: con il suo impianto imponente e orchestrale, per ammissione della stessa Patty è uno dei brani che non hanno raggiunto la visibilità che avrebbero meritato.



Treno di panna: autentico capolavoro nascosto nell’album Notti, guai e libertà e firmato anche da Loredana Bertè, rappresenta una superba prova di interpretazione.


L’immenso
: è il 2002 e Patty Pravo torna a Sanremo con una canzone oscura, magnetica e decisamente lontana dagli stereotipi del festival, dove infatti non raccoglie particolari consensi. L’entrata in scena delle esibizioni è già un’epifania divina, ma lei stupisce ancora di più tutti appiccicando il chewingum sul microfono appena prima di iniziare a cantare.

BITS-CHAT: Un nodo tra passato e futuro. Quattro chiacchiere con… Paolo Vallesi

Era il 1992 quando Paolo Vallesi presentò a Sanremo quello che sarebbe diventato il brano più importante della sua carriera, La forza della vita. Da allora, di anni e di musica ne sono passati tanti, abbastanza per fare il punto sul passato annodandolo al futuro con un filo robusto, Un filo senza fine, come il titolo del nuovo lavoro del cantautore fiorentino.
Un album non di soli inediti, ma anche di alcuni importanti ricordi rivisitati in chiave sinfonica o elettronica, come La forza della vita e Le persone inutili.
In apertura del disco c’è inoltre Pace, il bellissimo duetto con Amara che era stato presentato per Sanremo ma che ne è rimasto escluso, salvo essere poi stato voluto da Conti sul palco del Festival durante la serata finale per il suo messaggio.
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Partiamo dal titolo: che cos’è questo Filo senza fine?

Ha un doppio significato. È il titolo di una canzone dell’album, con un significato che tra un attimo ti spiego, e poi è il titolo che ho voluto dare al disco perché rappresenta il mio rapporto con la musica. Un filo che non si è mai spezzato: non importa che lo faccia per tante o poche persone, il rapporto che ho da sempre e resterà per sempre, e in questo disco ho voluto legare il passato, il presente e nuovi suoni elettronici che potrebbero rappresentare il mio futuro.
A proposito del brano invece?
Ho voluto metterlo subito dopo Pace perché sono un po’ le due facce della stessa medaglia. Nella canzone parlo della non violenza. Mi sono immaginato una persona che abbia iniziato a srotolare una matassa per arrivare a trovare l’origine, scoprire che ha dato inizio alla violenza che vediamo oggi intorno a noi. L’uso delle armi autorizza l’uso di altre armi, in un circolo che sempre a crescere. È una critica verso le armi e la violenza usate come soluzione ai problemi. L’accoglienza e il dialogo sono le uniche vere soluzioni.
Un album di inediti e canzoni del passato rivisitate: un nodo tra passato e futuro quindi?
Ho voluto fissare qualche punto. Quest’anno La forza della vita festeggia 25 anni, e la SIAE l’ha riconosciuta come un evergreen della musica italiana. È stata l’occasione per riprendere alcuni brani su cui non avevo mai lavorato, dal momento che erano dei successi e come tali non avevo mai pensato di toccarli e non avrei nemmeno saputo come rifarli: ho approfittato del fatto di avere a disposizione un’orchestra sinfonica per rivestirli completamente.
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Oggi, dopo 25 anni dalla pubblicazione, La forza della vita ha un significato diverso per te?
Oggi di sicuro non la riscriverei così, perché ogni canzone è figlia del suo tempo, e se qualche volta ho commesso un errore è stato proprio perché ho cercato di rifare qualcosa. Quando mi arrivano proposte di nuovi brani, spesso noto che sono dei cloni di cose che ho già fatto, invece ogni canzone dovrebbe avere una storia a sé. La forza della vita è attuale ancora oggi, il suo vero valore forse sta anche in quello: ricevo ancora tanti apprezzamenti, molta gente mi ringrazia dicendomi che questo brano è stato utile durante momenti difficili, e questa è la cosa di cui vado più orgoglioso. Per un cantautore non ci può essere soddisfazione più grande.
E per te c’è un cantautore di riferimento?
Fossati. Proprio per questo ho voluto omaggiarlo con Una notte in Italia, che è il suo brano che più di tutti gli altri mi ha fatto sognare.
Tra i momenti più intimi dell’album c’è I miei silenzi, che è anche un altro degli inediti.
Forse è il brano che più sento mio. L’ho scritto in solitudine. Oggi mi trovo a vivere la condizione di padre e figlio, e vedo come l’amore possa essere facilmente esternabile da una parte e difficilmente dall’altra, anche se ha la stessa forza in entrambe le direzioni. I silenzi hanno a volte un valore molto grande, perché nascondono tutto quello che non sappiamo manifestare.
Prendo spunto da Il mio amore, liberamente ispirato al Cantico delle creature, per chiederti che rapporto hai con la spiritualità.
Sono molto legato alla dimensione spirituale, pur non essendo in cattolico molto praticante. Chi fa questo lavoro è costretto a indagare molto dentro di sé, alla ricerca di risposte che spesso non esistono. Cerco di trarre insegnamento da tutto quello che vedo. Questo brano non l’ho scritto io, mi è arrivato con una musica completamente diversa, ma con un testo meraviglioso, e ho voluto lavorarci sopra. L’autore, Enrico Rialti, non è un musicista, ma un biologo che lavora all’Università di Bologna: ha scritto il testo quasi per gioco, senza pensare che sarebbe davvero finito in un disco. Io l’ho solo un po’ adattato e l’ho preso in prestito da lui, che a sua volta si è fatto ispirare da qualcuno di più grande.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Ribellione è libertà, e la libertà è il modo più bello di esternare la propria vita, senza alcuna costrizione. Non intendo la ribellione come un elemento sovversivo, ma come qualcosa che, andando contro, ti fa arrivare a una maggiore consapevolezza di te e di ciò che sta attorno.