Amarsi per non morire. Quattro chiacchiere con… Giuseppina Torre


Soccombere o rinascere. Una scelta estrema, ma a volte inevitabile, e per la quale non viene data quasi mai una terza alternativa.
Una scelta che Giuseppina Torre si è trovata a dover compiere a causa di quello che lei stessa senza mezzi termini definisce un “amore malato”. E lei, tra la morte, vera, e la vita, ha scelto quest’ultima, liberandosi da un dolore che da troppo tempo la teneva rinchiusa in una gabbia di paure.
Una storia di rinascita e un “inno alla vita” che trovano chiara manifestazione in Life Book, il nuovo album dell’artista ragusana originaria di Vittoria:  10 nuove composizioni al pianoforte che raccontano l’inquietudine e il coraggio di una vita che ha riscoperto l’importanza di amarsi. 

Life Book
, “il libro della vita”, un disco che tu definisci anche “un inno alla vita” e che parte da un momento di dolore.

Proprio così. Questo album nasce da un momento di dolore e di difficoltà che sono riuscita a superare grazie alla musica e al pianoforte. Ci sono situazioni in cui ci si trova a un bivio, soccombere o rimboccarsi le maniche e rinascere, ed è quello che è capitato a me. Ho trasformato le avversità in opportunità: ho imparato a valorizzarmi e a rispettarmi, ho lavorato tanto interiormente su di me e ho scoperto di avere molta più forza di quello che credevo. Ecco perché questo è il mio inno alla vita e un inno al coraggio.

La musica come autoanalisi quindi?
Sì, la musica ha avuto per me una funzione catartica. Sono riuscita ad analizzare il mio animo. La musica è terapeutica, aiuta a trovare pace e per me rappresenta un’isola in cui so da sempre di potermi rifugiare, sia nei momenti belli sia in quelli meno piacevoli. Nell’album precedente, Il silenzio delle stelle, si sentiva un maggiore tormento, che è invece scomparso in questo nuovo disco, dove si percepisce un respiro diverso, un alone di positività e di ottimismo verso il futuro.

Possiamo perciò affermare che l’intero album è stato ispirato da uno stimolo ben preciso?
Le tracce sono nate tutte dal 2015 in poi e sono il frutto di un dolore che ho tenuto dentro a lungo. È servita una scintilla che mi facesse tirare fuori tutto quello che avevo accumulato nel tempo.

Cosa rappresentano le “gocce di veleno” che danno il titolo a una delle tracce del disco?
Quella traccia è nata dalla lettura dell’omonimo libro di Valeria Benatti, speaker di RTL. Le gocce di veleno sono gocce che lentamente corrodono l’animo, creano solchi profondi che fanno stare male. È la sensazione che ho provato a causa di un amore malato, fino a quando mi sono guardata allo specchio e mi sono accorta che i miei occhi si erano spenti e non li riconoscevo più. L’antidoto a questo veleno è il rispetto per noi stessi: dovremmo accettare le nostre fragilità e non permettere agli altri di utilizzarle contro di noi per farci del male. Spesso ci dimentichiamo di volerci bene e ci impegniamo a valorizzare gli altri, senza capire che stiamo aprendo le porte a persone negative. Non possiamo chiuderci agli altri, ma dobbiamo impedire agli altri di invadere il nostro intimo.

Queste tue parole sembrano rimandare direttamente a un altro bano del disco, The golden cage.
La “gabbia dorata” è quella che noi stessi ci costruiamo, è una confort zone in cui ci recludiamo anche se sappiamo che ci fa sentire male. Sono le paure a impedirci di uscire, l’incognita di quello che potrebbe esserci fuori, il timore di perdere gli agi che ci siamo costruiti. Arriva però un momento, e questo nel brano viene espresso da un’atmosfera di inquietudine, in cui l’occhio guarda al di là delle sbarre e vede il bello che c’è fuori: è allora che capiamo che scegliere di vivere davvero è molto meglio che restare intrappolati nella nostra gabbia.

Per riuscirci serve però avere una grande consapevolezza…
Certo, ma bisogna anche pensare che la vita è una sola. Mi sono trovata a dover scegliere se vivere o morire, nel vero senso della parola, e quando ti trovi in una situazione del genere oltrepassare le sbarre è necessario.

Dove sei è invece una dedica un po’ amara alla tua terra, la Sicilia.
Terra amata, bruciata e amara, una terra che riesco a definire solo con contrasti. In estate è bruciata dal sole, ma è anche una terra che offre tantissimi stimoli agli artisti: quando la raggiungo la odio perché sento tutti i suoi limiti, ma se me ne allontano ne sento la mancanza e scopro che l’amore che provo per lei. La Sicilia paga le conseguenze di anni di malgoverno e vive in un isolamento non solo geografico, è arretrata: mancano le autostrade, per prendere un aereo a Catania dal mio paese, Comiso, posso impiegarci poco più di un’ora oppure, come mi è successo recentemente, più di due ore per la presenza di cantieri che rallentano il traffico. Non abbiamo alcuna agevolazione per gli aerei e la benzina, paghiamo i traghetti come i turisti, abbiamo le coste deturpate. Tutto questo però diventa anche un punto di forza per i siciliani, che sono abituati ai sacrifici.

Legato alla Sicilia è anche Un mare di mani: pensi che si arriverà prima o poi a riconoscere la dignità umana delle persone che arrivano in Italia dal mare?
Purtroppo viviamo in Un momento storico in cui la dignità umana sta venendo meno e si sta perdendo il senso della carità. Ho avuto modo di assistere con i miei occhi a scene di salvataggio, e vedere quel “mare di mani” che scompaiono in acqua è un’immagine terribile che dovrebbe spingere i potenti a mettersi una mano sulla coscienza e fare qualche passo indietro.

Per i titoli delle tracce hai scelto l’italiano, l’inglese e lo spagnolo: c’è una ragione particolare?
Quelli in inglese li ho scelti soprattutto per la musicalità, un elemento importante, mi sembrava che suonassero meglio; inoltre ho un pubblico anche in America, per cui ci stavano bene. Siempre y para siempre prende spunto invece da un episodio che ho vissuto personalmente: in un borgo marinaro vicino a Barcellona c’era un uomo che ripeteva queste parole ossessivamente: “siempre y para siempre, siempre y para siempre…”. Chiedendo informazioni agli altri abitanti ho scoperto che aveva avuto una grande delusione d’amore, era stato abbandonato, e da allora continuava a ripetere alla sua amata che l’avrebbe aspettata “sempre e per sempre, sempre e per sempre”. È la testimonianza di come l’amore possa devastare la mente e portare alla follia.

Concludo con una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di “ribellione”?
Rispettare sé stessi. Spesso mettiamo in secondo piano le nostre esigenze, ma un sano egoismo a volte è necessario.

Pirates of the Caribbean: il pianoforte di Davide Locatelli tra classici e dubstep

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Una misteriosa profezia fa scatenare la magia sulla tastiera d’oro e d’argento del pianoforte, affidato alle sapienti ed energiche mani di Davide Locatelli nel video che accompagna le note di Pirates of Caribbean, la personale interpretazione del tema principale della colonna sonora dell’omonimo film eseguita dal venticinquenne musicista bergamasco.

Quello di Locatelli è un tumultuoso esperimento al pianoforte, un modo sanguigno e muscolare di far volare le mani sulla tastiera, con il prezioso apporto di una base che coniuga la dubstep e la trap, unendo il classico e il contemporaneo.
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Davide Locatelli è nato il 22 agosto 1992. Figlio d’arte, sin da piccolo inizia a studiare pianoforte: a 4 anni prende la sua prima lezione dal padre Tati, ex batterista dei Dalton. È stato lui ad introdurlo alla musica e a spingere perché a 8 anni si iscrivesse al conservatorio di Verona e quindi al conservatorio di Mantova dove, nel 2012, si diploma. Iniziano quindi gli studi di Composizione e Piano Jazz al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Nel 2011 esce il suo primo CD, Tunnel, allegato alla rivista Suonare News. Nel 2013, mentre del 2014 è Fly Away. Nel 2016 viene pubblicato l’album La vie en… rock, una rivisitazione solo piano di 15 brani che hanno fatto la storia del rock: ’album entra nella classifica mondiale di iTunes per 3 settimane arrivando all’11esima posizione.
Il 3 luglio 2016 suona in concerto a Monteisola per la chiusura dell’evento the Floating Piers, su volontà dello stesso Christo. 
Negli anni ha suonato in Italia e all’estero (compreso il Blue Note di New York) e ha partecipato a trasmissioni televisive.
Nel 2018 è arrivata la firma del contratto con Sony Music.

BITS-CHAT: Un pianoforte in volo nei teatri italiani. Quattro chiacchiere con… Enrico Giarretta

Lo chiamano “il cantaviatore”: quando non suona il pianoforte è al comando di un aereo e quando non sta solcando i cieli nella cabina di pilotaggio ha le dita impegnate sui tasti bianchi e neri. Enrico Giaretta da anni divide così la sua vita, tra la passione per il cielo e quella per le note.
Entrambe lo hanno portato lontano, la prima nel vero senso della parola, la seconda con la mente, ma muovendo addirittura la stima di Paolo Conte, che lo ha definito un “erede”. Dal 15 aprile scorso, Giaretta è impegnato in veste di opening act nella tournée acustica di Jack Savoretti nei teatri italiani. Poi sarà la volta di imbarcarsi su un nuovo album
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Dal 15 aprile sei impegnato nella dqte italiane dell’Acoustic Night Live di Jack Savoretti: qual è lo stato d’animo?

Lo stato d’animo è quello delle grandi occasioni: tensione, come è giusto per uno spettacolo del genere, oltre a un grande rispetto. Sono un pianista che vive sullo strumento da circa 40 anni, nonostante ciò, l’idea di affrontare teatri tra i più prestigiosi in Italia mi crea uno stato d’animo di euforia misto a solitudine e malinconia, un insieme di sensazioni che trovano il loro naturale profilo nella forma della musica che è secondo me una sensazione per definizione. Come dicevo, grande rispetto che devo soprattutto a Jack che ha accettato di offrirmi il suo pubblico, gentilezza rara di questi tempi tra artisti. Ci tengo a dire che Jack Savoretti, oltre ad essere un grande artista, è anche un uomo di altri tempi, capace di farsi voler bene a prescindere. La nostra è un’amicizia iniziata da poco tempo che spero abbia seguito in futuro al di là del palcoscenico.

Come si è concretizzata questa collaborazione?
La nostra collaborazione si concretizza proprio da questo incontro amichevole avuto in auditorium al Parco della Musica di Roma, dove ho accompagnato Jack al pianoforte in alcuni suoi brani. Ci siamo trovati subito, credo che anche il suo pubblico abbia gradito, oltre a tutto lo staff di management e discografico. Dopo qualche tempo è arrivata la proposta di partecipare a questo tour acustico come ospite. Sono certo ci divertiremo molto.

Il tour si svolge nei grandi teatri italiani, alcuni dei quali con una grande storia alle spalle: tra quelle in programma c’è una data che aspetti con particolare curiosità?
Nei grandi teatri si ha sempre come una sensazione di irriverenza per tutti i fantasmi che hanno frequentato quei palcoscenici: uno su tutti, per quanto mi riguarda, il Teatro dell’Opera di Roma. Pochi lo sanno, ma da giovane, ho frequentato la scuola di danza per 8 anni. In quei tempi si parlava solo di danza classica e il Teatro dell’Opera era per noi una lontana visione irraggiungibile. Ci sono arrivato in qualche altro modo, in fondo sempre di danzare si tratta: anche tra le dita si nasconde agilità leggerezza ed eleganza.

Cosa suonerai?
Suonerò un’anteprima del mio prossimo disco in uscita, Alphabet, mescolando i vari temi in una improvvisazione strumentale, solo piano. Ho scoperto un nuovo modo di fare musica, poggiando le dita sulla tastiera e cercando nuovi colori armonici al di fuori di qualunque schema. Nel jazz lo chiamano free jazz, di cui Ornette Coleman è stato tra i maggiori esponenti: nel mio caso, che il jazz l’ho sempre solo sognato e poco praticato, potrei chiamarlo free classic, provenendo io dalla classica. Una cosa è certa, “free” è la parola che più mi rappresenta in quanto sono sempre stato uno spirito libero, anche troppo. Libero dagli schemi, libero nel tempo e nella forma. Magari prima o poi farò un album con questo titolo, che mi affascina nel suo più profondo significato.
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L’impegno con il tour ti terrà lontano dai cieli?
Sicuramente il tour mi terrà con i piedi per terra per un periodo, ma la testa volerà molto in alto, tra le note. Il modo migliore per volare è con le immagini che puoi crearti da solo, puoi dipingere qualunque orizzonte o tramonto molto meglio con la fantasia piuttosto che nella realtà. Per quanto riguarda il volo reale, potrò riprendere le mie scorribande aeree subito dopo maggio, approfittando anche del bel tempo primaverile per qualche gita fuori porta. Il volo di linea per ora non fa più parte della mia vita, in futuro vedremo. Come cantava Dalla, “chissà, chissà domani… su che cosa metteremo le mani”.

Come accennavamo, presto uscirà anche il tuo nuovo album, Alphabet, che sarà pubblicato da Universal: puoi già anticipare qualcosa al riguardo? Il titolo, per esempio,a cosa fa riferimento?
Il mio nuovo disco avrebbe potuto chiamarsi True, inteso come verità totale. Suono un pianoforte di quasi 100 anni microfonato in ogni sua parte, compreso lo sgabello che a volte cigola, compresi i tasti che rumoreggiano sotto le mie dita, compreso il mio fiato che si fa più intenso nelle fasi musicalmente più colorate. Ho voluto offrire all’ascoltatore tutto me stesso e tutto lo strumento con la sua storia, uno Steinway & Sons che ha passato due guerre mondiali ed è arrivato fin qui, vivo più che mai. Tutto quello che c’è è totalmente improvvisato. Proprio da quelle improvvisazioni, mi sono “ritagliato” dei temi musicali che credo porterò con me per sempre.

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Dopo la data di apertura al Teatro Ponchielli di Cremona il 15 aprile, l’Acoustic Nights Live di Jack Savoretti proseguirà con questi appuntamenti:
16 aprile 
– Teatro Dal Verme – Milano; SOLD OUT
18 aprile – Teatro Goldoni – Venezia; SOLD OUT
19 aprile – Teatro dell’Archivolto – Genova;
20 aprile – Teatro dell’Archivolto – Genova; SOLD OUT
21 aprile – Teatro dell’Archivolto – Genova;  SOLD OUT
21 maggio – Teatro dell’Opera – Roma;
22 maggio – Auditorium Manzoni – Bologna; SOLD OUT
23 maggio – Teatro Alfieri – Torino;
25 maggio – Teatro Verdi – Firenze;
26 maggio – Teatro Regio – Parma;
28 maggio – Teatro Filarmonico – Verona; SOLD OUT

#MUSICANUOVA: Andrea Sertori, Claw Machine

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Là dove il pianoforte classico incontra il sintetizzatore prog, là dove la tradizione incontra lo sperimentalismo, là dove la linearità rassicurante incontra scenari destabilizzanti, ecco, proprio là, su quel crinale, c’è la musica di Andrea Sertori.

Dal suo primo EP solista Mosaic RoomClaw Machine è l’ultimo singolo estratto.

BITS-RECE: Opus 3000, Benevolence. Una fusione di suoni

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Che un libro non vada mai giudicato dalla sua copertina ce lo hanno sempre insegnato, ma a volte una copertina sa dare un’idea piuttosto precisa del suo contenuto.
Come in questo caso. Non stiamo parlando di un libro, ma di un disco, ma il concetto è quello. In particolare, stiamo parlando di Benevolence, primo lavoro del progetto Opus 3000.
Sulla copertina compare un’illustrazione astratta, qualcosa di simile a una distesa marina, deformata come uno stendardo steso al vento.
Ecco, la musica degli Opus 3000 è esattamente questo: astratta e fluida, profondamente fluida. Così fluida che permette a due generi di solito remoti come la classica e l’elettronica, di incontrarsi e fondersi in un’unica anima.
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Dietro al progetto Opus 3000 si nascondono le menti – e soprattutto l’arte – della pianista Gloria Campaner, del produttore e percussionista Francesco Leali e del violoncellista e bassista Alessandro Branca.
Quello che hanno fatto confluire nel loro primo lavoro è qualcosa di contaminato e puro nello stesso tempo: contaminato perché non si riconosce in nessun genere preciso che non sia il crossover, puro perché sembra essere stato generato con il solo scopo di far scaturire emozioni, che sono quanto di più puro si possa conoscere.
Benevolence è un album diafano e nebbioso, a tratti ruvido, che fa della fluidità la sua forza: i suoni degli strumenti classici sembrano sciogliersi in un mare indistinto di sintetizzatori e distorsioni, lasciando venire a galla di tanto in tanto rilievi di violoncello o di pianoforte, come lievi punte di scogli in una distesa infinita e senza tempo.
Dedicato a chi ama perdersi.

BITS-CHAT: Sotto un cielo di note azzurre. Quattro chiacchiere con… Enrico Giaretta

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Per lui è stato coniato il termine di cantaviatore, ovvero un artista che divide la sua musica con la passione per il cielo e gli aerei. Enrico Giaretta alterna infatti i tasti del pianoforte ai comandi dell’aereo, essendo anche a tutti gli effetti un comandante di Alitalia.
Lo scorso 21 maggio è stato tra i protagonisti di Piano City Milano, il grande evento dedicato alla musica pianistica, durante il quale ha tenuto un concerto in cui, accompagnato da un coro di bambini, ha presentato anche l’Inno degli Amici cucciolotti e Black Rhino, il primo brano per bambini appositamente composto da Paolo Conte per sensibilizzare i più piccoli all’amore per gli animali.

E mentre le sorti di Alitalia tengono tutti con il fiato sospeso, Giaretta continua a solcare i cieli del mondo e quelli immaginari delle note, facendo tesoro delle parole che un giorno proprio Paolo Conte gli ha riservato.
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La tua carriera si divide tra la passione per il pianoforte e quella per gli aerei, ma quale delle due è arrivata per prima nella tua vita?

Assolutamente la musica, credo sia arrivata quando ancora dovevo nascere. Mia mamma passava le giornate ascoltando Mozart, Verdi, Beethoven a volumi da stadio. Praticamente “condivideva” già allora con tutto il quartiere, e con me, nella sua pancia. All’età di 18 anni, ho scoperto gli aerei con il mio primo volo durante il servizio militare. Da allora ancora cammino guardando le nuvole. La mia testa è sempre li.

Quanto è difficile essere un “cantaviatore”, cioè dividersi tra due mondi così diversi?
Difficilissimo. I miei programmi di lavoro tra musica e volo sono schedulati al minuto. Non posso permettermi di perdere 10 minuti su un divano a guardare la televisione, ad esempio. La cosa che mi fa “soffrire” maggiormente è che circa 20 giorni al mese, dormo lontano dai miei figli e da mia moglie, nonché l’impossibilità di dedicare un pomeriggio per raggiungere il resto della famiglia divisa tra Latina e Civitavecchia. In particolare mia nonna, per la quale nutro una passione totale.

Quale dei due percorsi è stato più complicato da seguire? E quale invece ti ha riservato sorprese o soddisfazioni più grandi?
Per diventare un musicista ci vuole una vita. Una vita. Non si può intraprendere questo percorso in età adulta, per molti motivi sia cognitivi che muscolari e di apprendimento. Bisogna iniziare da giovanissimi, altrimenti si perde il treno e tutto va rimandato alla prossima vita. Per diventare pilota professionista, ci vuole una grandissima passione e tenacia, ma come nel mio caso si può iniziare anche a 40 anni. In 5 anni sono diventato pilota di linea e ho già volato 3 aerei completamente diversi. Dal P180 di K-air (compagnia di aerotaxi, ndr) al formativo ATR72 di Mistral Air, compagnia fondata da Bud Spencer, fino ad arrivare, con una selezione rigidissima, in Alitalia Cityliner su Embraer 190. Portare a spasso 50 tonnellate e oltre 100 passeggeri è un’emozione indescrivibile e una grande responsabilità. Ci vuole un grande rispetto per questo lavoro.

Mi piace molto il titolo del tuo ultimo lavoro, Scalatori di orizzonti: chi sono per te oggi, gli scalatori di orizzonti?
Così come dice il testo del brano che dà il titolo all’album, i veri scalatori di orizzonti sono i bambini, e per bambini si vuole intendere i bambini da zero a cento anni, così come recita lo slogan degli Amici Cucciolotti, la collezione di album e figurine per la salvaguardia degli animali. Loro, gli scalatori di orizzonti, sono stelle colorate che ci insegnano il cammino e anche il punto più lontano può sembrarti, più vicino. Grazie a Marcello Murru, che ha scritto questo brano insieme a me.

L’intero progetto, a cominciare dall’Inno degli Amici cucciolotti, è volto alla sensibilizzazione dei bambini all’amore per gli animali: cosa ti ha spinto ad abbracciare questa causa?
La grande amicizia con Dario Pizzardi, creatore di questa fantastica collezione, eticamente alta, didattica e fatta con estrema sincerità e purezza nei confronti dei giovani lettori e degli animali. Il grande amore per gli animali, spesso vittime indifese di noi umani, a volte distratti e poco sensibili al loro bisogno di attenzione. Gli animali, loro, ci amano a prescindere dalla nostra condizione economica, sociale, fisica e sono disposti a dare la loro vita per noi.
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Se ti dico “Paolo Conte”, cosa rispondi?
Un uomo e un musicista di altri tempi. Una classe senza eguali. Generoso ed umile. Un giorno, ascoltando un brano da me scritto, Paolo Il Ferroviere, mi ha donato una frase, “Finalmente ho trovato un allievo”. Credo si sia pentito di averla detta dopo qualche minuto, ma ormai era troppo tardi, lo avevo già detto a tutti! Sono onorato della sua amicizia.

Facciamo un piccolo gioco: pensa a cinque città in cui sei atterrato per lavoro, e che ti hanno lasciato un ricordo particolare, e prova ad associare ad ognuna un brano musicale, tuo o di altri artisti.
Aeroporto di Victoria Falls, Africa. Il brano La fabbrica delle nuvole, uno dei brani a cui sono maggiormente legato, avendolo composto in uno dei miei numerosi viaggi in Africa, non da pilota ma da musicista. Mi ricorda Piero Wonger, un mio caro amico che mi ha fatto conoscere e girare il mondo facendo concerti ovunque.
Aeroporto di Noi Bai, Hanoi. In quel viaggio scrissi Roma Saigon. Toccai con mano la grande sofferenza di una guerra assurda, come del resto tutte le guerre lo sono.
Aeroporto di Milano Linate, una città meritocratica, che mi ha dato artisticamente molto. Il brano, “Quando Quando” di Pino Daniele, lo suonai con lui e Califano, in un concerto dove ci aveva invitato. Da allora lego a Milano quel brano e quel ricordo fantastico.
Aeroporto di Roma Fiumicino, il brano Roma nun fa la stupida stasera. Ogni volta che atterro a Fiumicino, vedo il ritorno a casa da mia moglie Carmela alla quale una volta ho dedicato questa fantastica canzone di Armando Trovajoli. Atterrando a Fiumicino inoltre passo sopra Civitavecchia. Li è sepolta mia mamma. Ci penso ogni volta che atterro.
Infine, aeroporto di Havana, Cuba. Li sono stato varie volte. Ho scritto un brano, in casa di Chucho Valdes, grazie a Edoardo Piloto, altro grande musicista. Si intitola semplicemente Havana. Devo dire che ho sempre avuto una grande fantasia per i titoli…

Allontanandoci un po’ dalla musica, che aria si respira in questo periodo nei corridoi di Alitalia?
Un’aria triste, qui c’è gente che ha dedicato una vita all’Alitalia. Un’aria di grande professionalità. Tutti nonostante il momento difficile passano giornate sui libri per aggiornamenti di rito che riguardano il personale di terra e di volo. Un’aria di passione e di speranza per tutte quelle persone che senza questo lavoro sarebbero perse. Comunque anche un’aria di speranza e di forza. Un’aria tersa, dove molte cose sono divenute più chiare, meno piacevoli, ma alla luce del sole è più facile orientarsi e guardarsi negli occhi. Capirsi, per ripartire insieme sotto un’altra luce.

Quali sono le emozioni a pochi giorni dal concerto in occasione di Piano City Milano?
Vivo la musica come una cosa naturale, nonostante ciò affronto ogni concerto con lo stesso terrore. Poi dopo i primi applausi mi rilasso, e do il meglio di me. Non mi risparmio mai, consegno tutto me stesso nelle mani di chi mi ascolta, consapevole che il mio pubblico sa manipolare i miei colori, con grande cautela e attenzione. Loro non seguono mode ne cliché. Io non li tradirò e loro non mi tradiranno. Un patto fatto di note azzurre.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Il concetto di ribellione ha infinite chiavi di lettura. Ho sempre letto la ribellione in chiave di ” tenore”, da qualche anno l’ho trasposto in chiave di ” Do”. Apparentemente con un approccio più istintivo ma pieno di insidie e di colpi di scena. Sarà forse per i tagli addizionali che certe note richiedono… Scusate la metafora musicale.

BITS-RECE: Roberto Cacciapaglia, Atlas. Un oceano di stelle

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Non conosco Roberto Cacciapaglia – personalmente intendo -, ma sono pronto a scommettere che abbia l’animo di un sognatore. Non si spiegherebbe altrimenti come possa un musicista, per quanto ispirato e talentuoso, portare avanti una carriera di oltre un ventennio mantenendo viva quella spinta verso l’alto, quella tensione a rompere i confini tra i generi, a far sconfinare il pianoforte nell’elettronica e nella sperimentazione.
Uno lo può fare una volta, due, ma già al terzo disco l’esperimento ti viene male se non ci credi davvero, e per crederci devi essere sul serio convinto nella forza suggestiva della musica, nella sua capacità do portarti lontano, oltre il tempo e lo spazio.
Ecco, in 22 anni la musica di Cacciapaglia questa forza non l’ha mai persa: ha continuato a volare altissima, libera e soprattutto non ha mai temuto di contaminarsi.
Lo si capisce bene se si fanno scorrere le 28 tracce di Atlas – La riscoperta del mondo, la raccolta che il maestro, dopo aver musicato gli spettacoli dell’Albero della Vita a EXPO 2015, ha da poco pubblicato e nella quale ha riassunto il meglio della sua attività. In aggiunta, due brani inediti (Reverse e Mirabilis) e un omaggio a Bowie con una rivisitazione di Starman.
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Un doppio album che è quasi inevitabile ascoltare pensando a un viaggio. Anzi, a una traversata sull’oceano a bordo di un vascello emerso dall’alba dei tempi. Un viaggio notturno tra flutti altissimi, talvolta minacciosi, mentre sopra di noi splende la più bella volta stellata che si sia mai vista.
La musica si fa tempesta, si fa tuono, si fa onda, il pianoforte è la spuma del mare, le percussioni il temporale, e poi ecco gli archi, le costellazioni. Si sovrappongono, si rincorrono, si condono, crescono e descrescono, il cuore si spaventa, si emoziona, si commuove, ma ecco che arriva la quiete e il viaggio riprende.
Sopraggiungono anche alcune sirene, con il loro canto immortale ed etereo, purissimo.
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Atlas è un’unione perfetta di sinfonia, sperimentazione e suggestione imaginifica, slegata da ogni dimensione. Brani come Wild Side, Lucid Dream, Mirabilis, Celestia e The Future sono veri e propri sussulti alle corde dell’anima, momenti di bellezza abbagliante e commovente.
Ci vuole coraggio a continuare a sognare, ma chi riesce a farlo stringe tra le mani uno dei doni più preziosi.

I dolori del giovane Douglas Dare

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Se fosse nato nell’Ottocento, molto probabilmente Douglas Dare sarebbe rientrato nella schiera degli artisti più tormentati del Romanticismo, al pari di Caspar David Friedrich nella pittura o del nostro Leopardi nella poesia. Invece si è ritrovato a fare musica nel XXI secolo e ha dovuto tradurre le sue ansie e i suoi quesiti interiori nel linguaggio della nostra epoca.

Inglese, figlio di un’insegnante di pianoforte ed egli stesso abile con lo strumento, Douglas ha mescolato gli elementi classici e vintage con le spinte dell’elettronica e del pop, costruendosi attorno una stanza musicale del tutto personale, all’interno della quale non ha mancato di far entrare un certo amore per i giochi d’immagine e una notevole propensione al pessimismo cosmico. Il che, per nostra fortuna, lo rende ancora più interessante.
13735571_1338512499511490_4210450146321848141_oLo scorso ottobre ha pubblicato Aforger, il suo terzo lavoro: un album di 10 tracce scaturito dopo aver dichiarato al padre la propria omosessualità ed essere dolorosamente uscito da una storia d’amore, finita per la scoperta di bugie da parte del partner. Da quei due eventi, per sua stessa ammissione, è cominciata dentro di lui una sorta di rivoluzione che lo ha portato a mettere ogni cosa in discussione, persino la sua identità e l’intera realtà attorno. Ad aiutarlo a risolvere almeno in parte i suoi interrogativi pare sia stato 1984 di Orwell.


Aforger – il cui titolo altro non è che la crasi di A forger, ovvero, “un contraffattore” – non è quindi un album sulla fine di una storia, ma è un disco che cerca di risolvere una matassa intricatissima, mette tutto in discussione, si immerge nei dubbi più spaventosi, e lo fa nel modo più sincero e nudo possibile.