BITS-RECE: Tamino, Amir. Malinconica e devastante bellezza

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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C’è qualcosa di affascinante e implacabile che percorre per intero Amir, album di debutto di Tamino. E’ qualcosa che non ha nome, se non quello dell’emozione, un’emozione dolcissima, consolatoria ed efferata nello stesso tempo.
Un dolce veleno che forse non è ancora mai stato battezzato, ma i cui effetti sono lì, concentrati in un disco.
Amir è un lavoro che avanza lento, si dilata portandosi dietro un’eredità che abbraccia il Medioriente e l’Occidente, perché è di questa eredità che si è nutrito anche lui, Tamino Amir Mohamar Foud, artista di madre belga e padre egiziano, e nipote di Mohamar Fouad, popolarissimo cantante e attore del cinema egiziano.

Un album impregnato di melodie che non hanno tempo, sembrano esistere da sempre, con la loro malinconia dorata e caldissima, coperte dalle sabbie di qualche deserto della memoria, e sopra, con stupefacente naturalezza, Tamino ci ha messo le chitarre e quel poco di elettronica preso dall’Europa. Non è un caso che nell’album suoni anche Colin Greenwood dei Radiohead, un gruppo che sulla carta non sarebbe esattamente in linea con certe sonorità e certe atmosfere. Eppure c’è, e questi pezzi non sarebbero la stessa cosa senza il suo contributo.
E poi c’è l’orchestra, la Firka, con i suoi archi sontuosi, imperiali, suonati da musicisti irakeni e siriani, alcuni dei quali nello status di rifugiati.
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Dall’inizio alla fine, il canto di Tamino stordisce con la sua grazia nomade e con la sua tristezza naturale, atavica: Habibi è uno di quei pezzi che riescono a regalare un incanto abbagliante, i cori di Chambers emanano una seduzione irresistibile, w.o.t.h è un mare in tempesta che porta via, lontano, in un vortice di disperazione.

Non c’è un momento privo di suggestione o un attimo in cui venga a mancare la tensione emotiva: Tamino lascia la sua poesia libera di volare toccando le corde dell’anima con l’amore o con il dolore, e regalandoci un disco che dovremmo tutti imparare a meritarci. Anche se potrebbe essere devastante.

BITS-RECE: Ella Mai, Ella Mai. E’ una nata una stella dell’r’n’b?

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Se anche due star navigate hanno deciso di metterci la faccia per due featuring, qualcosa vorrà pur dire.
Ella Mai è l’omonima creatura discografica con cui debutta la nuova promettente stella dell’urban internazionale. Arriva dall’Inghilterra, ma la cultura sonora di cui dev’essersi nutrita in questi anni pare arrivare tutta da Oltreoceano, anche perché vive a New York da quando aveva 12 anni, e in una pletora di aspiranti “nuove reginette” dell’r’n’b, lei sembra proprio fare sul serio.
Certo, la strada per mettersi al fianco di un’Alicia Keys, di una Solange o addirittura di una Rihanna o di una Beyoncé, è ancora piuttosto lunga, ma da qualche parte bisogna pur cominciare, e se i primi passi  li si fanno a lunghe falcate si può avere qualche possibilità di arrivare prima al traguardo.
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Ecco, dopo tre EP rilasciati tra il 2016 e il 2017, Ella Mai parte generosamente con un album di ben 16 pezzi di r’n’b purissimo, con assortimenti di ritmi affilati e arrangiamenti patinati, andando un po’ a riprendere quell’eredità che un tempo apparteneva ad artiste come Janet Jackson e Mariah, Carey, anche senza avere (purtroppo) la voce di quest’ultima.
Nel complesso il meccanismo è ben oliato e funziona bene, la ragazza ci sa fare, non c’è dubbio, ma è anche vero tra tutte quelle sincopi e quelle ballate non c’è nulla di davvero sorprendente, nulla insomma che faccia alzare il sopracciglio.
Fino a quando non si arriva a Easy, quasi in chiusura dell’album: lì, in quel cotonatissimo arrangiamento di soul fatto solo di pianoforte e archi, arriva il momento topico dell’intero album e Ella Mai fa vedere tutto quello di cui è capace.

Se al prossimo giro ci piazza una manciata di pezzi così, la gloria sarà davvero vicina.

BITS-RECE: You Me At Six, VI. Alt-pop ad alta tensione

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Si intitola semplicemente VI perché per gli You Me At Six è, ça va sans dire, il sesto album, e in appena 10 tracce condensa la forza e l’energia di un pop fortemente alternative e di un rock elettronico che fatica a restare fermo.

A quattro anni dal precedente Cavalier Youth, la band inglese torna con l’adrenalina in corpo e un umore piuttosto cupo, che si manifestano già nella sferzata elettrica di Fast Forward, il rabbioso pezzo che apre il disco, ma anche con le tonalità cavernose che scorrono lungo Miracle In The Mourning, o ancora nell’imponenza quasi liturgica dei tornelli di Predictable, che potrebbe tranquillamente essere uscita da uno degli ultimi lavori degli Editors.
Poi certo, non mancano episodi diversi, come il tiro al limite del funky di Back Again o di Danger, oppure 3AM, che pur nel suo spirito rock sembra voler trascinare al centro del dancefloor. 
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Per trovare l’unico momento di relativa pace bisogna arrivare fino alla fine, con Losing You, dove ancora una volta il rock e l’elettronica si coalizzano e chiudono un disco che scalcia per farsi sentire.

BITS-RECE: Loredana Bertè, LiBertè. Un inno alla follia e uno scacco alla vita

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Non si diventa Loredana Bertè. Ci si nasce e basta, perché essere Loredana Bertè vuol dire portarsi dietro e dentro un’identità di ruggine e spine, dolore, passione, rabbia, tragedia, e una capacità eccezionale nel riversare tutto in musica in maniera nuda e viscerale. Perché con Loredana la musica diventa una ragione di vita, un’ancora di salvataggio, l’unico buco aperto sul cielo attraverso il quale gridare e liberarsi dei torti che la vita riserva.

Erano 13 anni che Loredana Bertè non usciva con un intero album di inediti (l’ultimo, Babybertè, è infatti arrivato tra tutti gli onori nel 2005), anche se in questi anni la sua presenza si è sempre fatta sentire, con i live e con la pubblicazione di alcuni inediti di abbagliante bellezza (L’araba fenice, Musica e Parole, fino al più recente E’ andata così).
Ora il nuovo album, LiBertè, ci riconsegna una Bertè al massimo della forma, forte di un affetto di pubblico mai scomparso e adesso se possibile rinnovato. E a proprio a questo pubblico lei si ripresenta con un autentico manifesto di vita, Libertè, gridato come sempre a suon di rock, con quella voce ruvida e affilata che sa diventare anche una potentissima arma consolatoria.
Se Non ti dico no è stata la mossa perfetta per tornare all’amato reggae e farsi conoscere dai più giovani, la vera essenza di Loredana la si ritrova annidata in pezzi come LiBertè, uno dei tanti testamenti di intenti che Loredana ha lasciato sul suo cammino, Maledetto luna-parkAnima carbone, una disperata sfida alla vita, e Davvero, abbagliante e commovente nella sua spietata verità e in quella forza disarmante che ti spacca il cuore (“l’unica cosa che so è che far luce bisogna bruciare”).

Tutti in paradiso rivela una vena più sferzante ed è un atto d’accusa a una società che  in nome del buonismo tende ad assolvere tutti i peccati e le colpe, mentre Messaggio dalla luna porta la firma di Ivano Fossati, forse uno degli autori che negli anni ha meglio conosciuto e inquadrato l’indole selvaggia di un’artista che tantissime volte ha puntato gli occhi alla luna (solo in questo disco i riferimenti “lunari” non si contano).

In chiusura del disco le parole di Loredana contro il bullismo sono un inno ali folli e ai diversi.
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LiBertè è un manifesto al diritto di essere folli, come ha dichiarato Loredana, ma ancora di più è un altro schiaffo al mondo da parte di una donna nella vita non ha mai imparato a fare i conti con i compromessi, e che forse proprio per questo non fa sconti quando alza il suo canto di rabbia e il suo bisogno d’amore.

BITS-RECE: Tano e l’ora d’aria, Tano e l’ora d’aria. Canzoni di evasione

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Per un detenuto, l’ora d’aria è quell’unico momento della giornata in cui può ritrovare per un po’ se stesso e assaporare sulla pelle una parvenza di libertà, alzando magari gli oggi verso quel rettangolo di cielo per sognare l’evasione. Un momento di solitudine e insieme di condivisione, vissuto con tutti gli altri detenuti, ognuno con la sua storia diversissima dall’altra, ma tutti lì, trattenuti in un non-luogo.

Questo disco è proprio come un’ora d’aria, come dice già il suo titolo e come ha scelto di chiamarsi il quartetto di musicisti che lo ha scritto e suonato, Tano e l’ora d’aria.
E’ un disco che inizia a prendere forma un po’ di anni fa, verso il 2010, e che solo oggi diventa realtà: in questi otto anni è cresciuto, ha aggiunto storie alle storie, che si ritrovano ora a convivere in un unico ambiente, come nel cortile di un’ora d’aria.
E come in un’ora d’aria anelano alla libertà. O meglio, cercano l’evasione, nei temi e nella forma: sono canzoni “licenziose, sfacciate e provocatorie ma anche languide, tragiche, grottesche”, qualcuna colpevole, qualcuna innocente, tutte accomunate da un’attenta scelta delle parole. Non sono ancorate a nessuno stile in particolare, perché sono figlie del teatro-canzone, di un cantautorato recitato, del blues, del rock’n,roll, del gospel, del cabaret, del burlesque; sono ironiche, dissacrati, commoventi.

Raccontano le debolezze della vanità umana, l’amore, il peccato, le falle della nostra società, i piccoli e grandi mali
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Ma più di ogni cosa, le dodici storie di questo album sono libere, e da quel cortile di ora d’aria cercano la via per uscire dagli stereotipi e dai luoghi comuni di una musica troppo spesso obbediente alle sole regole del mercato.

BITS-RECE: lemandorle, Per un album è ancora presto. Elettropop agrodolce

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Un po’ più di un singolo, molto meno di un album, quasi un EP.
Tre inediti.
D’altronde, le mani le hanno già messe bonariamente avanti nel titolo: Per un album è ancora presto, che è anche una risposta a chi probabilmente in questi anni chiedeva come mai non avessero ancora pubblicato un disco dopo l’uscita dei primi singoli.
Sfruttando i vantaggi della realtà digitale, che permette oggi a un artista – specie se emergente – di muoversi con molta più libertà che in passato, svincolandolo dall’obbligo dell’LP, lemandorle (per chi non lo sapesse, sì, si scrive proprio così, tuttoattaccato) hanno pensato di chiudere l’estate raccogliendo tre nuovi pezzi in un mini EP che prosegue sul percorso già tracciato a partire dal 2016, quando il brano d’esordio Le ragazze è apparso in rete e ha fatto conoscere questo interessante progetto elettropop.
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La matrice è sempre quella, ben definita: ritmi danzereccio perfetto per il club e un’attitudine un po’ ironica e un po’ malinconica per raccontare storie ordinarie su melodie elettroniche eredi dei gloriosi anni ’80.
Ecco allora Marta, Adesso e Se tu ti prendi, tre canzoni figlie della gioventù dei giorni nostri, quella a ridosso della consapevolezza adulta, in tutta la sua complessità, tra ricerca dell’identità, le contraddizioni, le relazioni sfuggenti, gli incastri difficili.

Per ora ci accontentiamo, ma la voglia di album cresce….

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BITS-RECE: Troye Sivan, Bloom. Scandalo immacolato

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Il nome di Troye Sivan circola già da alcuni anni sul web e nelle radio, ma è solo negli ultimi tempi che – almeno al di fuori della sua Australia – la sua musica sta raggiungendo un bacino di pubblico significativo. Gli elementi per candidarlo a prossima superstar globale ci sono effettivamente tutti: un’età (23 anni) già abbastanza matura per concedergli credibilità artistica, ma ancora appetibile per l’ambito pubblico “teen” (quello che fa gola a tutti gli uffici marketing), un’immagine efebica e intrigante quanto basta e un elettropop adatto tanto ai canali radiofonici quanto alle piste dei club. 
Soprattutto però, quello che non sfugge quando si ha a che fare con lui è la sua personalità, definita benissimo nel suo incontro di candore e audacia.

Proprio appena sotto la superficie patinata si capisce che Troye Sivan non è l’ennesima matricola di pop idol intercambiabile con chissà quanti altri esemplari, ma un artista che nella musica mette davvero se stesso: dopo l’esordio con Blue Neighbourhood, il ragazzo cala infatti ora un carico pesante con il secondo album, Bloom.
Se dal punto di vista sonoro non siamo di fronte a una rivoluzione, il punto di forza di forza del disco è nei testi, in quei racconti (ma in certi casi sarebbe meglio dire rivelazioni) personali, sfacciati, sensuali che non è così facile ritrovare negli album dei suoi coetanei.
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Con il suo synth-pop onirico, la sua elettronica, i suoi ritmi tra downtempo, dance e r’n’b, le sue atmosfere oscure e rarefatte, Bloom è a tutti gli effetti lo spazio di un confessionale privato, l’occasione per svelare segreti, condividere emozioni: Troye non ha mai fatto mistero della sua omosessualità, ma nella titletrack utilizza l’ardita metafora del giardino per arrivare a descrivere la perdita della verginità, oppure sceglie di aprire l’album raccontando in Seventeen una chat erotica con un uomo più adulto, mentre con Animal mostra gli istinti più passionali. E poi c’è la passione quasi carnale di Lucky Strike, ma anche momenti più leggeri, come Dance To This, in duetto con Ariana Grande.

Sotto le sue sembianze immacolate, la nuova voce del pop internazionale svela spregiudicatezza, audacia, erotismo, bisogno di libertà, e lo fa senza scandalo, quasi sottovoce.

BITS-RECE: Aldo Granese, Sirene. Sesso, illusione e tragedia

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Puttana, prostituta, meretrice, o un’infinità di altri termini, più o meno volgari e gergali, per indicare la stessa figura. Una figura di donna, perché ovviamente in un mondo maschilista, un uomo che si vende ha sempre diritto a un trattamento di maggiore favore. Come ricorda la voce del popolo, il ruolo della grande seduttrice esiste dall’alba dei tempi, e nei secoli è stato etichettato in modo dispregiativo, o con impomatate definizioni politically correct ancora con nomi circondati da aura aulica. Ma se cambia il nome, non cambia certo la sostanza, e la figura della prostituta è sempre lì, pronta a ricordarci quanto fragile sia la natura umana, nonostante i moralismi e la più ferrea volontà.
Se a tutti è ben evidente l’associazione della prostituzione con il sesso, il proibito e la passione, meno volentieri ci si ricorda che spesso dietro a quei tacchi vertiginosi e quegli abiti provocanti si nascondono storie di tragedia, sfruttamento, negazione della stessa dignità umana.
Un aspetto che non è sfuggito ad Aldo Granese, cantautore irpino che proprio attorno al mondo della prostituzione ha fatto ruotare il suo ultimo lavoro, Sirene.
Ecco, la sirena, creatura mitologica, incantatrice e inafferrabile, crudele e meravigliosa, al cui fascino neppure l’astuto Ulisse seppe resistere, ma anzi, scelse di abbandonarsi.
Con un’immagine poetica, ma senza censure e buonismi, Granese racconta in 10 tracce un mondo illuminato dalle luci dei lampioni, passionale, osceno, immorale, desiderato, ma anche drammaticamente sfruttato e ignorato.
Le sirene di Granese lasciano baci color porpora, danzano un tango fatale, lasciano volontariamente una vita ordinaria per farsi dispensatrici di amore facile, abbracciano il rischio oppure si allacciano a catene da cui non potranno più sfuggire. E in questo scenario, l’uomo non può che essere un disarmato marinaio pronto a cadere nell’incantesimo o uno spietato cacciatore desideroso di mattanza.
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“C’è chi l’amore lo fa per noia / Chi se lo sceglie per professione / Bocca di rosa né l’uno né l’altro/ Lei lo faceva per passione”, cantava De Andrè. E poi c’è chi lo fa per disgrazia, per schiavitù, per un destino  da cui non si può scappare. E queste sono altre storie, storie di sirene naufragate.

BITS-RECE: Federica Carta, Molto più di un film. La vita in pop

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Federica Carta
è nata nel 1999, quindi ha 19 anni, quasi la metà di chi sta scrivendo questo pezzo. E dei suoi 19 anni ha la spontaneità e l’entusiasmo strabordante.
L’anno scorso indossava ancora la divisa della scuola di Amici, da cui sarebbe uscita con la medaglia di bronzo, e quest’anno – dopo un primo disco e un programma in TV – è già tornata con un nuovo album di inediti, Molto più di un film.
Un anno in cui ha potuto dedicare a questo disco l’attenzione e la cura che, stando dentro la scuola, non aveva potuto riservare al primo lavoro.
Il risultato è un album che parla con scioltezza il linguaggio del pop, con generosi aiuti elettronici: c’è la potenza tropicaleggiante dei primi due singoli Molto più di un film e Sull’orlo di una crisi d’amore, tranquillamente trasportabili sul dancefloor, così come i beat di Il sole a mezzanotte, ma ci sono scelte anche non così immediate come Due in questa stanza.

Il tempo per crescere, evolversi, forse anche prendere strade diverse ci sarà. Per ora c’è il pop, fatto bene. E non è poco.

BITS-RECE: Mina, Maeba. Semplicemente, eternamente

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La vera grandezza di Mina non sta nella voce o nell’interpretazione, ma nel suo saper sempre volare in alto sopra a tutto, sopra ai giudizi, ai luoghi comuni, alle banalità. È questo a renderla costantemente senza tempo, leggera e geniale. In una parola, unica, nel senso più autentico del termine.
Non si diventa Mina, Mina ci si può solo nascere.
La sua ennesima incarnazione è Maeba, ennesimo album di una carriera che non ha eguali – almeno in Italia – per gloria e peculiarità: in 60 anni esatti, la signora Mazzini ha toccato praticamente ogni generale musicale conosciuto, ha viaggiato tra le mode e le generazioni, ha rivisitato brani impensabili, ma soprattutto ha saputo azzardare dove chiunque altro non avrebbe mai osato, uscendone sempre intatta. Mai, neanche di fronte sue interpretazioni più discutibili o hai gusti personali, qualcuno ha potuto pensare che la sua carriera fosse finita. E non solo per una voce che è un miracolo, tanto è ancora salda e granitica, quanto perché Mina ha “minato” tutto quello a cui ha messo mano, rendendoselo proprio, fagocitandolo e facendoselo personale, mostrando una personalità infinita e strabordante, troppo ingombrante per essere piazzata da qualche parte.
L’immensità di Mina sta nella sua assoluta libertà di agire, sempre. Sì insomma, libertà di “fregarsene” e di fare quello che le va.
Nella musica, come nelle immagini, caso forse unico al mondo di artista invisibile, ma allo stesso tempo così attento alla propria immagine: ogni copertina di album – moltissime disegnate dal visionario Mauro Balletti – è un piccolo capolavoro di stupore. Lo era la faccia barbuta di Salomè , la culturista di Rane supreme e ora lo è l’alieno vagamente malinconico di Maeba, forse lo stesso che campeggiava nel 2011 sulla copertina di Piccolino; lo stesso “atterrato” in forma di ologramma con l’astronave Opera durante l’ultimo Festival di Sanremo.
Cosa sia poi questa (o questo) Maeba non è dato sapere: un anagramma, un nome, un pianeta? Chissà, forse è ciò che ognuno vuole vederci: sicuramente, è l’ultimo sassolino di un universo artistico fatto di dettagli enigmatici, curiosi, spesso spiritosissimi.
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Con Mina la canzone d’autore diventa eterna, l’amore si fa totalizzante, il disincanto quasi inevitabile, perché Mina canta ogni cosa con lo stesso, passionale distacco.
Ecco quindi Volevo scriverti da tanto, che forse non rimane nella memoria al primo ascolto, ma già al secondo suona disarmante; ecco la perfida eppure leggera Ti meriti l’inferno; ecco la linea melodica “incantabile” di Il tuo arredamento, che in bocca a Mina diventa un giochino qualsiasi; ecco Last Christmas, che Mina si prende la libertà di snaturare dall’atmosfera natalizia per farne un pezzo jazz (del resto, che c’azzecca un pezzo di Natale a marzo?); ecco il quadro delizioso di A’ minestrina, cantato con Paolo Conte in napoletano maccheronico, dolcissimo; ecco l’arrangiamento quasi elettro-funky di Troppe note; ecco Davide Dileo, ovvero Boosta dei Subsonica, che stende un velo elettronico e irregolare in Un soffio, su cui Mina volteggia come nulla fosse.
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Libertà, di essere e di fare. Fin troppo facile richiamare la figura dell’alieno per descrivere la grandezza di un’artista che di certo ha ben poco a che fare con gli standard dei colleghi.
Niente in Maeba è davvero rivoluzionario, come quasi mai niente in particolare è rivoluzionario in un lavoro di Mina. Rivoluzionario e stupefacente è quasi sempre il progetto nel suo insieme, le scelte degli autori, dei testi, anche solo dei titoli.
Mina non è “avanti”, perché chi è avanti rischia di ritrovarsi solo: Mina è qui con noi, canta per noi, si vuole far capire da tutti, come la più pop delle star. Poi però, vola alta, e si fa eterna.
Mina non è avanti, è semplicemente al punto giusto, lo è ogni suo disco, ogni parola, ogni vocalizzo storto che infila volutamente nella più dritta delle melodie quando meno te lo aspetteresti. Mina è al punto giusto quando si prende in giro e quando ti stordisce dall’emozione.
Mina era al punto giusto ieri, come lo è oggi. È Mina. Sì, lo so, è banale.