BITS-RECE: Mina, Maeba. Semplicemente, eternamente

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La vera grandezza di Mina non sta nella voce o nell’interpretazione, ma nel suo saper sempre volare in alto sopra a tutto, sopra ai giudizi, ai luoghi comuni, alle banalità. È questo a renderla costantemente senza tempo, leggera e geniale. In una parola, unica, nel senso più autentico del termine.
Non si diventa Mina, Mina ci si può solo nascere.
La sua ennesima incarnazione è Maeba, ennesimo album di una carriera che non ha eguali – almeno in Italia – per gloria e peculiarità: in 60 anni esatti, la signora Mazzini ha toccato praticamente ogni generale musicale conosciuto, ha viaggiato tra le mode e le generazioni, ha rivisitato brani impensabili, ma soprattutto ha saputo azzardare dove chiunque altro non avrebbe mai osato, uscendone sempre intatta. Mai, neanche di fronte sue interpretazioni più discutibili o hai gusti personali, qualcuno ha potuto pensare che la sua carriera fosse finita. E non solo per una voce che è un miracolo, tanto è ancora salda e granitica, quanto perché Mina ha “minato” tutto quello a cui ha messo mano, rendendoselo proprio, fagocitandolo e facendoselo personale, mostrando una personalità infinita e strabordante, troppo ingombrante per essere piazzata da qualche parte.
L’immensità di Mina sta nella sua assoluta libertà di agire, sempre. Sì insomma, libertà di “fregarsene” e di fare quello che le va.
Nella musica, come nelle immagini, caso forse unico al mondo di artista invisibile, ma allo stesso tempo così attento alla propria immagine: ogni copertina di album – moltissime disegnate dal visionario Mauro Balletti – è un piccolo capolavoro di stupore. Lo era la faccia barbuta di Salomè , la culturista di Rane supreme e ora lo è l’alieno vagamente malinconico di Maeba, forse lo stesso che campeggiava nel 2011 sulla copertina di Piccolino; lo stesso “atterrato” in forma di ologramma con l’astronave Opera durante l’ultimo Festival di Sanremo.
Cosa sia poi questa (o questo) Maeba non è dato sapere: un anagramma, un nome, un pianeta? Chissà, forse è ciò che ognuno vuole vederci: sicuramente, è l’ultimo sassolino di un universo artistico fatto di dettagli enigmatici, curiosi, spesso spiritosissimi.
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Con Mina la canzone d’autore diventa eterna, l’amore si fa totalizzante, il disincanto quasi inevitabile, perché Mina canta ogni cosa con lo stesso, passionale distacco.
Ecco quindi Volevo scriverti da tanto, che forse non rimane nella memoria al primo ascolto, ma già al secondo suona disarmante; ecco la perfida eppure leggera Ti meriti l’inferno; ecco la linea melodica “incantabile” di Il tuo arredamento, che in bocca a Mina diventa un giochino qualsiasi; ecco Last Christmas, che Mina si prende la libertà di snaturare dall’atmosfera natalizia per farne un pezzo jazz (del resto, che c’azzecca un pezzo di Natale a marzo?); ecco il quadro delizioso di A’ minestrina, cantato con Paolo Conte in napoletano maccheronico, dolcissimo; ecco l’arrangiamento quasi elettro-funky di Troppe note; ecco Davide Dileo, ovvero Boosta dei Subsonica, che stende un velo elettronico e irregolare in Un soffio, su cui Mina volteggia come nulla fosse.
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Libertà, di essere e di fare. Fin troppo facile richiamare la figura dell’alieno per descrivere la grandezza di un’artista che di certo ha ben poco a che fare con gli standard dei colleghi.
Niente in Maeba è davvero rivoluzionario, come quasi mai niente in particolare è rivoluzionario in un lavoro di Mina. Rivoluzionario e stupefacente è quasi sempre il progetto nel suo insieme, le scelte degli autori, dei testi, anche solo dei titoli.
Mina non è “avanti”, perché chi è avanti rischia di ritrovarsi solo: Mina è qui con noi, canta per noi, si vuole far capire da tutti, come la più pop delle star. Poi però, vola alta, e si fa eterna.
Mina non è avanti, è semplicemente al punto giusto, lo è ogni suo disco, ogni parola, ogni vocalizzo storto che infila volutamente nella più dritta delle melodie quando meno te lo aspetteresti. Mina è al punto giusto quando si prende in giro e quando ti stordisce dall’emozione.
Mina era al punto giusto ieri, come lo è oggi. È Mina. Sì, lo so, è banale.

BITS-RECE: Editors, Violence. Magnifica violenza

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Gli Editors sono una garanzia.
Passano gli anni, ma la band inglese non sbaglia un colpo e di album in album si conferma una delle realtà più affascinanti del panorama post-punk. Prendete il nuovo disco, Violence, che arriva a tre anni dal precedente In Dream: come sempre nei lavori della band, dentro ci finisce un epico concentrato di atmosfere oscure, tra possenti impalcature di muri sonori, imperiose tessiture di sintetizzatori, con la voce “caliginosa” di Tom Smith a dare un marchio inconfondibile.

Dark wave, synth pop, rock alternativo: le soluzioni sono molte, ma tutte efficaci per dar forma a un disco imbrattato di pece, nero come il catrame, a tratti disperato. Rispetto al passato, forse qui il gruppo si concede qualche scappatella in più verso il pop, smussando certi angoli un po’ troppo spigolosi o aprendosi di più alla melodia, ma la natura resta quella: nessuno snaturamento, nessun tradimento, nessuna mancata aspettativa. Anzi, 
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Frutto di una lavorazione che ha visto venire alla luce almeno tre diverse versioni per ogni brano prima di arrivare alla definitiva, Violence si riempie di slanci titanici di chitarre, compie persino claustrofobiche discese da club, e mette in atto sinistre fascinazione elettroniche: se l’apertura di Cold sembra un episodio particolarmente “in minore” dei Coldplay, Halleluja (So Low) prende spunto dalla visita in un villaggio di migranti per mescolare suoni acustici e chitarre arrabbiatissime, mentre la ballata No Sound But The Wind è l’unico momento di (malinconica) quiete. Tipicamente “alla Editors” è poi Counting Spooks

Il vero spettacolo del disco è comunque concentrato nella title track, dove l’EDM si incontra con la dark wave: una meraviglia di disperazione e stordimento. 

Sì, gli Editors sono una garanzia.

BITS-RECE: Ministri, Fidatevi. Fidarsi è bene, nonostante tutto

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Come si fa
a restare per sempre al sicuro?
Come si fa
a fidarsi e poi fidarsi di nuovo?

Perdonate la banalità, ma se non fosse già abbastanza evidente dal titolo, è la fiducia il tema centrale dell’ultimo album dei Ministri.
La fiducia, uno dei moti d’animo più altruisti e delicati di cui l’uomo sia capace, e il gruppo milanese – arrivato al sesto disco e dopo 12 anni di musica segnati da una costante ascesa – la canta e la suona a modo suo, con 12 tracce di rock piuttosto tirato e pestato (ma anche con qualche momento di pausa): la fiducia chiesta dai trentenni di oggi ai genitori (Fidatevi), così incapaci di inquadrare il nuovo mondo del lavoro e incapaci di comprendere certe scelte, la fiducia cieca da riporre nell’amore (Tienimi che ci perdiamo), la fiducia in un futuro che ci siamo abituati a pensare in grande, ma con prospettive troppo piccole (Due desideri su tre), la fiducia in se stessi, anche quando questo implica porsi in contrasto con ciò che “gli altri” vorrebbero per noi (Le vite degli altri), anche quando facciamo e rifacciamo gli stessi errori (Memoria breve).
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Un bisogno di fiducia espresso però mai con una vera e propria, e forse troppo prevedibile, rabbia, quanto piuttosto con uno slancio di libertà e una lucida consapevolezza che in fondo la vita fa il proprio corso: i tempi sono quelli che sono, il futuro tanto luminoso non è, ma siamo qua e in qualche modo ne dobbiamo uscire.
Siamo nell’epoca dell’ansia e della solitudine, l’età delle spiritualità fai-da-te, ridotte alle parole, spesso vuote, pur di sperare in qualcosa. 
La soluzione dei Ministri è in un sano, silenzioso, atto di ribellione: disertare quella battaglia quotidiana, forse non così necessaria, del tutti-contro-tutti. Almeno, aspettare: “guarda il tuo incubo, e digli ciao, ciao, ciao”.

Nonostante tutto, fidatevi.

BITS-RECE: Superorganism Superorganism. Delirante caleido-pop

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Concentrare in una manciata di pezzi un delirio sonoro come poche altre volte se ne sono ascoltati: sembra essere stato questo il comandamento seguito dal collettivo Superorganism per dare forma all’esordio discografico. Una missione ampiamente compiuta, a giudicare dal risultato.
Il progetto del mega-gruppo è nato nel 2017 e vede coinvolti otto musicisti / amici / coinquilini con base a Londra in una sorta di studio-quartier generale, ma provenienti da Inghilterra, Giappone, Australia e Nuova Zelanda. Una sana incarnazione di multicultura.
Otto menti affamate di tutto ciò che ruota attorno all’universo pop, ma soprattutto pronte a scoppiare in un tripudio di suoni.
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Difficile capire da dove prendano ispirazione questi ragazzi, tanto il loro genere è personale, eterogeneo e inclassificabile: si parte da una spiccata attitudine pop, ma il punto di arrivo straborda ora nell’elettronica, ora nell’indie, ora chissà dove, e quando lo fa abbatte i confini senza chiedere troppo permesso.
Nelle 10 tracce di questo primo, omonimo album, ci sono distorsioni, campionamenti di rumori e suonerie di cellulari, armonie vocali, sintetizzatori impazziti, tanto che per rendere un’idea esaustiva di cosa sono i Superorganism si potrebbe parlare tranquillamente di “caleido-pop“.  

Se cercate un disco che vi shackeri allegramente la testa, questo è ciò che farebbe al caso vostro.

BITS-RECE: Siberia, Si vuole scappare. Tra amore e dolore

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Quando mi trovo davanti la schermata bianca del computer e inizio la recensione di un album, cerco sempre di mediare tra il più spudorato giudizio personale e una descrizione più distaccata e “professionale”. Poi però ci sono casi in cui tenere separati i due elementi è impossibile, ed è per questo che come sottotitolo delle mie recensioni ho scelto “radiografia emozionale”, dove quel'”emozionale” sta proprio a sottolineare che in ogni commento che scrivo c’è sempre – più o meno evidente – una componente soggettiva, emozionale appunto, che poi è quella che mi fa amare visceralmente la musica, portandomi anche a scriverne.

Tutta questa premessa per dire che quando ho ascoltato Si vuole scappare, secondo lavoro dei livornesi Siberia, mi sono sentito percorrere sulla schiena un brivido di emozione che non posso ignorare. Perché dentro a questo album ci ho sentito scalpitare il lato più crudo e realistico della vita.
Il pop dei Siberia è tanto oscuro quanto viscerale, solenne, a volte liturgico e spietato, in un burrascoso equilibrio tra cantautorato e vigore indie-rock. Non a caso la band nomina tra i suoi riferimenti Tenco, i Baustelle e gli Editors: tutti riferimenti (gli ultimi due in particolare) che non si fatica a riconoscere scorrendo la tracce del disco.
Se dalla band inglese arriva la potenza sonora, con le sue seduttive atmosfere tendenti agli onirismi dark e gli impeti di new wave, dai Baustelle arriva lo slancio poetico spietato, violento eppure così tremendamente affascinante.
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Protagonista del disco è la vita dell’essere umano, spogliato di ogni velo da favola, l’uomo con l’anima nuda e la pelle esposta alle sferzate del destino. Una vita cantata nella sua miseria, nella sua tragedia quotidiana, ma anche in quell’accecante bisogno d’amore a cui nessuno sa resistere. Amore e dolore, spleen ed ebbrezza.

Un disco vertiginoso e ardente in cui perdersi.

BITS-RECE: Annalisa, Bye Bye. Addio alle paranoie

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Da quando abbiamo iniziato a conoscerla, ormai sette anni fa ad Amici, di Annalisa abbiamo visto lo spirito sbarazzino, l’abbiamo apprezzata come elegante e abbiamo ballato quando si buttata nell’elettropop. Mai però la ragazza era apparsa in gran forma e finalmente “a fuoco” come in questo suo ultimo lavoro, Bye Bye, pubblicato all’indomani della sua quarta partecipazione al Festival di Sanremo.

Se le sue doti, e in particolare l’intonazione curatissima, erano da sempre i suoi punti di forza, Annalisa non si era ancora presa la completa libertà di espressione che la porta invece a volare a briglie sciolte nel nuovo album.
Bye Bye è infatti un vero manifesto di libertà e di leggerezza, come dichiara già il titolo, un congedo a tutti quei vincoli a cui fino ad oggi Annalisa si era sottomessa per imposizioni morali o autoconvincimenti.
Un capitolo discografico che si stacca dai precedenti anche stilisticamente, puntando verso un pop freschissimo e sporcato di spunti urban, come aveva lasciato intuire Direzione la vita, il primo singolo pubblicato lo scorso anno.
Se il brano sanremese, Il mondo prima di te, rappresenta forse l’episodio di stampo più tradizionale, che Annalisa sa però vestire perfettamente alleggerendolo dalle banalità, il resto dell’album si snoda scioltissimo tra decorazioni elettroniche, tuffi e capriole nell’R&B, fino ad arrivare al featuring con Mr. Rain in Un domani, che fa incontrare Annalisa e l’hip-hop.
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Bye Bye è un invito azzardare, il disco del prendersi “tutto e subito” non per avidità, ma perché la vita non aspetta, quel che oggi c’è domani potrebbe non esistere più (“come le storie di Instagram”), perché il presente non torna più.
Annalisa mette da parte le noie e le paranoie, le ansie da prestazione del piacere per forza, e in cambio si guadagna una nuova (e forse definitiva?) credibilità di interprete.

BITS-RECE: IAMX, Alive In New Light. Una nuova luce nel buio

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Alive In New Light, ovvero “Vivo nella nuova luce”.
Il titolo la dice già lunga. Dopo alcuni anni e un paio di dischi passati nel buio della depressione, IAMX – ovvero il progetto di Chris Corner – risale dall’oscurità e va incontro a una drastica metamorfosi personale e musicale. 
Le nove tracce del nuovo lavoro non si collocano certo in paradiso, ma sono sensibilmente lontane dagli abissi oscuri e mortiferi in cui l’artista si era confinato: la sua è una trasformazione ancora in corso, un passaggio ancora in divenire, ma dalle ceneri si osservano già i palpiti di una nuova vita.
Registrato nel deserto della California all’interno di una roulotte, Alive In New Light è il grido di una creatura che vuole manifestare la sua rivincita, e per farlo usa ancora gli abiti fascinosi del synthpop, spogliati però di aura funerea.

IAMX sta riemergendo dalla notte, puntando il suo sguardo su una timida alba fatta di luci sintetiche, peccaminose seduzioni esotiche e richiami quasi circensi.
Ad accompagnarlo nel suo percorso è, in ben 4 brani, Kat Von D, modella, tatuatrice e qui cantante, ma soprattutto perfetta alter ego di Corner.
Chris Corner (Credit-Gretchen Lanham) copia
Mile Deep Hollow, scelta anche come colonna sonora della seria della ABC Le regole del delitto perfetto si svela per essere un imponente inno di gratitudine, mentre la chiusura dell’album è affidata alla liturgica The Power And The Glory, una sorta di preghiera laica (o profana) che lascia intravedere la speranza di un nuovo giorno.

Privo forse della stessa potenza e del fascino di Metanoia del 2015, Alive In New Light regala all’anima dark e teatrale di IAMX i bagliori per imprevedibili evoluzioni future.

BITS-RECE: Maddalena, The Forest. Un respiro sott'acqua

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Si intitola The Forest, ma le sue atmosfere sembrano scaturire dai fondali marini, o, meglio ancora, dal fondo di un lago.
The Forest è il secondo lavoro di Maddalena Zavatta – in musica solo Maddalena -, e segue di tre anni l’esordio di Electrodream.
Nove tracce sospese tra dreampop ed elettronica che emanano una luce soffusa e subacquea, a tratti densa e opaca.

Synth che ondeggiano sinuosi come steli di alghe, ritmi rarefatti, melodie come raggi di sole filtrati tra rami e superfici vitree.
C’è anche qualche accenno dark, ma più di ogni altra cosa ci sono numerose digressioni malinconiche e sospese che ricordano certe sperimentazioni anni ’80 e ’90 (l’Angelo Badalamenti di Twin Peaks, per fare un esempio), commistioni di ambient e trip hop, da cui spuntano beat incalzanti, mentre le parole cercano di catturare e raccontare il significato della libertà.
Una vera e propria immersione in un ambiente sonoro dai contorni sfumati, riflessi indistinti, luci ed ombre abbracciate e fluttuanti. Ed è come respirare a pieni polmoni sott’acqua.

BITS-RECE: Vertical, Equoreaction. Nel nome del groove

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Groove. Incessantemente groove. Instancabilmente groove.
Groove come una religione, una legge non scritta, ma ovviamente suonata.
Nell’universo interspaziale dei Vertical, popolato da afro-alieni, l’aria pulsa di groove in ogni angolo tra beat, giri di basso e squilli di fiati. Un groove che prende ora le forme del funk, ora quelle dell’afrobeat, ora quelle del blues, ora quelle di un pop psichedelico figlio degli anni ’70.
Tutto questo è concentrato e mescolato nelle quattro tracce di Equoreaction, secondo EP di una trilogia della band vicentina, che segue la pubblicazione di Alpha.
Nel nome del groove.

BITS-RECE: Rosemary & Garlic, Rosemary & Garlic. Un incanto (quasi) perfetto

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Benvenuti nella città incantata. 
Potrebbe aprirsi così il nuovo e omonimo album di Rosemary & Garlic. Dieci brani leggerissimi, diafani, pitturati con colori tenui e diluiti, come in un quadro impressionista – e non a caso l’Ottocento è un periodo artistico e letterario molto amato da Anne Van Den Hoogen, cantante e musicista del duo di base olandese. Non esistono contorni reali, ma le tinte si fondono una nell’altra. (A proposito: la copertina è opera di Gregory Euclide, già apprezzato da musicisti come Bon Iver).
L’universo che si apre alle orecchie dell’ascoltatore è quello di un dream-pop fatato e pacifico, illuminato da rarefatta quiete paradisiaca.  
Una superficie sonora appena increspata da arpeggi acustici, trilli, echi e tessiture di percussioni così impalpabili da assomigliare allo sbattere d’ali di una farfalla; e anche quando le acque sembrano volersi agitare un po’ di più, non spira davvero mai aria minacciosa di tempesta. Semmai, ad alternarsi all’incanto è una certa malinconia.
Tutto sempre accompagnato dai voli eterei del canto.
Rosemary & Garlic promotiefoto's. Photo by Melissa Scharroo, Capribee.
Proprio nel suo eccessivo candore risiede però anche la debolezza di questo disco, a lungo andare troppo statico nella sua tensione alla perfezione. E le emozioni si diluiscono un po’ troppo.