Anticipato da Visualizzare, è tempo di un singolo per gli Epoca 22, stratificato progetto apuano. Notturno, questo il titolo del brano, è il nuovo passo verso la pubblicazione di un album dal titolo La città radiosa, in uscita in autunno.
Un paesaggio lunare, un bosco dalle cui fronde diafane spirano luci cerulee, un locus amoenus che richiama gli scorci delle poesie di Saffo e la lirica di D’Annunzio, ma anche il contesto perfetto per raccontare il dualismo tra eros e thanatos.
Fin dai primi secondi, “Notturno” porta in un “sogno d’una notte di mezza estate” di shakespeariana memoria: sogno su cui incombe, dolce amara, la fine.
Immersa nel tiepido languore dei riverberi, la linea slowcore del brano si ibrida con sonorità new wave e shoegaze.
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
L’anno scorso ho scoperto per la prima volta cosa significa amare davvero un’altra persona, ma ho anche scoperto per la prima volta cosa vuol dire quando la morte bussa alla porta di una persona cara. Ho visto e toccato i due estremi dello spettro e nel frattempo ho compiuto 25 anni. È la vita, immagino, ma forse non ero pronto. Sto ancora cercando di fare i conti con tutte queste cose e non ho ancora ben chiaro il quadro generale, ma lo farò, so che lo farò. Da nuovi sentimenti, derivano grandi responsabilità dopotutto. Devi migliorare te stesso per restare al passo con ogni cambiamento nella tua vita, devi compiere delle scelte. Quindi, dopo aver trovato la mia appartenenza, sono uscito da un posto dove troppo a lungo sono rimasto intrappolato e ho preso treni, superato posti di blocco con la mia macchina per poi parcheggiarla a ridosso del mare per godermi la vista e finalmente godermi il momento. Dopo di che ho raccolto tutto e ho scritto questo disco. Credevo fosse per me, ma giorno dopo giorno mi sono reso conto di averlo scritto per le mie donne. È un bacio e una preghiera a mia Nonna. È una confessione ed un grazie a mia Mamma. È una dichiarazione e un’esortazione alla mia Ragazza. Please don’t scare away your dreams, ‘cause you’ll miss ‘em too much. Now I know.
Con questo post pubblicato su Facebook – di cui no ho riportato solo il commiato i e ringraziamenti finali – Gaetano Chirico, nome che si cela dietro allo pseudonimo di Hesanobody, presentava l’uscita del suo secondo EP, The Night We Stole The Moonshine. Molto di più, mi pare, di una semplice presentazione: in queste righe si intrecciano vita e morte, amore e disperazione, e soprattutto emerge l’istinto di un ragazzo di 25 anni a mettere in musica tutta la vita che gli si è buttata addosso. Un istinto e uno slancio quasi viscerali che hanno preso forma in cinque pezzi di synthpop e tratti oscurissimo e a tratti folgorante. Se di notte si parla, quella di Hesanobody è certamente buia, ma percorsa da sciami di stelle cadenti e scie di meteoriti, tutti rigorosamente sintetici.
Si parte con 4 Wishes, estatica e immersa nei suoi sintetizzatori vibranti, al limite del dark ambient, per passare subito dopo allo sfogo di beat di Clichè, dove la voce tonda di Chirico fa sentire di essere stata allevata e cresciuta dall’ascolto di parecchia wave anni ’80, per arrivare a un tripudio di elettronica con Roadblock, un episodio che inizia con un semplice pianoforte per poi spingersi sempre più in là, al punto da far intravedere i bagliori della techno e della trance. Resta il fatto che portato sotto ai neon di un club, la sua la figurona la farebbe alla grande. Toni un po’ più smorzati accompagnano invece le riflessioni di Mourning The Ghost, tutta arrampicata sui giochi di vocoder e gingilli elettronici, mentre la chiusura di Night 23 si affida a un’esplosione che oserei definire festante, ricordando un po’ gli ultimi lavori dei Coldplay.
Citando – fuori contesto – il titolo di un romanzone del ‘900, The Night We Stole The Moonshine è un viaggio al termine della notte: un disco che corre spedito nel buio, in perfetta solitudine, toglie i freni e si lancia tra crinali e bordi di altissime scogliere. Sussulta tra sbalzi umorali, sprofonda e risale, e tutta la sua essenza sembra riassumersi nella notte infinita e a ridosso del Natale raccontata proprio in Night 23: “We stole, we stole / We stole the moonshine / (The night before this Christmas Eve / We celebrated our belief)”. E riecco l’alba.
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Gli Editors sono una garanzia.
Passano gli anni, ma la band inglese non sbaglia un colpo e di album in album si conferma una delle realtà più affascinanti del panorama post-punk. Prendete il nuovo disco, Violence, che arriva a tre anni dal precedente In Dream: come sempre nei lavori della band, dentro ci finisce un epico concentrato di atmosfere oscure, tra possenti impalcature di muri sonori, imperiose tessiture di sintetizzatori, con la voce “caliginosa” di Tom Smith a dare un marchio inconfondibile. Dark wave, synth pop, rock alternativo: le soluzioni sono molte, ma tutte efficaci per dar forma a un disco imbrattato di pece, nero come il catrame, a tratti disperato. Rispetto al passato, forse qui il gruppo si concede qualche scappatella in più verso il pop, smussando certi angoli un po’ troppo spigolosi o aprendosi di più alla melodia, ma la natura resta quella: nessuno snaturamento, nessun tradimento, nessuna mancata aspettativa. Anzi,
Frutto di una lavorazione che ha visto venire alla luce almeno tre diverse versioni per ogni brano prima di arrivare alla definitiva, Violence si riempie di slanci titanici di chitarre, compie persino claustrofobiche discese da club, e mette in atto sinistre fascinazione elettroniche: se l’apertura di Cold sembra un episodio particolarmente “in minore” dei Coldplay, Halleluja (So Low) prende spunto dalla visita in un villaggio di migranti per mescolare suoni acustici e chitarre arrabbiatissime, mentre la ballata No Sound But The Wind è l’unico momento di (malinconica) quiete. Tipicamente “alla Editors” è poi Counting Spooks.
Il vero spettacolo del disco è comunque concentrato nella title track, dove l’EDM si incontra con la dark wave: una meraviglia di disperazione e stordimento.
BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
Quando mi trovo davanti la schermata bianca del computer e inizio la recensione di un album, cerco sempre di mediare tra il più spudorato giudizio personale e una descrizione più distaccata e “professionale”. Poi però ci sono casi in cui tenere separati i due elementi è impossibile, ed è per questo che come sottotitolo delle mie recensioni ho scelto “radiografia emozionale”, dove quel'”emozionale” sta proprio a sottolineare che in ogni commento che scrivo c’è sempre – più o meno evidente – una componente soggettiva, emozionale appunto, che poi è quella che mi fa amare visceralmente la musica, portandomi anche a scriverne.
Tutta questa premessa per dire che quando ho ascoltato Si vuole scappare, secondo lavoro dei livornesi Siberia, mi sono sentito percorrere sulla schiena un brivido di emozione che non posso ignorare. Perché dentro a questo album ci ho sentito scalpitare il lato più crudo e realistico della vita. Il pop dei Siberia è tanto oscuro quanto viscerale, solenne, a volte liturgico e spietato, in un burrascoso equilibrio tra cantautorato e vigore indie-rock. Non a caso la band nomina tra i suoi riferimenti Tenco, i Baustelle e gli Editors: tutti riferimenti (gli ultimi due in particolare) che non si fatica a riconoscere scorrendo la tracce del disco. Se dalla band inglese arriva la potenza sonora, con le sue seduttive atmosfere tendenti agli onirismi dark e gli impeti di new wave, dai Baustelle arriva lo slancio poetico spietato, violento eppure così tremendamente affascinante.
Protagonista del disco è la vita dell’essere umano, spogliato di ogni velo da favola, l’uomo con l’anima nuda e la pelle esposta alle sferzate del destino. Una vita cantata nella sua miseria, nella sua tragedia quotidiana, ma anche in quell’accecante bisogno d’amore a cui nessuno sa resistere. Amore e dolore, spleen ed ebbrezza.
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
Non lasciatevi ingannare dalle atmosfere nerissime dei suoi suoni. The Familiar Stranger è un disco dall’anima pop. E a dirlo è il suo creatore, Udde. Dopo la pubblicazione dell’EP Fog nel 2012, lui il disco ce l’aveva già pronto un paio di anni fa, ma ha deciso di buttare via tutto quello che aveva fatto fino a quel momento e ricominciare con qualcosa che lo soddisfacesse veramente. Questo qualcosa è proprio a The Familiar Stranger. Un disco pop, si diceva, anche se nei suoni sembrerebbe più rimandare a quell’universo peccaminoso e affascinante che è il synth/dark, o come volete chiamarlo, degli anni ’80, dove i sintetizzatori trionfano come veri oscuri signori dai nerissimi mantelli. E in effetti, tutto questo in The Familiar Stranger c’è, bellissimo e imperiale. Poi se andiamo a guardare i testi ecco che si sentono storie di vita di provincia, vicini di casa, bar, emigrati in Germania. Racconti tra il pop e il cantautorato, arricchiti da qualche nota di sarcasmo. D’altronde, come dice sempre Udde, il grande vantaggio del pop è proprio quello di lasciare piena libertà ai suoi autori. Una panoramica notturna di 11 brani per certi aspetti inedita, in cui le tenebre concedono qualche sorriso. Su tutto, la voce di Udde è cupa, cavernosa, seducente, insomma, meravigliosa.
BITS-SCOPRENDO: il piacere di scoprire, più o meno per caso, un artista, un disco o un brano da tenere d’occhio.
Aemil è un progetto tecnopop-dark nato nel 2007 che cha il corpo e soprattutto la voce di Emiliano Benassi. Tra brani originali e cover stravolte, Depeche Mode, Kraftwerk, Frozen Autumn, Rammstein e tutto il mondo anni’80 sono alla base delle sue influenze. In questi anni Aemil è stato presente sui palchi di diversi locali delle province di Modena, Reggio Emilia, Parma e Mantova.
BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
Parte tutto da Hölderlin e dal suo Iperione. C’è lo stesso bivio tra idealizzazione del passato e disillusione per il presente, l’incanto dell’antico e dell’arcano, a fronte di un’attualità desolante.
The Hyperion Machine, ultimo lavoro del lussemburghese Rome, al secolo Jerome Reuter, oscilla tra ombre e punti di luce, tra mistero e realtà, tra il sogno di ciò che si è perso e il desiderio di cambiare l’oggi. Dark wave, elettronica, rock, persino folk, tutto è amalgamato qui dentro, in queste tracce che stillano inquietudine e malinconia, oscurità e sogno: un denso magma di sensazioni tese e viscerali che brilla con la luce del più rovente dei tramonti, e cola come il miele più dorato. Un viaggio che passa dalla Grecia classica e incontaminata dell’ispirazione letteraria per arrivare al caos delle macchine e della modernità portato dalla musica, guidato dalle dita e dalla voce imperiosa, liturgica e gotica di Rome, gran maestro della contaminazione sonora. Un viaggio oscuro e affascinante, a tratti claustrofobico e tempestoso, fatto di synth gravi, echi, cori sommessi.
Affascinante il sapore arcaico di Celine In Jerusalem, il brano che segue immediatamente la breve intro, così come il folk di The Alabanda Breviary, mentre con Adamas e poi con Die Mörder Mühsams si scende nelle profondità più fredde di un mondo lontano, che fa davvero paura.
Una marcia meravigliosa e solenne in mezzo ai fantasmi.