BITS-RECE: Bonnie Li, Plane Crash. Elettronica per nottambuli

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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L’ahabit naturale di Bonnie Li è quello oscuro e freddo di un’elettronica dai contorni ipnotici e distorti.
Le cinque tracce – quattro inediti e un remix – di Plane Crash, ultimo lavoro del duo, mostrano infatti un’anima piuttosto dark, tra pianoforti stregati, sintetizzatori spettrali e linee vocali lamentose, in un genere che fluttua tra un trip hop gotico e un synthpop dal passo lento e sofferente.
Il remix di Escape, firmato dal francese Al’Tarba, aggiunge un senso di claustrofobia e stordimento a un brano già di per sé poco rassicurante, mentre il momento topico del disco arriva con i due pezzi di chiusura, il singolo dal titolo eloquente We Should Go To Sleep As The Birds Are Singing e I Want To Run With The Wolves, litanie ossessive e disturbanti dai battiti sintetici. 

BITS-RECE: Kelela, Take Me Apart. Seduzioni di r'n'b

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Forse il suo nome non vi dice ancora niente, ma questa ragazza va tenta d’occhio, perché si candida a diventare una delle più promettenti stelle nel futuro dell’r’n’b.
Stiamo parlando di Kelela, americana con sangue etiope nelle vene e idee molto chiare in testa.
Attiva sulle scena già da qualche anno, dopo alcuni EP che hanno attirato l’attenzione del pubblico e dopo essere stata coinvolta in progetti importanti come quello di Solange, lo scorso ottobre ha pubblicato il suo album di debutto, Take Me Apart, una combinazione perfetta di alternative r’n’b ed elettronica.
Per capirci, Kelela è figlia di quell’r’n’b che anni fa ha reso grande una come Janet Jackson, solo che appartiene almeno a una generazione successiva, e il suo suono compie un balzo in avanti con produzioni più azzardate in favore di una fusione di stili ammaliante e un po’ più lontana dal panorama mainstream (su tutti, Arca, genio contemporaneo dell’elettronica).
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Quella di Kelela è una seduzione sonora fatta di bassi felpati, spirali di sintetizzatori e linee melodiche flessuose e una voce ipnotica come poche altre.
Nei testi la ragazza ci va giù abbastanza dura, nel segno di un femminismo sfrontato in cui ben poco testa del romanticismo e si afferma la figura di una donna non solo indipendente, non solo delusa dalle promesse dell’amore, ma anche fieramente spudorata, lei pantera dalla pelle d’ebano che si muove nell’industria discografica.

Se con Lemonade Beyoncé ha gridato al mondo il suo manifesto femminista con toni qualche volta bellicosi, con Take Me Apart Kelela lo sussurra, ci incanta e ci fa cadere nella sua tela fatale.

BITS-RECE: Enrico Ruggeri, As If. Umano inumano

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Sei tracce, tutte senza titolo, indicate solo dal numero progressivo di una tacchetta. Così si presenta il contenuto di As If, ultimo lavoro di Enrico Ruggeri, musicista sperimentale bergamasco che – vale la pena sottolinearlo – nulla ha a che fare con il più celebre cantautore milanese.
Attivo già da diversi anni, Ruggeri è sempre andato alla ricerca di sperimentazioni sonore nel vasto e fluido territorio dell’ambient per trarne creazioni in grado di suggestionare l’ascoltatore. E dell’ambient ha in genere scelto le declinazioni più oscure, dark, disturbanti, talvolta noise.
As If si pone proprio su questa linea e rappresenta la sintesi di un progetto, mai portato a termine, intitolato “30 dischi in 30 giorni”, che prevedeva la pubblicazione di 30 diversi album in altrettante giornate: un’operazione provocatoria e quasi parodistica della smania di pubblicazione della discografia odierna, soprattutto mainstream.
A fare da apripista al disco è una traccia in cui una voce – elemento inedito per i lavori di Ruggeri, di solito estranei alla dimensione umana – recita una poesia anonima yugoslava tradotta in inglese che inizia proprio con le parole “As If”, da cui il titolo del lavoro.
Seguono quindi altre cinque tracce fatte di synth analogici e manipolazioni digitali, tempi dilatati, talvolta dilatatissimi, orizzonti inquieti e inquietanti, onde sonore distorte.
Suoni che confluiscono in rumori e rumori tramutati in suoni, echi lontani, evanescenze, increspature. 
Un disco che arriva anche a suggello di tutto quanto è stato fatto negli anni precedenti, e in cui l’artista ha voluto inserire a modo suo la speranza.
Parte integrante del lavoro è l’immagine di copertina, realizzata da Giordana Parizzi, con un corpo e un viso deformati dall’esposizione allo scanner. L’esatta convergenza di umano e inumano, natura e manipolazione.
http://mhfs.bandcamp.com/album/as-if-2

BITS-RECE: Sarc:o, Finding Knowing Delight. Elettronica cosmica

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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The Finding, The Knowing, The Delight.
Da questi tre EP pubblicati durante l’autunno 2017 ha preso vita Finding Knowing Delight, primo lavoro di Francesco Sarcone, musicista, produttore, sound designer, in arte Sarc:o.
Sei brani di elettronica “spaziale”, concepiti per rappresentare il lento ma incessante movimento delle galassie nello spazio.
L’elettronica di Sarc:o procede sospinta da bassi pulsanti e frementi, arricchita da melodie ora leggere, ora epiche, ora marziane, ora inquiete, in un susseguirsi di orizzonti cosmici pacifici, ipnotici e tormentati, incollati a uno scenario notturno.
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Nicola Pressi presta la voce in quattro tracce, mentre Veyl, nuova promessa dell’elettronica italiana, veste di atmosfere sinistre Down.

BITS-RECE: Opus 3000, Benevolence. Una fusione di suoni

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Che un libro non vada mai giudicato dalla sua copertina ce lo hanno sempre insegnato, ma a volte una copertina sa dare un’idea piuttosto precisa del suo contenuto.
Come in questo caso. Non stiamo parlando di un libro, ma di un disco, ma il concetto è quello. In particolare, stiamo parlando di Benevolence, primo lavoro del progetto Opus 3000.
Sulla copertina compare un’illustrazione astratta, qualcosa di simile a una distesa marina, deformata come uno stendardo steso al vento.
Ecco, la musica degli Opus 3000 è esattamente questo: astratta e fluida, profondamente fluida. Così fluida che permette a due generi di solito remoti come la classica e l’elettronica, di incontrarsi e fondersi in un’unica anima.
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Dietro al progetto Opus 3000 si nascondono le menti – e soprattutto l’arte – della pianista Gloria Campaner, del produttore e percussionista Francesco Leali e del violoncellista e bassista Alessandro Branca.
Quello che hanno fatto confluire nel loro primo lavoro è qualcosa di contaminato e puro nello stesso tempo: contaminato perché non si riconosce in nessun genere preciso che non sia il crossover, puro perché sembra essere stato generato con il solo scopo di far scaturire emozioni, che sono quanto di più puro si possa conoscere.
Benevolence è un album diafano e nebbioso, a tratti ruvido, che fa della fluidità la sua forza: i suoni degli strumenti classici sembrano sciogliersi in un mare indistinto di sintetizzatori e distorsioni, lasciando venire a galla di tanto in tanto rilievi di violoncello o di pianoforte, come lievi punte di scogli in una distesa infinita e senza tempo.
Dedicato a chi ama perdersi.

Murmure, il nuovo album di Carlot-ta tra organo, percussioni ed elettronica

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Murmure è il suono che l’aria produce quando entra nei polmoni.
In questo disco è il respiro delle canne d’organo, strumento che Carlot-ta ha scelto per comporre questi undici brani, abbandonando per la prima volta il pianoforte.
Registri a volte imponenti, altre intimi e malinconici si alternano tra composizioni solenni e impetuose, ballate romantiche, valse musette, danze macabre, motivetti synth-pop. Percussioni e tessiture elettroniche dettano il tempo.

Il risultato è un canzoniere cupo e barocco, in cui la musica risente delle influenze nord-europee, del cabaret weimariano, del chamber folk, della canzone francese.
Un disco fuori dal tempo che coniuga sonorità arcaiche a una scrittura contemporanea e marcatamente pop.
L’album è in uscita a marzo 2018.
Registrato tra Italia, Svezia e Danimarca, è prodotto da Paul Evans, parte del team del Greenhouse Studio di Reykjavik che annovera tra le sue produzioni lavori di Bjork, Sigur Ros, Damon Albarn, Cocorosie e molti altri.
Per le registrazioni sono stati utilizzati un organo mesotonico di epoca barocca e un organo romantico, entrambi italiani.
Il disco è realizzato grazie al contributo di SIAE, del Micbat e di S’Illumina.

Snailspace, l’elogio della lentezza di Simone Graziano

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La lentezza come forma di ribellione.

E’ questa l’idea che anima Snailspace, il nuovo album del pianista Simone Graziano, in uscita il 22 settembre.
La sua quarta fatica discografica deve il titolo a un racconto di Luis Sepúlveda, Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza, in cui una lumaca di nome Ribelle, dopo essere stata cacciata dal suo gruppo, viaggia alla ricerca del significato della lentezza. In questo modo scopre che grazie al suo muoversi a un tempo diverso da tutti gli altri animali, riesce a vedere un mondo nascosto, più ricco e denso, solitario e silenzioso.
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“La lentezza – afferma Simone Graziano – non è riferita alla velocità dei brani, bensì al tempo necessario per crearli. La lumaca aderisce alla terra e, grazie alla lentezza dei suoi movimenti, ne scopre ogni dettaglio. Allo stesso modo, la lentezza creativa fa sì che la musica aderisca a noi stessi, svelandoci una parte che prima non conoscevamo”.
Le tracce di Snailspace godono di una struttura compositiva in continua evoluzione, e molteplici sono i rimandi alla letteratura: da Sepúlveda, all’universo immaginifico di Jorge Louis Borges, passando per Oliver Sacks.
Un racconto musicale racchiuso in uno spazio limitato o nell’attività onirica di una notte. Si parte dall’incipit evocativo di Tblisi, scritto nel conservatorio della capitale georgiana in una gelida notte di dicembre, su un pianoforte che aveva due note rotte (fa diesis e si) ripetute in modo insistente, per passare alla melodia elegiaca di Accident A e all’andamento ipnotico e a tratti isterico della successiva Accident R. Aleph 3, vero e proprio innesto di musica elettronica e jazz, sfocia in una lentissima ballad il cui elemento arcano e misterioso viene ripreso nella traccia successiva Vignastein, dedicata all’eccentrica e poliedrica figura del critico musicale Giuseppe Vigna. Il congedo si ha con Slowbye, concepito in un’afosa sera d’agosto, come un brano essenziale ed elettronico in cui Ribelle non trova sicuramente una sosta ma una nuova consapevolezza.

 

BITS-RECE: Arcade Fire, Everything Now. Come se gli ABBA facessero indie

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Se un compito di un artista è quello di sorprendere e cogliere in contropiede, gli Arcade Fire hanno fatto un ottimo lavoro. Parlando dell’ultimo album della band canadese, Everything Now, non c’è infatti recensione che non si soffermi – in maniera più o meno scomposta – sulla virata sonora dei nuovi brani.
Da eroi dell’indie-rock a nuove stelle del dancefloor, questo è il riassunto generale del giudizio della “critica”, dopodiché i pareri si dividono tra quanti inorridiscono come alla vista dell’Anticristo e quanti affermano che non è poi così malaccio. Nessuno o quasi però sembra fare salti di gioia, segno che forse la sterzata è stata un po’ troppo brusca e ardita oltre misura.
In effetti, ciò che colpisce di Everything Now sono le bordate elettroniche che riversa addosso, i tappeti di sintetizzatori, tutta quella valangata di memorie di anni ’70 e ’80 che saltano fuori da ogni accordo senza possibilità di controllo.
Un situazione che si spiega bene se si leggono i crediti del disco, dove alla voce produzione compare anche il nome di Thomas Bagaalter, cioè una delle due metà dei Daft Punk.
Ci sono echi fin troppi spudorati degli ABBA (il paragone lo hanno fatto tutti, ed è in effetti impossibile da ignorare), omaggi alla disco music, melodie ipnotiche di synthpop che sembrano prese in prestito direttamente dall’epoca di Moroder.
Si balla, si canta, e si trova anche il tempo di scherzare un po’ su questa bislacca società tutta concentrata sui social e sull’autopromozione.
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Se poi sia stata una scelta davvero così disgraziata non saprei dire: a me basta ascoltare la titletrack (prima e seconda parte) o Put Your Money On Me (il vero pezzone da salvare in playlist) per sapere che questo album è molto più onesto di tanta altra roba seriosamente indie.

BITS-RECE: Andrea Belfi, Ore. Al confine tra suono e battito

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
Andrea Belfi - Ore (Cover Art)
Si intitola Ore, dove il termine non è il plurale della parola italiana che usiamo per indicare l’unità di misura del tempo, bensì si tratta del termine inglese che indica un materiale grezzo ancora da rifinire e lavorare per trarne qualcosa di pregiato. Un po’ come il celebre marmo di Michelangelo, che possedeva già in sé il capolavoro.

Ore non è un disco di canzoni nel senso più comune, è più da intendere come un percorso individuale che ogni ascoltatore vi può trovare all’interno scavando con la mente, semplicemente lasciandosi andare alle suggestioni dei suoni.
Ecco, i suoni, concetto di fondamentale accezione in un progetto come questo, che vede al centro le percussioni. Niente voci, niente linee melodiche da farsi girare in testa, ma palpiti, rulli, fruscii, tuoni di percussioni e batteria, arricchiti solo dai sintetizzatori.
Cinque tracce di musica che si potrebbe definire avanguardistica, drone, progressiva, minimal, o forse in nessuno di questi modi, perché siam sempre lì, le definizioni contano fino a un certo punto. Se poi stiamo parlando di esperimenti, non contano proprio un cazzo.
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Ore è l’ultimo – coraggioso – progetto di Andrea Belfi, percussionista italiano trapiantato da tempo Berlino, noto per le sue performance particolarmente energiche, ricche di improvvisazione e sempre alla ricerca dell’unione tra anima acustica ed elettronica. Un estro che non è sfuggito a Nils Frahm, che ha portato Belfi all’interno della sua band, i Nonkeen.
Quello che ha ricreato in Ore è uno scenario notturno, assolutamente ipnotico, a tratti forse claustrofobico, un lungo tunnel tra battito e suono dentro al quale passano le sensazioni di chi sta ascoltando. Una musica come la ambient, ma molto più caotica, o come la noise, ma molto più lineare.
Uno di quei dischi che riescono a lasciare completamente indifferenti molti e ammaliare ferocemente altri.

#MUSICANUOVA: Daiana Lou, Say Something

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Il 16 giugno al Prachtwerk di Berlino, il Music Club gestito da musicisti americani nel cuore di Neukölln, il quartiere più vivace ed internazionale di Berlino, i Daiana Lou hanno presentato il nuovo singolo Say Something.
Un brano ricco delle influenze presenti in ogni angolo della metropoli tedesca, centro della musica elettronica europea, ed è un anello di congiunzione tra la street music e l’elettronica dei club berlinesi.
Un’esortazione a trovare ciò che fa indignare e trasformarlo in una vera e propria rivoluzione costruttiva.

“Il video di Say Something – raccontano Daiana e Lou – è la metafora della nostra vita nella frenetica società odierna. Viviamo in un contesto storico digitale dove siamo tutti imprigionati dietro uno schermo che stabilisce cosa indossare, cosa pensare, cosa imitare, cosa amare e cosa odiare. Il videoclip rappresenta l’atto di ribellione a questo meccanismo, ed esorta a fare della propria vita una rivoluzione per restare principalmente esseri umani”.

Il progetto Daiana Lou nasce nel 2013 dall’unione e dall’amore tra due musicisti, Daiana e Luca, provenienti da esperienze musicali differenti: Luca cresce come chitarrista blues, mentre Daiana è una cantante di scuola R&B e reggae.
Hanno iniziato a suonare con una band completa per circa un anno e mezzo, poi hanno deciso di provare ciò che entrambi più interpretavano come arte: l’attività di artisti di strada. Hanno iniziato a Roma, per poi decidere di testare la piazza tedesca durante una vacanza a Berlino, che in breve tempo è diventata la base della loro attività da buskers.
Lo scorso settembre Alvaro Soler li ha selezionati come una delle tre band della decima edizione di X-Factor.
Hanno deciso di autoeliminarsi durante la quarta puntata esprimendo la loro difficoltà nell’adeguarsi alle dinamiche televisive.