“Il depresso” e l’ironia di Alda Merini. Quattro chiacchiere con Giovanni Nuti, Andrea Mirò e Dario Gay

“Il depresso è come un vigile urbano / Sempre fermo sulla sua catastrofe”.

Così recitano due versi centrali de Il depresso, una poesia in cui Alda Merini tratteggia con disarmante sincerità e trasparenza, e con altrettanta ironia, il ritratto del depresso per professione, cioè colui che, lontano dal voler uscire dalla propria condizione di sofferenza, vi resta immerso trascinando con sé anche chi gli è accanto.
Versi che, per ironia del destino, sembrano suonare oggi più chiari che mai a tutti noi, costretti a una reclusione forzata per la diffusione del Coronavirus, con il rischio di cadere in un pessimismo senza uscita.

Come molte altre liriche di Alda Merini, anche Il depresso è stato messo in musica da Giovanni Nuti, che ne ha proposto una vivace rilettura sonora in collaborazione con Andrea MiròDario Gay, contenuta nel cofanetto Accarezzami musica il “Canzoniere” di Alda Merini, pubblicato nel 2017. Il brano è stato presentato dal vivo nella serata del 20 ottobre 2017 al Teatro Dal Verme di Milano, e dell’esibizione è ora disponibile il video ufficiale.

 

Abbiamo raccolto le riflessioni dei tre artisti, cogliendo l’occasione anche per alcune personali riflessioni sul momento che stiamo vivendo.


Quattro chiacchiere con… Giovanni Nuti

 

Uno degli elementi che colpiscono del brano è l’atmosfera ironica, quasi giocosa arriva subito all’ascoltatore.
Fa parte del lavoro che ho sempre fatto con le poesie di Alda Merini. Alda aveva un forte senso dell’ironia, e in questo caso ho pensato che l’atmosfera più adatta fosse quella di un canto popolare, una musica che rimandasse all’atmosfera delle feste di paese.

Un tono che è all’opposto di una tematica tanto seria e impegnativa come quella della depressione, che Alda riesce a descrivere con una trasparenza e una sincerità quasi disarmanti.
Alda Merini aveva un grandissimo rispetto della depressione, quella vera, che aveva conosciuto anche personalmente. Non aveva invece certo una buona impressione dei “depressi di professione”. Il depresso di cui parla è una vittima che diventa carnefice, manipola gli altri, è una larva che succhia le energie delle persone che ha attorno, soprattutto è un individuo che “resta fermo sulla sua catastrofe”, come recita un verso della poesia. Se si resta fermi sulle proprie catastrofi non se ne esce, ma anzi le catastrofi si rafforzano. Il tono scherzoso di Alda serve proprio a togliere tragicità alla situazione: più ci si sofferma sulla drammaticità del momento più la tragedia persiste e non ce ne si allontana.

Sembrerebbe quasi un monito per il difficile periodo che stiamo tutti vivendo.
Non a caso ho scelto di far uscire proprio ora il video dell’esibizione. Un libro, una poesia, una canzone sono fondamentali, danno la possibilità di soffermarsi e riflettere, e sono l’occasione di guardare oltre alla difficoltà del periodo. Questo momento è l’occasione per un cambiamento interiore di tutti, abbiamo la possibilità di capire che siamo oltre la nostra natura materiale: siamo luce, siamo energia, siamo il nostro pensiero. Siamo obbligati ad avere un rapporto con noi stessi, e dobbiamo scendere in profondità in noi per non restare fermi sulle disgrazie quotidiane che i mezzi di informazioni ci presentano tutti i giorni. In un momento come questo non dobbiamo vergognarci di provare gioia: è proprio grazie alla gioia che le nostre vibrazioni si elevano e noi possiamo diventare energia per aiutare gli altri. Abbiamo tutti paura, siamo coperti da una cappa di negatività, e c’è bisogno del contrario, di emozioni che ci portano oltre. L’arte e la bellezza sono cibo spirituale. Dobbiamo diventare consapevoli della nostra spiritualità e della nostra umanità: tutto è spirito, tutto è energia, tutto è dotato di vibrazioni, lo aveva scoperto anche Einstein.

Dalle tue parole traspare una grande fiducia su quello che potrà accadere quando l’emergenza sarà finita.
Per forza, gli artisti sono i nipoti di Dio, come potrei non avere fiducia in quello che succederà?

Cosa pensi che ci possa insegnare questa esperienza?
Apprezzare le cose che contano, e lasciar andare tutto ciò che è momentaneo. Ci sarà un risveglio spirituale, che ovviamente non sarà per tutti, ma per chi lo vorrà accogliere. Stiamo imparando a riscoprirci, stiamo conoscendo il nostro prossimo, a partire dal nostro vicino; stiamo riscoprendo la gentilezza, la bellezza, la non improvvisazione. Eravamo abituati a correre per stare dietro al successo, al nostro ego, perdendo però l’essenziale. Avevamo gli sguardi costantemente rivolti agli schermi dei cellulari, invece abbiamo dovuto iniziare ad alzarli per guardarci in faccia. È un risveglio collettivo che penso possa fare bene anche ai preti, che dovranno tornare a essere amorevoli con tutti e dovranno riscoprire il significato dell’accoglienza. Il nostro fratello è un riflesso di noi stessi.

Pensi che la Chiesa sia riuscita a far sentire la propria presenza?
Papa Francesco è straordinario, è arrivato a dire che i medici e gli operatori sanitari sono i santi della porta accanto. Purtroppo, il papa non è la chiesa, e l’ambizione a volte prende il sopravvento anche tra gli operatori ecclesiastici.

L’arte la cultura come potranno riprendersi da questo momento?
È difficile poterlo dire, perché l’arte e la cultura presuppongono l’aggregazione. Un concerto, una mostra, una manifestazione presuppongono che le persone si raccolgano in un unico luogo, e sarà difficile riportare le persone in un luogo chiuso fino a quando a non si sarà trovato un vaccino e fino a quando non si sarà sicuri che il virus sarà debellato. Forse spetterà agli artisti trovare un modo per non fermarsi e portare la propria arte alla gente. Il nostro futuro è fatto di emozioni, perché sono le emozioni a creare le realtà. Ecco perché è fondamentale creare emozioni di pace, di calma, di tranquillità. Dobbiamo imparare a fare come lo sciamano, che combatte le sciagure e le difficoltà con una danza. Dopo tutto, anche Il depresso finisce con un risata.

 

Quattro chiacchiere con… Andrea Mirò

 

Come hai accolto l’occasione della collaborazione per Il depresso?
Non era la prima volta che lavoravo con Giovanni Nuti ed è stato come ritrovarmi un gruppo di amici. Giovanni è molto bravo a intercettare la musicalità della Merini dandole una bellissima veste sonora, in cui non è stato difficile infilarsi quando abbiamo realizzato Il depresso. La serata al teatro Dal Verme è stata bellissima, Monica Guerritore è anche salita sul palco con noi sul finale del brano presa dall’entusiasmo. Alda Merini poi è stata una donna e una poetessa di uno spessore esagerato: ti affetta il cuore con una sincerità priva di abiti. Ha vissuto in tempi ben più difficili di quelli di oggi, soprattutto per chi era donna e scriveva poesie. Mi piace moltissimo anche la sua vena ironica, sa essere spiazzante e sa usare la leggerezza. Purtroppo, forse ancora oggi non è letta, conosciuta, celebrata e glorificata come si dovrebbe.

Hai parlato di leggerezza: secondo te si acquisisce e si affina o è una dote naturale?
Fa sicuramente parte del nostro carattere e del nostro background: chi è sempre stato affossato dagli eventi e ha sempre vissuto nel fango farà fatica ad alzare la testa per guardare le stelle, ma vale la pena provarci e lavorarci. Vale anche per l’essenzialità, una dote pura, un lavoro di cesello, come quello compiuto da Michelangelo su un pezzo di marmo. Togliere, per arrivare al nocciolo: un lavoro pesantissimo, che solo i grandi artisti riescono a raggiungere.

Un lavoro difficile anche perché è fondamentale sapere fin da subito a cosa si vuole arrivare.
Esattamente. Per questo dico che l’essenzialità, così come la leggerezza, è qualcosa che fa parte di noi, ma che in parte va anche acquisito. È un lavoro di crescita.

Parlando invece di sincerità, un artista ha sempre il dovere di essere sincero?
Dipende da quello che si intende. Sicuramente un artista deve prendersi la responsabilità di tutto quello che sceglie di dire e di fare. Mi riferisco alla messa in scena di una storia, cioè al modo in cui un racconto viene riproposto al pubblico attraverso la musica, il teatro o la scrittura. Il pubblico ne coglierà poi una lettura personale. In questo senso, la sincerità rappresenta il pensiero dell’artista ed è suo dovere metterla nel proprio lavoro, sia quando racconta di sé, sia quando sceglie di toccare tematiche più universali o più distanti, che magari non ha vissuto in prima persona ma che è in grado di trattare grazie alla sensibilità e alla cultura che ha acquisito. Oggi siamo circondati da artisti che raccontano storie da cameretta, che mi annoiano. Il grande artista è chi sa partire da una storia semplice per farne qualcosa di più grande, di universale. Penso a Guccini, Vecchioni, Fossati, Ruggeri, ma anche Brassens, Brel, Dylan. Incontro di Guccini non è solo il racconto di un’esperienza personale, ma parla dell’animo umano, di come si cresce e ci si evolve.

Oggi gli artisti sono ancora disposti a mettersi in gioco e a rischiare come facevano in passato?
Probabilmente no, ma la colpa non la additerei solo a loro. È colpa di una grande trasformazione. Fare l’artista e il cantautore è un altro mestiere rispetto al passato. Si guarda soprattutto ai numeri, che c’erano anche prima, ma andavano a braccetto con tutto il resto. Si poteva rischiare e proporre qualcosa di provocatorio continuando a rivolgersi alle grandi platee. E poi un tempo non c’erano i social, c’era fame di contenuto, di musica, di live. C’era il senso dell’attesa, la fruizione di un’opera durava anni, poteva capitare di scoprire l’esistenza di un disco dopo un anno dall’uscita, era normale, non cambiava nulla. Sarà banale dirlo, ma oggi la musica viene venduta come un prodotto da banco.

Da musicista, come vivi questa situazione?
Sento di appartenere all’underground, che non si può più chiamare indie, visto che nemmeno l’indie oggi è davvero indie. Andare controcorrente si può, la platea è molto più ristretta, ma anche molto più esigente. In generale, il livello medio si è purtroppo abbassato, anche perché perdiamo troppo facilmente la memoria e ci dimentichiamo del passato. A 6 anni mio figlio ascoltava i Joy Division, Buscaglione e i Beach Boys, oggi, che ne ha 15, sente il bisogno di appartenere a un gruppo e subisce i bombardamenti che arrivano dall’esterno. Ma in un momento di crescita ci sta. Personalmente non cambierei la mia adolescenza con quella dei ragazzi di oggi, mi sembra che manchi la capacità di cernita. Crediamo di essere tanto liberi, ma siamo più schiavi che mai.

Questo periodo di reclusione può insegnarci qualcosa di buono in questo senso?
Spero che sia per tutti l’occasione di far pensare. Quando si è abituati a correre, è difficile doversi specchiare tutti i giorni. Abbiamo un tempo scandito dal giorno e dalla notte, ma le nostre giornate sono in stand by. Molte persone entreranno in crisi, stiamo vivendo una vera rivoluzione, anche se non è portata avanti con i forconi. Ogni giorno leggo di persone quasi entusiaste di essere recluse per avere finalmente il tempo di fare cose che di solito non riescono a fare, io mi sento invece molto frustrata. Non posso fare quello che vorrei, devo occuparmi delle ingerenze familiari, mi vengono mille idee per nuovi progetti da realizzare, e devo appuntarmele anche di notte. Poi ci sono da organizzare i tempi della spesa, gestire i figli che hanno le videolezioni. Per certi aspetti, è tutto piuttosto fantozziano.

Su quali progetti stavi lavorando prima che tutto si fermasse?
Stavo lavorando ad alcune serate che si sarebbero dovute svolgere a Roma e a Milano per un progetto dedicato a John Lennon e Yoko Ono, intitolato La ballata di John e Yoko, con Ezio Guaitamacchi e Omar Pedrini. Era in programma anche l’inizio del lavoro su Far finta di essere sani, una riproposizione di uno spettacolo di Gaber per il teatro Menotti: saremmo dovuti andare in scena a giugno, invece è tutto cancellato. Lo scenario che si prospetta è terrificante, sembra che se ne riparlerà per il 2021. So che Tiziano Ferro è stato massacrato per quello che ha detto alcune settimane fa da Fabio Fazio quando ha chiesto al Governo di avere risposte anche per il settore della musica, ma non è altro che la verità. Per ogni evento ci sono decine, per non dire centinaia, di persone, che lavorano e che vedono il proprio destino ancora incerto. Ma anche gli artisti stessi hanno famiglia e hanno il diritto di sapere cosa succederà. Invece tutto rimanda alla solita mentalità italiana per cui se alla domanda “che lavoro fai?” rispondi l’artista o il musicista, la replica sarà “sì, ok, ma di lavoro cosa fai?”.

Concludo con una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di “ribellione”?
La ribellione è l’affermazione di sé, oggi fortissimamente. Essere ciò che siamo fino in fondo, perseguire i propri obiettivi fino in fondo, quali che siano. Coltivare la propria libertà di scegliere e di essere, tenendo quindi conto anche della libertà altrui. Una volta che hai capito questo, il rispetto per gli altri viene naturale.

 

Quattro chiacchiere con… Dario Gay

 

Come hai accolto l’occasione della collaborazione per Il depresso?
Con grande entusiasmo. Il rapporto di conoscenza e di collaborazione con Giovanni Nuti nasce molto tempo fa, avevamo già lavorato insieme. Nel mio album Ognuno ha tanta storia ci sono tre canzoni che abbiamo scritto insieme e nel corso del tempo ci siamo spesso contaminati a vicenda. Abbiamo scritto insieme anche un brano che vorrei pubblicare non appena questa emergenza sarà rientrata, si intitola L’inno della pettegola. Siamo un po’ folli entrambi. Ecco perché quando Giovanni mi ha proposto la collaborazione non ho neanche voluto scegliere il brano, mi sono fidato ciecamente di lui.

Che rapporto hai con la poesia di Alda Merini?
Un rapporto molto forte. In passato ho lavorato anche con Milva, seguendo da vicino la realizzazione dell’album Milva canta Merini, e ho potuto leggere delle poesie di Alda rimaste ancora oggi inedite. Posso dire che la poesia della Merini la sento molto dentro di me.

In Il depresso c’è anche una lettura molto trasparente e tremendamente sincera di un certo tipo di depressione.
E poi c’è l’ironia. Alda aveva la capacità di affrontare temi di grande gravità con estrema ironia, al limite del comico. Anche questo mi avvicina molto a lei e a Giovanni. Basti pensare che al funerale di mio padre mi sono trovato di fronte a una situazione talmente paradossale che mi ha fatto ridere, nonostante l’estremo dolore di quel momento. Credo che faccia parte del mio essere per natura dissacrante (ride, ndr), anche se capisco che gli altri potrebbero non capire e fraintendere.

Pensi che l’ironia come forma di comunicazione riesca ad arrivare al pubblico?
Sì, se è fatta con intelligenza, La poesia di Alda Merini è fruibile da tutti: è semplice e diretta, e anche il gioco che lei fa sulle tragedie può essere accettato anche dagli altri. Cosa ben diversa è invece la stupidità, oggi purtroppo molto diffusa.

Riesci a trovare un modo per guardare oltre a questo momento difficile?
Ho la fortuna di fare musica e pur non avendo uno studio di registrazione in casa sto continuando a scrivere, e mi escono canzoni solari, di speranza. La musica mi ha aiutato in molte situazioni difficili in passato, per esempio quando ho perso persone care. Ho anche partecipato ad alcune iniziative in video, insieme ad altri artisti sto preparando il video di un mio vecchio pezzo, Domani è primavera, in cui è coinvolto anche Giovanni Nuti. Ognuno dovrebbe spendere il proprio tempo in cose che ama fare. Ma questa esperienza può essere anche l’occasione per passare più tempo con i familiari, riscoprire il vicino di casa. Ho la fortuna di avere un bel rapporto con i vicini, mi mandano i piatti che preparano e io passo a loro le ricette in cui mi diletto. Sto anche riscoprendo rapporti umani inaspettati: per esempio, ho un amico in Marocco che da quando ha saputo della situazione che stiamo vivendo in Italia non lascia passare un giorno senza telefonarmi per sapere come sto. Oppure con mia grande sorpresa ho visto comparire una mia foto in un video realizzato da due cari amici, i Cómplices, un duo molto popolare in Spagna. Hanno voluto raccogliere le immagini dei loro affetti più cari e hanno incluso anche me. C’è del bel bello anche in questo periodo ed è l’occasione di riflettere e fare buoni propositi per il futuro.

Se ti guardi indietro, pensi che sia cambiato il tuo modo di scrivere?
Sono un po’ discontinuo purtroppo, ma non credo che lo stile sia cambiato, Ho un approccio diverso, oggi osservo le cose con occhi diversi e colgo umori che un tempo non riuscivo a cogliere. Non ho mai avuto una scrittura immediata, ma sicuramente oggi è più matura. Non scriverò mai di politica, non lo so fare, mentre continuerò a parlare dell’animo umano, di amore, ma anche rabbia, denuncia, sempre accarezzando i sentimenti senza mai esplicitarli troppo. In passato mi sono esposto prima di tutti gli altri sul tema dell’omosessualità. Ho fatto coming out nel 2001, quando ho scritto la sigla dei Gay Pride, Domani è primavera, poi nel 2005 ho scritto Ti sposerò, un brano dedicato a un altro uomo, ed erano i tempi dei Pacs, non si parlava ancora di unioni civili. Per protesta abbiamo anche organizzato un finto Pacs a Roma, al quale ho partecipato come testimonial. Il brano era stato inizialmente proposto a Rai Trade, ma non è stato pubblicato perché era considerato politico, non sociale, ed è stato pubblicato in seguito dalla Edel. Già nel 1991, a Sanremo, avevo suscitato scandalo con Sorelle d’Italia parlando di transessuali e per poco non sono stato denunciato. Oggi fortunatamente si sono fatti passi da gigante e su certe tematiche è caduto il tabù.

Pensi che gli artisti siano sempre disposti a rischiare?
Ci sono occasioni in cui gli artisti si mettono al servizio di cause sociali, come è successo per il concerto-evento previsto a settembre a Reggio Emilia contro la violenza sulle donne, che vede coinvolte sette artiste italiane. Speriamo che in qualche modo l’evento possa avere luogo. Per il resto, mi sembra che oggi ci sia molta voglia di trasgredire, con il risultato però di omologare tutto. Ognuno vuole emergere, e alla fine non emerge nessuno: penso alle polemiche che hanno coinvolto Junior Cally prima di Sanremo, o ai video di Bello Figo. La vera trasgressione era quella di Renato Zero, Ivan Cattaneo o Loredana Bertè, oggi è solo un espediente per far parlare di sé, tutto ha una durata effimera.

Chi ti piace oggi?
Diodato. Mi ha fatto molto piacere la sua vittoria a Sanremo, anche se ho preferito cose che ha fatto in precedenza, come il pezzo per la colonna sonora di La dea Fortuna, Che vita meravigliosa. Mi piacciono anche Calcutta e Tommaso Paradiso, e mi diverte tantissimo MYSS KETA.

A suo modo dissacrante anche lei.
Decisamente. I suoi testi sono scritti benissimo e credo che ci sia un grande pensiero dietro al suo personaggio. Mi piacciono anche le performance di Achille Lauro, anche se musicalmente lo trovo meno interessante. Al di là di tutto, resto un “ruggeriano” convinto. Sono cresciuto con Enrico Ruggeri, ho lavorato e continuo a collaborare molto con lui e ho imparato tanto stando in tour con lui. Tra gli stranieri amo Lady Gaga. È una delle più grandi artiste della sua generazione, una grande musicista, cantante e attrice. Ho capito veramente chi fosse quando ho visto il primo video che ha fatto con Tony Bennett, e l’ho seguita in American Horror Story.

Concludo con una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di “ribellione”?
Sono sempre stato un ribelle, non ho mai subito le regole: le ho accettate solo quando le condividevo. Ribellione è non omologarsi al pensiero comune: anche se sei l’unico a pensarla diversamente dalla massa devi alzarti in piedi e far sentire la tua voce. Negli anni ’90 sono andato a convivere con un ragazzo, una scelta non così facile all’epoca, ma io volevo vivere la vita come l’avevo scelta. La mia è stata una ribellione anche verso la società, perché non ho mai fatto finta di essere il cugino del mio convivente, e devo dire che ho trovato intorno a me persone migliori di quello che potevo immaginare. Ma dipende anche da noi, dobbiamo porci per quello che siamo davvero, senza vergogna.

 

Accarezzami musica – il “Canzoniere” di Alda Merini (Nar International/Sagapò) è un cofanetto con tutta la produzione in musica della poetessa milanese, frutto della esclusiva collaborazione, durata 16 anni, con il musicista e interprete Giovanni Nuti.
L’opera è disponibile in edizione speciale con 6 CD, 1 DVD, 114 canzoni di cui 13 inedite, 21 brani con la voce recitante di Alda Merini, duetti di Giovanni Nuti con 29 artisti ospiti.
Nel cofanetto anche un volume di 96 pagine con tutti i testi, 4 poesie inedite e 2 disegni autografi di Alda Merini, foto della poetessa dell’archivio fotografico di Giuliano Grittini e scritti di Vincenzo Mollica, Massimo Cotto, Sua Eminenza il Card. Gianfranco Ravasi, Lucia Bosè, Roberto Cardia, Giovanni Nuti.
Il progetto è stato realizzato con il sostegno della Fondazione Gianmaria Buccellati.

Il cofanetto è in vendita nelle librerie.

BITS-RECE: Enrico Ruggeri, As If. Umano inumano

BITS-RECE: radiografia emozionale di un disco in una manciata di bit.
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Sei tracce, tutte senza titolo, indicate solo dal numero progressivo di una tacchetta. Così si presenta il contenuto di As If, ultimo lavoro di Enrico Ruggeri, musicista sperimentale bergamasco che – vale la pena sottolinearlo – nulla ha a che fare con il più celebre cantautore milanese.
Attivo già da diversi anni, Ruggeri è sempre andato alla ricerca di sperimentazioni sonore nel vasto e fluido territorio dell’ambient per trarne creazioni in grado di suggestionare l’ascoltatore. E dell’ambient ha in genere scelto le declinazioni più oscure, dark, disturbanti, talvolta noise.
As If si pone proprio su questa linea e rappresenta la sintesi di un progetto, mai portato a termine, intitolato “30 dischi in 30 giorni”, che prevedeva la pubblicazione di 30 diversi album in altrettante giornate: un’operazione provocatoria e quasi parodistica della smania di pubblicazione della discografia odierna, soprattutto mainstream.
A fare da apripista al disco è una traccia in cui una voce – elemento inedito per i lavori di Ruggeri, di solito estranei alla dimensione umana – recita una poesia anonima yugoslava tradotta in inglese che inizia proprio con le parole “As If”, da cui il titolo del lavoro.
Seguono quindi altre cinque tracce fatte di synth analogici e manipolazioni digitali, tempi dilatati, talvolta dilatatissimi, orizzonti inquieti e inquietanti, onde sonore distorte.
Suoni che confluiscono in rumori e rumori tramutati in suoni, echi lontani, evanescenze, increspature. 
Un disco che arriva anche a suggello di tutto quanto è stato fatto negli anni precedenti, e in cui l’artista ha voluto inserire a modo suo la speranza.
Parte integrante del lavoro è l’immagine di copertina, realizzata da Giordana Parizzi, con un corpo e un viso deformati dall’esposizione allo scanner. L’esatta convergenza di umano e inumano, natura e manipolazione.
http://mhfs.bandcamp.com/album/as-if-2

Accarezzami musica: il progetto di Giovanni Nuti con il canzoniere di Alda Merini in uscita il 20 ottobre

Si intitola Accarezzami musica, dal primo verso della poesia Ape regina, ed è il grandioso progetto discografico con cui Giovanni Nuti tende omaggio al canzoniere di Alda Merini.
Cofanetto ext cover
Nato da un’idea di Paolo Recalcati e Mario Limongelli, il progetto uscirà il prossimo 20 ottobre e sarà composto da 6 CD e un DVD, per un totale di 114 canzoni di cui 13 inedite.
Volume 1, Il muro degli angeli (2 CD): 13 brani inediti e duetti di Giovanni Nuti con 29 artisti della musica e del teatro (Renzo ARBORE, Fabio ARMILIATO, Peppe BARRA, Alessio BONI, Lucia BOSÈ, Sergio CAMMARIERE, Rossana CASALE, Fabio CONCATO, Aida COOPER, Valentina CORTESE, Simone CRISTICCHI, Daniela DESSÌ, Grazia DI MICHELE, Marco FERRADINI, Eugenio FINARDI, Dario GAY, Enzo GRAGNANIELLO, Monica GUERRITORE, Mariangela MELATO, Iskra MENARINI, MILVA, Andrea MIRÒ, Rita PAVONE, Omar PEDRINI, PICCOLI CANTORI di Milano, Daniela POGGI, Gigi PROIETTI, Enrico RUGGERI, Lina SASTRI).
Volume 2, Sono nata il 21 a primavera (CD): Milva canta Alda Merini
Volume 3, Rasoi di seta (CD): Giovanni Nuti canta Alda Merini
Volume 4, Una piccola ape furibonda (CD): Giovanni Nuti canta Alda Merini
Volume 5, Una pequeña abeja enfurecida (CD): Giovanni Nuti canta Alda Merini in lingua spagnola, traduzioni e special guest Lucia Bosè
Volume 6, Poema della croce (DVD): opera sacra con Giovanni Nuti e Alda Merini nel ruolo di Maria, registrata live il 13 ottobre 2006 nel Duomo di Milano e qui pubblicata per la prima volta in DVD.
Così Giovanni Nuti presenta il progetto: “Questo tributo ad Alda Merini è un progetto che nasce da riconoscenza e passione e dal desiderio – detto con molta umiltà e senza presunzione – di ‘far avvicinare alla poesia anche chi non compra libri di poesia e non entra nelle librerie’, perché queste parole – che disse Alda un giorno – erano il senso che lei dava alla nostra collaborazione ‘musicale’ – oltre naturalmente al piacere di creare ed esibirci insieme. Avrei voluto realizzare questo progetto quando Alda Merini era ancora in vita, ma non feci in tempo. Sono felice e onorato che molti grandi artisti della musica e del teatro abbiano accettato di affiancarmi per renderle omaggio. Li ringrazio dal profondo del cuore. A quasi 8 anni dalla sua scomparsa, l’interesse e l’amore che circondano la figura e l’opera di Alda Merini sono un’onda che non smette di propagarsi. Il titolo Il muro degli angeli è per ricordare la battaglia – vinta! – per salvare dalla distruzione la parete della casa di Alda Merini che stava dietro la testata del suo letto: un muro pieno di appunti, disegni e numeri telefonici, scritti a penna, pennarello o col rossetto cui Alda fece riferimento in una poesia che scrisse per me e che è diventata un brano del nostro ‘canzoniere’, Il bacio: “Tutti mi guardano con occhi spietati / non conoscono i nomi delle mie scritte sui muri / e non sanno che sono firme degli angeli / per celebrare le lacrime che ho versato per te”. Grazie a tutti gli artisti che hanno lasciato la loro firma angelica sul muro di Alda”.
Ad arricchire ulteriormente il cofanetto, un libretto di 96 pagine con tutti i testi, quattro poesie inedite, due disegni autografi di Alda Merini, fotografie e scritti di Vincenzo Mollica, Massimo Cotto, monsignor Ravasi, Lucia Bosè, Roberto Cardia e Giovanni Nuti.
Merini-Nuti. Ph. Giuliano Grittini
Il “Canzoniere” di Alda Merini sarà presentato in 3 serate-evento Alda Merini – Il Concerto con Giovanni Nuti e Monica Guerritore e numerosi ospiti.
Le serate hanno finalità benefica:
20 ottobre, Teatro Dal Verme – Milano (a favore dei City Angels)
Interverranno: Rita PAVONE, Fabio CONCATO, Lucia BOSÈ, Fabio ARMILIATO, Aida COOPER, Grazia DI MICHELE, Marco FERRADINI, Daniela POGGI, Omar PEDRINI, Andrea MIRÒ, Dario GAY, PICCOLI CANTORI di Milano. Con un omaggio a Daniela DESSÌ e la partecipazione straordinaria di Carla FRACCI

23 ottobre, Teatro Sistina – Roma (a favore del Consiglio Italiano per i Rifugiati)
Interverranno: Renzo ARBORE, Enzo GRAGNANIELLO, Rita PAVONE, SIMONE CRISTICCHI, Grazia DI MICHELE, Peppe BARRA, Fabio ARMILIATO, Daniela POGGI, Iskra MENARINI, Dario GAY. Con un omaggio a Daniela DESSÌ

2 novembre, Teatro Duse – Bologna (a favore del Consiglio Italiano per i Rifugiati)
Interverranno: Fabio ARMILIATO, Iskra MENARINI, Grazia DI MICHELE, Marco FERRADINI, PICCOLI CANTORI di Milano, ospite speciale Roberto VECCHIONI. Con un omaggio a Daniela DESSÌ.

BITS-CHAT: "Dove sono le grandi canzoni?" Quattro chiacchiere con… i Decibel

“Questa musica non contiene groove di batteria preconfezionati e strumenti virtuali.”
È scritto proprio così nella pagina dei crediti dell’album. Un monito come quello – oggi sempre di più frequente – delle confezioni di alimenti per avvertire della possibile presenza di glutine, olio di palma o frutta con guscio.

Per i Decibel l’equivalente dell’olio di palma è l’omologazione, l’appiattimento, il luogo comune, tutti termini attorno ai quali girerà gran parte di questa intervista, rilasciata in occasione dell’uscita di Noblesse Oblige, il loro terzo album.

Il nucleo del gruppo nacque esattamente quarant’anni fa tra i banchi del liceo Berchet di Milano e si fece portatore del punk e della new wave in Italia. Nei pochi anni di attività, anche una partecipazione a Sanremo, con Contessa, sufficiente a lasciare traccia nel grande pubblico.
Dopo un lungo periodo di attività separate, lo scorso anno Enrico Ruggeri, Silvio Capeccia e Fulvio Muzio si sono ritrovati a Londra e lì ha preso corpo l’idea di far risorgere il gruppo. Niente nostalgia però, solo musica, con lo stesso orgoglio di essere una band di nicchia.
Ecco allora il nuovo album: 11 inediti e due cover nell’edizione standard e un’edizione limitata e numerata con altri tre brani, vinili e memorabilia vari.
Perché il rock di oggi è come la musica classica, parola di Ruggeri.

Decibel_55B3584_foto di Riccardo Ambrosio
A distanza di quarant’anni, che ambiente musicale vi ritrovate intorno?

Enrico: Non vorrei dire lo stesso, ma quasi. Quarant’anni fa, quando i Decibel pubblicavano l’album Punk, gli Homo Sapiens vincevano Sanremo con Bella da morire. Due anni dopo i Decibel andavano a Sanremo con Contessa e si trovavano di fianco Toto Cutugno, Pupo e i Collage. Erano i tempi dei capelli cotonati, le camicie con lo sbuffo, le voci in  falsetto, e noi eravamo come marziani. Prendevamo ispirazione dai viaggi a Londra, ogni volta tornavamo con una giacca diversa, un paio di occhiali, i capelli ossigenati: era facile fare i diversi. A noi oggi tornare sembrava più difficile, con Internet tutto viaggia velocissimo, ma l’impressione è la stessa di allora. Se accendi la radio senti sempre lo stesso pezzo, i groove, i pad. Siamo ancora mosche bianche, e questo ci riempie di orgoglio.
Come è maturata l’idea di tornare alla musica?
Silvio: In questi anni non ci siamo mai persi di vista, anche perché l’esperienza della band non si è chiusa per nostra volontà, ma per cause tra discografici. Ultimamente abbiamo suonato spesso insieme in eventi privati e poi ci siamo trovati a Londra in occasione delle celebrazioni per i quarant’anni di Kimono My House degli Sparks  e abbiamo pensato a qualcosa di più di qualche singolo concerto.
E: Quest’anno poi io festeggio 60 anni, sono 40 anni dal primo album dei Decibel, 30 da Quello che le donne non dicono e Si può dare di più. Tante ricorrenze che valeva la pena festeggiare. Di sicuro, sapevo che volevo evitare come la peste il disco di duetti, poi ho pensato ai Decibel: Silvio e Fulvio mi hanno passato dei pezzi e abbiamo iniziato a lavorarci, ma nell’ottica di fare qualcosa per pochi intimi. Un giorno li ho fatti sentire in macchina ad Andrea Rosi, presidente della Sony, ma prima di tutto amico: al terzo pezzo ha stoppato e ha detto “Nicchia un cazzo! Se non andate avanti vi ammazzo!”. Da lì tutto ha preso contorni sempre più grandi.
S: Nessuna idea di fare un’operazione discografica comunque, altrimenti avremmo potuto ripiegare su un album di cover.
Fulvio: Alla base di tutto, c’è un’identità di gusti e di intenti che abbiamo ritrovato intatta.
Ritrovarvi in studio insieme com’è stato?
F: Molto divertente, perché non avevamo l’ansia dell’operazione commerciale, mentre oggi fare un giro negli studi di registrazione vuol dire spesso assistere a una veglia funebre.
E: In studio abbiamo suonato davvero, senza computer.
Le nuove tracce sono nate nell’ultimo periodo o avevate cose già pronte?
F: C’erano già nuclei di ispirazione originaria, parti di brani precedenti che abbiamo ripreso e amalgamato. Molti dei nuovi pezzi sono nati proprio da fusioni di strofe e ritornelli di canzoni diverse, come si faceva una volta del resto, e ci sono tracce arrivate di recente, come Triste storia di un cantante.
S: Il fatto però che canzoni mie si amalgamassero bene con quelle di Fulvio non era per nulla scontato ed è sintomo di  quell’unità di gusti di cui si parlava prima.
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My My Generation ha un riferimento piuttosto chiaro al brano degli Who. Loro cantavano la voglia di esprimersi, voi come vedete la vostra generazione?
E: Gli Who parlavano della loro generazione, quella di cinquant’anni fa, che non aveva riferimenti a cinquant’anni prima. Noi oggi facciamo rock come si faceva in quel periodo, con la differenza che oggi il rock è la nuova musica classica, un genere di nicchia, ma sono in pochi ad ascoltarlo. Ed è per questo che fin dall’inizio ho chiesto a Sony di trattare questo album come un progetto di musica classica a tutti gli effetti: ecco allora la limited edition, il tour nei teatri a prezzi alti. In questo rientra anche il titolo dell’album.
Premesso che avete voluto evitare l’album di duetti, non c’era nessun ospite che avreste voluto avere nel disco?
E: Volendo sognare, ti direi Elvis Costello, John Cale o Jean-Jacques Burnel.
S: In un tuo disco ha suonato Andy Mackay dei Roxy Music, vero?
E:
 Ecco, potrebbe essere un’idea per il futuro… Tra gli italiani, l’unico che avrebbe avuto motivi artistici per entrare nell’album sarebbe stato Faust’O (pseudonimo di Fausto Rossi, ndr). Soprattutto sotto Natale i cantanti passano il tempo a visitarsi in studio uno con l’altro, magari detestandosi, e nei loro pezzi si sente una disperata ricerca di attenzione da parte delle radio e del pubblico.

Non si salva nemmeno la scena indipendente?
E: Non siamo informatissimi, ma l’impressione generale è che in giro manchino le grandi canzoni. Lou Reed ha fatto anche album pieni di rumore, ma prima aveva scritto Perfect Day. Se chiedevi a Picasso di disegnarti una Madonna, la faceva bellissima, poi ha inventato il Cubismo. Si può anche scegliere di fare i matti, gli indie, ma prima bisogna dimostrare di saper scrivere belle canzoni.
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C’è stato un momento o un fattore che ha portato all’appiattimento della musica di oggi?
E: La crisi discografica. Negli anni ’80 c’era più pazienza, le case discografiche ti mettevano sotto contratto per cinque album e tu avevi il tempo di crescere. Se guardiamo i grandi, quelli venuti fuori quarant’anni fa, è tutta gente che non ha sfondato al primo album. Oggi non sarebbe possibile, serve arrivare al successo subito. Il Fabrizio De Andrè del 2021 esiste, ma ha già smesso di suonare perché Linus non gli passava il pezzo in radio. Gli artisti capaci di scrivere le grandi canzoni ci sono, ma quelle canzoni non andrebbero in radio. In tutto questo, i talent non sono che una conseguenza, un patto scellerato tra le case discografiche e la televisione, ma tra Battiato, De Gregori, Vasco Rossi, Dalla, Paolo Conte quanti vincerebbero un talent? Forse Gianni Morandi.
Quindi è cambiato il gusto del pubblico?
S: E’ un loop: alla gente piace un genere perché può ascoltare solo quello. Noi vogliamo portare qualcosa di nuovo. Forse siamo più all’avanguardia oggi di quanto non lo fossimo quarant’anni fa.
Viviamo davvero nella società dell’apparire?
E: Ne parliamo in molte canzoni dell’album, da La bella e la bestia a Fashion. Oggi la gente crede di poter decidere, ma non ha capito che ormai viviamo sotto la dittatura delle televisione. Tutto è indotto dall’esterno, anche nella politica. Lo dicevamo già in Lavaggio del cervello, un brano che ha precorso i tempi, proprio come in Superstar parlavamo del rapporto malato tra l’artista e i fan pochi anni prima che Chapman uccidesse Lennon.
Oggi c’è qualcuno con le potenzialità di essere aggiunto all’elenco dei grandi nomi che fate in My My Generation?
S: Se avessimo potuto aggiungere una strofa avremmo inserito altri nomi, ma sempre di quel periodo e di quelle latitudini.
E: Oggi mancano i grandi progetti, le grandi linee musicali: una volta mettevi su una canzone e capivi subito di chi era, oggi è impossibile. Forse oggi solo i Red Hot Chili Peppers hanno ancora questa capacità di distinguersi, soprattutto per il basso.
Quel cervello sulla copertina che significato ha?
E: E’ un appello…
S: Eravamo incerti se mettere il cervello o l’orecchio, e abbiamo optato per entrambi, due cose che oggi mancano. E poi ci sono rimandi ad altri altre band, come i Kraftwek.
E: L’idea è un po’ anche quella di incuriosire chi in un futuro lontano, fatto di umanità bionica, guarderà il disco e davanti a un cranio sezionato scoprirà che dentro c’era spazio per un cervello.
Per il tour cosa avete preparato?
S: Semplicemente saliamo sul palco e suoniamo, con strumenti veri. Niente maxi-schermi, niente effetti speciali, niente esplosioni. Ovviamente senza computer, neanche nascosti, ed è raro, lo ribadiamo.
E: Anche nell’indie. E io non volerò sul pubblico!

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato date al concetto di ribellione?
F: Nel nostro lavoro è la scelta di aver fatto una musica diversa, senza l’uso delle tecnologia e senza aver chiamato i soliti produttori.
E: Il nemico di oggi è il luogo comune: non ci vedrete spaccare le vetrine, quello lo fanno i giovani, noi ci ribelliamo in un altro modo.
Ma davvero il luogo comune un tempo non era così imperante come oggi?
E: Almeno ce n’erano tanti! Quando eravamo ragazzi noi in giro c’erano i fricchettoni, quelli che ascoltavano gli Inti-Illimani, chi ascoltava il rock, e poi la musica era molto più connotata politicamente.
F: Le forme di conformismo appartenevano ai genitori, oggi è tutto molto omologato.
Queste le prossime date confermate del tour: 17 marzo a Castelleone – Cr (Teatro del Viale); 18 marzo a Pomezia – Rm (Club Duepuntozero); 25 marzo a Perugia (Teatro Morlacchi); 28 marzo a Torino (Club Le Roi); 29 marzo a Asti (Teatro Palco 19); 8 aprile a Genova (Teatro della Tosse); 10 aprile a Milano (Teatro della Luna); 26 aprile a Bologna (Teatro Il Celebrazioni); 18 maggio a Bergamo (Teatro Creberg); 19 maggio a Nova Gorica (Casinò Perla).

#MUSICANUOVA: Decibel, My My Generation

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Ok, adesso è proprio vero: i Decibel sono tornati sul serio!

Il 10 marzo arriva Noblesse Oblige (i dettagli qui), il nuovo album, e ad aprirne il corso è My My Generation.
A giudicare da quello che si sente,  tre ragazzi punk non hanno perso lo smalto e hanno tanta, tanta voglia di far saltare tutto per aria!
Inoltre, partirà il 17 marzo il nuovo tour.
Queste le date confermate:
17 marzo a Castelleone – Cr
(Teatro del Viale)

18 marzo a Pomezia – Rm (Club Duepuntozero)
25 marzo a Perugia (Teatro Morlacchi)
28 marzo a Torino (Club Le Roi)
29 marzo a Asti (Teatro Palco 19)
8 aprile a Genova (Teatro della Tosse)
10 aprile a Milano (Teatro della Luna)
26 aprile a Bologna (Teatro Il Celebrazioni)
18 maggio a Bergamo (Teatro Creberg)
19 maggio a Nova Gorica (Casinò Perla).

BITS-CHAT: Guardare la vita da una panchina. Quattro chiacchiere con… i Ghost

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Dieci anni di musica e quattro album. I numeri dei fratelli Alex ed Enrico Magistri, meglio conosciuto come Ghost, iniziano a diventare importanti.
Per segnare in modo indelebile questo anniversario, la band ha scelto di farsi un gran bel regalo: dieci nuovi brani e fra questo due collaborazioni che definire illustri è decisamente poco.
Fra le canzoni di Il senso della vita, brillano infatti la titletrack e Hai una vita ancora, che vedono rispettivamente come ospiti Enrico Ruggeri e Ornella Vanoni.

Ma la ricchezza di questo disco si rispecchia anche nel messaggio presente nei testi, traboccanti di speranza, di amore e, sopra ogni cosa, di vita, osservata da una prospettiva molto particolare.
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Volevo partire dalla copertina: voi siete in due, ma nella foto c’è solo Alex, girato di spalle tra l’altro…

Alex: Quello in copertina potrei anche non essere io, potrei essere chiunque, non è importante. Non volevamo ritrarre noi due e quello che siamo,sono gli elementi presenti nell’immagine a essere importanti: la panchina, l’erba, la chitarra, l’acqua, il tramonto. La panchina per un bambino rappresenta il momento del gioco, con il genitore o il nonno che lo accompagna al parco, e infatti nella foto all’interno del CD c’è ancora la panchina con le nostre foto da piccoli. Abbiamo scelto quella panchina in particolare perché è artigianale, vissuta, non ne troverai un’altra identica, e richiama un po’ il rock. L’uomo della foto è semplicemente una persona che sta riflettendo con attorno gli elementi essenziali, la terra, l’acqua e la musica, sempre presente nella vita.
Enrico: Non sono i Ghost, ma solo una persona che sta riflettendo sulla vita e i suoi valori, per questo ci è sembrato giusto che ci fosse uno solo di noi, anche perché io in quel momento ero di fianco al fotografo e stavo tenendo fermo un cespuglio per non farlo entrare nell’immagine (ride, ndr). In generale, in questo album non abbiamo voluto dare importanza all’immagine, nel booklet non ci sono vere immagini, ma è piuttosto un percorso che va in parallelo con le canzoni, parte dalla terra, arriva al cuore fino alla pace finale.
Una parole chiave di questo disco e della vostra musica è vita: ma voi lo avete trovate il senso della vita?
A: No, non ci siamo arrivati. Questo album è un po’ una sorta di best of dei dieci anni precedenti, senza riprendere la musica del passato. Dieci canzoni che raccolgono le emozioni vissute in questi dieci anni in maniera semplice, nonostante un titolo così impegnativo. Probabilmente il senso dell’esistenza non lo si troverà neppure in punto di morte, ma ognuno ha la possibilità di costruirsi la propria esistenza vivendo al meglio.
E: Questo album chiude in un certo senso un percorso di dieci anni: siamo partiti con Ghost, un album giovanile, pieno di entusiasmo, forse anche un po’ improvvisato, poi c’è stato La vita è uno specchio, dove abbiamo iniziato a porci delle domande. Successivamente c’è stato un periodo difficile, nostro padre ha rischiato di morire, abbiamo perso un’amica e Alex ha subito un incidente che gli ha quasi compromesso la capacità di parlare e cantare.
A: Fortunatamente tutto è andato per il meglio, ma ho avuto la rotazione della laringe e un ematoma a una corda vocale, per cui non sapevo neppure se sarei riuscito più a parlare.
E: Siamo quindi ripartiti con Guardare lontano, in cui abbiamo voluto dare un messaggio positivo, un disco forse meno introspettivo dei precedenti, in cui ci portavamo dietro gli eventi vissuti.
A: Con Guardare lontano non avevamo ancora la leggerezza di oggi per affrontare un certo tipo di temi, invece in quest’ultimo album abbiamo messo una serenità e una consapevolezza nuova. Non a caso l’ultima frase del disco è “c’è un mondo di colori che non può finire”. Questo, forse, è il nostro senso della vita.
Ospiti d’eccezione del disco, Enrico Ruggeri e Ornella Vanoni: come hanno preso forma queste collaborazioni?
A: All’inizio dell’anno abbiamo deciso di farci un regalo: dopo dieci anni e arrivati al quarto album ci siamo sentiti pronti per un salto, perché non abbiamo mai fatto duetto all’interno dei nostri album, e abbiamo iniziato a parlarne con la nostra produzione. Cercavamo un artista maschile e un’artista femminile, ma mai avremmo pensato di poter attivare a nomi tanto illustri. Scegliendo i brani, volevamo far incontrare il nostro mondo con quello ben più grande di questi artisti, senza però fare una canzone “alla Vanoni” o “alla Ruggeri”, perché la musica si contamina da sola. Quando Ornella Vanoni ha cantato Hai una vita ancora è stata un’ulteriore prova di come la musica non abbia limiti, perché ha portato il suo mondo all’interno del nostro.
E: Con Ruggeri è andato tutto subito in porto, forse anche perché i nostri mondi sono più vicini, per noi lui è l’emblema del cantautore rock ed è una persona squisita, si è interessato al nostro percorso, gli è piaciuto molto il brano. Con Ornella inizialmente i rapporti sono stati un po’ distanti, ma poi abbiamo saputo che è rimasta molto contenta della canzone, ha voluto riscoprire la nostra storia e ha pubblicato anche un messaggio molto carino su di noi. È stato bellissimo vederla così partecipe, sentire con quanta enfasi ha interpretato il testo: il giorno in cui abbiamo ascoltato il brano in studio c’è stato un brivido generale.
A: Quello che tutti ci chiedevamo era come sarebbe uscito il duetto, come si sarebbero amalgamate le nostre due voci, proprio per la distanza di stili, e il risultato ci ha spiazzato completamente, si è completamente lasciata trasportare da quello che avevamo scritto, ed è stato bellissimo.
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A livello di testo, mi hanno colpito due brani: il primo è Le mie radici.
E: Nella sua profonda introspezione, è un brano speranzoso. Il testo recita “le mie radici sono stanche di lottare contro il nulla, contro l’aria e contro il tempo”, ma è da intendere come una lotta contro se stessi, contro chi non si dà la possibilità di sbagliare, chi sa solo aspettare un cambiamento senza mai cercarlo, chi si lascia chiudere in gabbie psicologiche o di mestiere. È un invito a ritrovare le proprie radici ed è forse il pezzo più autobiografico tra tutti quelli che abbiamo scritto fino ad oggi.
L’altro è Ho difeso il amore, cover di Nights In White Satin dei The Moody Blues.
A: Negli anni Sessanta questo brano è stato ripreso da numerosi artisti. Sono tanti i motivi per cui abbiamo scelto di inserirla nell’album: abbiamo rivisitato tante cover in questi anni, soprattutto live, cercando sempre di trovare una nostra via, senza ricalcare quello che hanno fatto gli altri artisti. In questo caso volevamo qualcosa di diverso, un brano che non avessimo mai fatto prima e visto che una versione famosa è quella dei Nomadi, è sembrata la scelta giusta: i Nomadi li sentiamo molto simili a noi, perché sono vicini alla gente, sono veri, semplici, senza sovrastrutture in quello che fanno. Inoltre, questa è una delle canzoni che nostro padre suonava in casa con una tastierina quando eravamo piccoli. Un ricordo delle nostre origini quindi. Infine, l’abbiamo scelta per il titolo: se c’è qualcosa per cui vale sempre la pena lottare, è l’amore, inteso nel suo significato più ampio. Questo brano è il cuore pulsante dell’album, messo proprio a metà.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato date al concetto di ribellione?
A: Sei ribelle quando riesci a trovare quel famoso “equilibrio sopra la follia”, perché essere folli non vuol dire essere ribelli, ma talvolta significa essere fragili, quasi malati. La ribellione invece è quella serenità interiore che trovi quando vai oltre al limite della follia.
E: Oggi ribellione è essere se stessi, non seguire l’imperante corrente che tutti seguono e che ci vorrebbe non pensanti.

Decibel, dopo quarant'anni un ritorno senza nostalgia e senza svendita

L’idea ha iniziato a solleticarli qualche anno fa, quando si sono ritrovati tutti e tre a Londra all’evento per il quarantennale di Kymono My House, storico album degli Sparks e disco fondamentale per la loro formazione. Da lì sono seguite alcune performance live “in privato” e poi finalmente la decisione: tornano i Decibel.

I Decibel, il gruppo di Enrico Ruggeri, Silvio Capeccia e Fulvio Muzio, quelli del punk, quelli di Contessa. Un’avventura iniziata a Milano nel 1977 e che ha visto concretizzarsi in una manciata di anni due album, Punk e Vivo da re, prima che i tre amici decidessero di prendere strade diverse, chi il medico (Fulvio), chi l’imprenditore (Silvio), chi il musicista (Enrico, ovviamente).
Oggi, a quarant’anni di distanza, il mondo dei Decibel si riaffaccia all’orizzonte con un album di nuove canzoni, mettendo completamente al bando ogni effetto nostalgia così come l’idea di un album di duetti. No, se i Decibel dovevano tornare, l’operazione doveva essere fatta per bene.
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Ecco allora Noblesse Oblige, il nuovo disco in arrivo il 10 marzo: 12 inediti e 3 rivisitazioni per un progetto presentato come un’operazione destinata alla nicchia al presidente di Sony Music Andrea Rosi, che per tutta risposta pare se ne sia uscito con un emblematico “Nicchia un cazzo!” dando così il nulla osta alla realizzazione.
Quando ne parla, Ruggeri è chiarissimo, con Noblesse Oblige si punta in alto: nessun groove, nessun suono sintetico, ma strumenti veri, suonati per davvero; un disco molto diverso da quanto fatto finora e da quanto si sente in giro attualmente, che si riallaccia idealmente a Vivo da re, e soprattutto un album che non vuole assolutamente concedersi al pop, termine che al cantautore fa quasi ribrezzo, tanto è associato al disperato bisogno di piacere a tutti. Un disco che non assomiglia a nulla, ci saranno rock, ballate, elementi dandy, e sarà più britannico che americano. Non un solo brano trainante, ma almeno cinque o sei.

Per la pubblicazione, oltre alla versione standard, è previsto un box ricchissimo in tiratura limitata di 1000 copie, già preordinabile on line dal 16 dicembre. Una chicca per super fan che conterrà, oltre al nuovo CD, la versione in doppio vinile, i vinili dei due precedenti album dei Decibel, il vinile del singolo Indigestione Disko/Mano armata, il poster del primissimo concerto della band (che in realtà non ha mai avuto luogo), il poster dell’ultimo tour, un book fotografico di 48 pagine, un DVD documentario cartolina autografata è T-shirt.
Il costo di tutta questa roba? Sui 100 euro, perché – come tiene a precisare Ruggeri – “non è svendita e ho chiesto a Sony di metterlo in vendita al prezzo più alto. Non ci interessa arrivare al grande pubblico, preferiamo che a seguirci sia una piccola nicchia. Questo prodotto sarà trattato come un oggetto di musica classica, adatta cioè a un pubblico adulto”.
E proprio con questa filosofia sono state pensate anche le date del tour, in partenza a marzo: piccole location e biglietti a prezzo alto:
17 marzo – Crema (Cr) Teatro San Domenico

18 marzo – Pomezia (Rm) Club Duepuntozero
25 marzo – Foligno (Pg) Auditorium San Domenico
28 marzo – Torino Club Le Roi
29 marzo – Asti Teatro Palco 19
10 aprile – Milano Teatro della Luna
Facile quindi comprendere, se qualcuno se lo chiedesse, il perché i Decibel non abbiano pensato di fare la loro rentrée dal palco dell’Ariston: “Ho già fatto Sanremo l’anno scorso e nel 2015 c’ero stato come ospite, quindi sarebbe stato il terzo anno consecutivo. È poi sono sicurissimo che la gente avrebbe fatto subito un confronto tra il nuovo brano e Contessa, perché purtroppo la mente delle grandi platee è così, ma noi non siamo alla ricerca delle grandi platee”.
Un’attitudine un po’ snob? Forse. Anzi, sicuramente e volontariamente, in nome dell’arte.

Perché Noblesse Oblige? “È il nostro modo di rendere omaggio ai nomi del rock verso cui sentiamo di avere un debito, Lou Reed, David Bowie, gli Sparks, i Roxy Music”.