GHALI: annunciata la data zero di “Ghali in Tour”.

ANNUNCIATA LA DATA ZERO DI
GHALI IN TOUR”

IL 18 OTTOBRE 
AL PALABAM DI MANTOVA

POCO PIU’ DI UN MESE 
ALL’ATTESISSIMO TOUR NEI PALAZZETTIFINALMENTE LIVE TUTTO IL SUO IMMAGINARIO 
DA AUTENTICA SUPERSTAR

PREZZI BIGLIETTI
PRIMO ANELLO NUMERATO + LATERALE:   €38 + diritti di prevendita
SECONDO ANELLO CENTRALE NUMERATO: €36 + diritti di prevendita
SECONDO ANELLO LATERALE: €32 + diritti di prevendita
PARTERRE IN PIEDI: €30 + diritti di prevendita

Biglietti disponibili su ticketmaster.it, ticketone.it e in tutti i punti vendita autorizzati dalle ore 11:00 di venerdì 31 agosto 2018.

L’organizzatore declina ogni responsabilità in caso di acquisto di biglietti fuori dai circuiti di biglietteria autorizzati non presenti nei nostri comunicati ufficiali.

Si aprono domani le prevendite della data zero di “Ghali in tour” che darà il via al primo tour di Ghali nelle più importanti arene indoor italiane, il 18 ottobre al Palabam di Mantova.
La data si aggiunge agli 11 concerti già annunciati con cui Ghali girerà l’Italia con il suo attesissimo ritorno dal vivo.“GHALI IN TOUR” è prodotto e organizzato da Live Nation, queste le  date confermate:

18 OTTOBRE  – MANTOVA – PALABAM (DATA ZERO)
20 OTTOBRE – TORINO – PALA ALPITOUR
25 OTTOBRE FIRENZE – MANDELA FORUM
26 OTTOBRE GENOVA – RDS STADIUM
27 OTTOBRE BOLOGNA – UNIPOLARENA
29 OTTOBRE MILANO – MEDIOLANUM FORUM
02 NOVEMBRE PADOVA – KIOENE ARENA
03 NOVEMBRE ANCONA – PALA PROMETEO
04 NOVEMBRE – BARI – PALA FLORIO
08 NOVEMBRE – NAPOLI – PALAPARTENOPE
10 NOVEMBRE – ACIREALE – PAL’ART HOTEL
13 NOVEMBRE – ROMA – PALALOTTOMATICAInformazioni sull’acquisto dei biglietti su www.ghali.live.

A Giovanni Nuti il Premio Franco Enriquez – Città di Sirolo 2018

Ph. Kalicantus
ph. Kalicantus

Giovedì 30 agosto (ore 21,00), presso il Teatro Comunale Cortesi di Sirolo (Ancona), si terrà la cerimonia della XIV edizione del Premio Nazionale Franco Enriquez 2018: per una comunicazione e un’arte di impegno sociale e civile.
Fra i premiati di quest’anno, anche Giovanni Nuti nella categoria “poesia e musica”, sezione: raccolte, produzioni e recital.

Questa la motivazione con cui la prestigiosa giuria del Premio, coordinata dal Maestro Paolo Larici, Presidente del Centro Studi Drammaturgici Internazionali dedicato al grande regista Franco Enriquez, e composta da critici e scrittori del panorama nazionale e internazionale, ha deciso di premiare il cantautore toscano per la pubblicazione l’ottobre scorso del cofanetto Accarezzami musica – Il Canzoniere di Alda Merini e gli showcase del progetto realizzati in alcune città italiane:
Accarezzami musica – il Canzoniere di Alda Merini, un’opera vasta e colossale che raccoglie il frutto di un matrimonio artistico tra due grandi anime, Alda Merini e Giovanni Nuti. In questa raccolta discografica (prodotta da Nar International/Sagapò) e nei tre recital di presentazione (ci piace ricordare quello di Milano), la loro sinergia è stata capace di donarci pagine di straordinaria bellezza che scaturiscono da ogni singola nota e da ogni singolo verso. ‘La poesia è bellezza e la bellezza ci aiuta a vivere’ soleva dire la grande poetessa, una bellezza che dal vivo si trasforma in energia carnale e vitale che rapisce e di cui non si può fare più a meno”.

Ph. Giampietro Negroni
ph. Giampietro Negroni

Nelle precedenti edizioni del Premio, che hanno visto in giuria la presenza di buona parte del teatro Italiano e di molti artisti amici di Franco Enriquez, sono stati premiati artisti come Gianfranco De Bosio, Ferruccio Soleri, Umberto Orsini, Emanuele Luzzati, Pierluigi Pizzi, Elisabetta Pozzi, Paolo Graziosi, Ascanio Celestini, Maddalena Crippa, Maurizio Scaparro, Massimo Bubola, Gigi Cifarelli, Franco Cerri, Maria Paiato, Mariano Rigillo, Gabriele Lavia.

Durante la serata del 30 agosto tra gli altri premiati vi saranno anche Filippo Crivelli, Ennio Fantastichini, Luca Lazzareschi, Jacopo Gassman.
Giovanni Nuti si esibirà presentando alcuni brani del suo Canzoniere meriniano.

Sempre nella cornice del Teatro Comunale Cortesi di Sirolo, la sera precedente, il 29 agosto (inizio 21,30), Giovanni Nuti, accompagnato dalla sua band (Massimo Germini, chitarra; Josè Orlando Luciano, tastiere; Simone Rossetti Bazzaro, violino; Emiliano Oreste Cava, percussioni) terrà un concerto con una più ampia selezione dei brani composti con la grande poetessa (Produzione: Sagapò Music – Management: Musicando).
Info e prenotzioni: tel. 071 9330952 – 335 477618

Morta Aretha Franklin: addio alla gigantessa del soul

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Aretha Franklin è morta
. Stavolta è vero.

Dopo giorni di informazioni errate, di coccodrilli frignanti con troppo anticipo, di De profundis intonati solo per fare rumore, la conferma ufficiale è arrivata: Aretha Franklin è morta davvero.
Il tumore che l’aveva colpita alcuni anni fa non le ha lasciato scampo,e dopo alcuni giorni di agonia la stella di una delle più grande interpreti soul di sempre si è spenta.
Quando muore un personaggio così, è difficile tirare fuori dalla penna qualcosa che non sia ovvio, scontato, retorico, prevedibile, qualcosa che vada oltre una carrellata di informazioni biografiche: perché se è facile elargire lodi ed elogi quando un artista ci lascia, nel caso di Aretha Franklin servirebbe almeno un discorso pubblico, un omelia, un epitaffio alto e sonante almeno quanto quello che lo storico greco Tucidide ha messo in bocca a Pericle al termine del primo anno della guerra del Peloponneso.
Perché di Aretha Franklin ne nasce una ogni secolo, non di più.
Se il soul aveva una regina, questa non poteva che essere lei, senza dubbio e senza ruffianeria: Aretha Franklin è stata grande, immensa, una gigantessa della musica, sotto la cui ombra sono nate con gli anni artiste come Whitney Houston, Mary J. Blige e Alicia Keys, solo per citare la grandissime.
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Una carriera di oltre sessant’anni iniziata a metà anni Cinquanta e interrotta ufficialmente nel 2017 a causa del tumore: in mezzo, ben 18 Grammy vinti tra soul e gospel, più tre premi speciali; una quantità sterminata di album (più di quaranta) e brani diventati memorabili come Respect, Think, ma anche Chain Of FoolsIt Isn’t, It Wasn’t, It Ain’t Never Gonna Be (realizzato con Whitney) e poi lui, (You Make Me Feel) A Natural Woman, scritto dalla cantautrice Carole King e diventato grazie ad Aretha in un classico irrinunciabile della black music.

Aretha Franklin è stata per il soul quello che Ella Fitzgerald e Billie Holiday sono state per il jazz: leggenda, storia vivente, presenza immortale già prima di morire. Aretha Franklin ha scritto non una pagina, ma almeno un intero capitolo di storia del soul, che senza il suo nome avrebbe oggi una fisionomia molto diversa.
Aretha Franklin era una presenza costante, sicura: poteva non cantare o non apparire sulle scene per lunghi periodi, ma c’era, tutti sapevamo che c’era, perché il soul sembrava non poter più esistere senza Aretha Franklin.
E invece la storia ha fatto il suo corso, come sempre, e oggi il soul piange la sua più regale signora.

Habla Kadabra: la nuova grammatica dei Bambooze tra pop e Africa

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Il progetto Bambooze è nato tra le pareti del CPM Music Institute di Milano nel 2016, dove si sono incontrati Federico Dal Maso (voce e chitarra ritmica) Elia Baccinelli, (chitarra solista e cori), Simone Colombaretti (basso elettrico e cori) e Francesco Falsiroli (batteria).

Quello che i quattro ragazzi si sono messi in testa di fare è stato pensare di unire quante più influenze musicali possibili, mettendo in un unico insieme i ritmi compulsivi e ancestrali dell’Africa con il pop (che non guasta mai), un po’ di sano rock ‘n’ roll e, perché no?, anche il grunge.
Il tutto con la precisa missione di destrutturare il linguaggio verbale per arrivare a un linguaggio pre-grammaticale, scavando nelle radici della cultura umana fino a trovare un sostrato comune di culture, tradizioni e riti. Una sorta di riscoperta di quella parte incorrotta e incontaminata, il “fanciullino” di pascoliana memoria insomma, totalmente pulito dalle brutture del mondo.
E proprio a questo fanciullino che vive nella pancia di ogni individuo le canzoni sono dirette, non al cervello.
Un’altra componente fondamentali dei testi dei Bambooze è la giovinezza, sempre vista con apparente semplicità, ma in realtà complessa, una meraviglia verso l’ignoto che spesso si tende a minimizzare. Un tema affrontato contemporaneamente in maniera scanzonata e profonda, dipingendo tutte le possibili sfaccettature della vita di un giovane uomo o di una giovane donna.

Il primo risultato di tutti questi spunti ha preso forma nel singolo Bidibibodibi Boom Chacha, registrato a poche settimane dal primo incontro dei ragazzi, seguito ora da un secondo brano, Habla Kadabra.

Mamma mia! Ci risiamo… mica tanto!

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Mamma mia! Ci risiamo
, Mamma mia! 2, chiamatelo come volete, l’importante è capirci.

Il seguito del film uscito nel 2008 e con protagonisti Meryl Streep, Amanda Seyfried e Pierce Brosnan (e tanti altri) conferma una delle regole inossidabili del cinema: quella cioè che i sequel sono, nella gran maggioranza dei casi, delle gran belle montature. Magari costruite con arte sublime e sapiente, ma pur sempre montature rimangono, e sono quindi destinati a deludere le aspettative.

La pellicola arriverà nei cinema italiani il prossimo 6 settembre, ma nella giornata di domenica 12 agosto diverse sale davano l’opportunità di vederla in anteprima.
Io, memore del grande entusiasmo con cui ero uscito dalla visione del primo film (visto tra l’altro due volte di seguito in un cinema di Pavia) ho colto l’opportunità, sperando, non dico di riceverne la stessa folgorazione, ma almeno di godere di uno spettacolo altrettanto brioso. E invece…
La trama parte da dove la vicenda si era interrotta, e tutto il film procede in un continuo avanti-e-indietro tra quello che è successo dopo la fine di Mamma mia! (ovvero la festa per la grande riapertura dell’hotel sull’isoletta greca) e i flash-back di quello che era successo prima (ovvero gli incontri tra la giovane Donna Sheridan e i tre futuri “forse-padri” di sua figlia Sophie). 
Ma tanto il primo film era stato brillante, vivo e colorato di ritmo, tanto il nuovo è lento e indirizzato più verso la commozione che alla ristata. Le sorti si risollevano un po’ nella seconda parte, con l’arrivo di Cher, il cui personaggio (nonna Ruby) resta comunque un po’ appeso al nulla e il suo ruolo si riduce a poco più di un cameo di mezz’oretta complessiva. Ancora meno fa Meryl Streep, che, nonostante la presenza in locandina…. va beh, questo non ve lo dico, altrimenti cado nello spoiler. Preparatevi però a vederla poco, pochissimo, seppure quel poco sia di grande effetto, va detto.
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Passando alle canzoni, importanti tanto quanto la storia, c’è da dire purtroppo che non possono reggere il confronto con la prima colonna sonora, che era composta dai successoni degli ABBA, quelli irrinunciabili, quelli che tutti, ma proprio tutti conoscono: per il primo film la discografia del quartetto svedese era tutta a disposizione, ma questa volta gli assi erano già stati calati, per cui si è dovuti ricorrere ai brani meno conosciuti, che sono poi anche quelli di minor impatto. Dove si è potuto si è messa in atto un’operazione di “riciclo” (vedi le immancabili Mamma mia!, Dancing Queen, Super Trouper), ma trattandosi di un altro film più di tanto non si poteva azzardare.

A salvare la baracca ci provano le due amiche di Donna, Tanya e Rosie, e qualche nuova comparsa inserita qua e là, ma il tutto non basta a giustificare un sequel che ha il gusto di un bicchiere di ouzo (per restare in tema greco) annacquato.
Nel complesso, un gran peccato: su certe scelte si poteva forse lavorare meglio, alcune carte potevano essere giocate con maggior astuzia e poi va beh, il film rivela tutte le debolezze che hanno i sequel fatti con il mero scopo di battere cassa, e che nessuna guest star riuscirà mai a giustificare, nemmeno con la più platinata apparizione.
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PS: se proprio volete andare a vederlo, portatevi un paio di kleenex, potreste ritrovarvi con un paio di lacrimoni….

BITS-CHAT: Riaccendete il Marshall! Quattro chiacchiere con… Mike Sponza

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Ogni decennio lascia dei segni indelebili nella memoria: se gli anni Ottanta sono stati il periodo del synth-pop e di qualche esperimento di discutibile valore e gli anni Settanta hanno rappresentato il momento più luccicante della disco music, gli anni Sessanta sono giustamente ricordati come il decennio del rock e del blues.

Ma sono anche gli anni che hanno visto una grande rivoluzione della società e del pensiero, con gli ideali di libertà della Summer of Love del ’67, le proteste giovanili del ’68 e il grande festival di Woodstock del ’69.

Agli anni Sessanta ha dedicato il suo ultimo album Mike Sponza, uno che il blues e il rock li ha ormai nelle vene: Made In The Sixties, questo il titolo del disco, è stato registrato agli Abbey Road Studios di Londra e ripercorre gli eventi di quel decennio in 10 pezzi, uno per ogni anno.
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Cosa significa essere “Made In The Sixties”? In altre parole, come è stato vivere in prima persona gli anni Sessanta e come ti sei trovato a raccontare oggi in un disco quel decennio?

In realtà ho vissuto per poco quel decennio, ma sono cresciuto circondato da quel feeling per tutti gli anni della mia infanzia, e quindi l’imprinting è stato forte. Essere “Made In The Sixties” significa per me volere fare le cose bene e con calma, rispettando chi ti sta vicino, puntando ad un continuo miglioramento, dare spazio alla creatività ed alla umanità, in empatia con gli altri. Quando ho avuto l’idea del concept per questo album, mi sono messo a fare subito un lungo lavoro di ricerca, per poi lasciare spazio alla pura creatività sia per i testi che per la musica, uscendo dal mio passato di “osservante” dei canoni del blues.

L’album vede la partecipazione di numerosi ospiti, protagonisti degli anni Sessanta: come è nato il loro coinvolgimento nel progetto?
Mi è sempre piaciuto avere ospiti nei miei progetti discografici, è un modo per arricchire l’album con sonorità diverse da quelle che propongo dal vivo. In Made In The Sixties, la presenza più importante è sicuramente quella di Pete Brown in veste di coautore dei brani: è un’icona del rock blues, ed è la penna dietro successi come Sunshine of your love, White Room, I Feel Free: Eric Clapton lo definisce il quarto membro dei Cream. La possibilità di lavorare con lui ha dato una forte spinta creativa ai brani. Con Dana Gillespie, protagonista importante della scena musicale londinese dei secondi anni Sessanta, siamo amici e collaboratori da anni, ed è uno dei miei link diretti a quel mondo della “swinging London” che è un po’ la mia ossessione.

Negli anni Sessanat il rock, e forse la musica in generale, avevano anche una valenza sociale e politica: un valore che forse oggi la musica non ha più, sei d’accordo? Cosa secondo te ha portato a questo cambiamento?
Penso che tutte le forme artistiche degli anni Sessanta avessero una forte valenza sociale e politica: si dicevano cose importanti attraverso le canzoni, ma anche attraverso la pittura, il teatro e i libri. La musica era sicuramente un medium per trasmettere forti messaggi. Oggi quasi tutto quell’approccio si è perso, sono d’accordo: penso in gran parte a causa dello schiacciamento che gli artisti oggi subiscono dalle logiche commerciali imposte dalle major, dai mass media, e dalle nuove forme di consumo della musica. È un processo irreversibile? Forse no. Credo che prima o poi arriverà un momento in cui una generazione si romperà le palle di ascoltare la spazzatura che ci viene imposta. Ci sarà una ribellione verso la musica vuota, come c’è stata verso la metà degli anni Sessanta. Qualche giovane band prima o poi deciderà di spegnere il computer e di accendere il Marshall.

Il disco racconta gli anni Sessanta in 10 pezzi, che sono anche 10 storie, una per ogni anno del decennio. Immaginando però di aggiungere un undicesimo tassello a questo quadro, cosa ti sarebbe ancora piaciuto raccontare degli anni Sessanta?
Avrei voluto avere lo spazio per parlare di tutto il movimento per i diritti civili, che ha attraversato tutta la decade: alcune cose le abbiamo raccontate in qualche verso, ma è un argomento troppo “corposo” per essere racchiuso in un’unica canzone.
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Quale credi che sia la più grande eredità o il più grande insegnamento che gli anni Sessanta hanno lasciato nella memoria e nella società? E cosa pensi invece che si sia perso soprattutto di quel decennio?
Vedo molto gli anni Sessanta come un’“età dell’oro”, che ha lasciato in tutti i campi dei grandi classici senza tempo, validi ancora oggi. Mi riferisco alla musica, ma anche al design, alla moda, alla cinematografia, alla letteratura. Credo che l’insegnamento principale sia quello di creare liberamente, osando di uscire dagli schemi, ma facendolo in modo da lasciare il segno con qualcosa di qualità indiscutibile. Penso che oggi sia perso questo: il gusto per la sperimentazione e la libera creatività, oggi è tutto soffocato dal marketing.

Pensi che oggi ci siano i presupposti per far risorgere lo spirito e gli ideali degli anni Sessanta?
Secondo me un crash down di internet aiuterebbe… Se parliamo di ideali di progresso e di pace, di uno stile di vita rispettoso delle scelte di chi ci sta accanto, di creatività e fuga dalla massificazione, secondo me parliamo di cose mai veramente scomparse anche a distanza di cinquant’anni. Penso che molti giovani le stiano ripescando, anche in modo inconsapevole, forse proprio perché se ne sente bisogno.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che definizione dai al concetto di ribellione?
Cercare di essere normali oggi è un forte atto di ribellione. Costruirsi uno stile di vita proprio e provare a vivere secondo i propri valori, è ribellione verso la lobotomia quotidiana. Tutti i gesti di ribellione classici, ormai sono stati anch’essi fagocitati dalle logiche di mercato. Vivere la propria vita è ribellione.

BITS-CHAT: Essere qualcosa di diverso. Quattro chiacchiere con… Roberta Bonanno

Immaginate a come debba essere utile e comodo poter contare su un alter ego, un “doppio” di noi stessi a cui far dire e fare tutto quello che nella vita quotidiana non siamo in grado o non vogliamo dire e fare. Un po’ come in televisione don Diego faceva con Zorro o Peter Parker con Spider Man.
Un alter ego ce l’ha anche Roberta Bonanno: si chiama Bonnie ed è la parte più vivace di sé, quella più combattiva, ma anche quella da “tenere a bada”.
Bonnie è quella che si divide con Roberta lo spirito leggero dell’ultimo album dell’artista milanese, intitolato appunto Io e Bonnie: un disco che grida voglia di libertà e che rivendica con forza la volontà di essere unici, andando sempre in “controtendenza”.
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Partendo dal titolo del tuo nuovo album, la prima domanda che mi viene da farti è: chi è Bonnie? E quale distanza c’è tra Roberta e Bonnie?

Bonnie non è altro che il mio alter ego, o meglio, rappresenta ogni mia sfumatura. È la parte più viva di me, la mia voglia di sorridere anche davanti alle sconfitte. È quella parte di me che sa rialzarsi per affrontare nuove sfide oltre ad essere da sempre il mio soprannome affibbiatomi da amici e fans. La distanza tra me e Bonnie è sottilissima: siamo la stessa persona ovviamente, ma una parte tiene a bada l’altra o l’aiuta nella sua crescita. Io sono così veramente piena di colori!

Se dovessi trovare un filo conduttore in grado di legare tutti i brani dell’album, quale pensi potrebbe essere?
Senza dubbio il filo conduttore che lega tutti brani è la positività che oramai mi sono conquistata con fermezza gli ultimi anni della mia vita! Ogni brano ha caratteristiche a sé ma qualsiasi tematica venga affrontata, lo spirito rimane sicuramente positivo!

Cosa pensi sia cambiato oggi in te rispetto alla ragazza che aveva partecipato ad Amici? E cosa invece senti che ti appartiene ancora?
Senza dubbio tutti questi anni mi hanno aiutato a crescere a livello artistico ed anche personale. Indubbiamente il mio essere istintiva rimane un punto fermo del mio carattere, ma crescere vuol dire anche riuscire a trovare un proprio equilibrio. Forse prima ero veramente molto più impulsiva, poco diplomatica e affrontavo la vita con troppa serietà. Oggi ho capito che la vita deve essere presa col sorriso e con po’ di leggerezza, pur tenendo alto il mio senso di responsabilità!
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Dove hai trovato in questi anni il “buon motivo” per continuare a credere nella musica?
Il mio buon motivo é dentro di me, non mi serve cercarlo! Per me cantare è un’esigenza, un bisogno, una vocazione! Sento la necessità di esprimermi a mio modo.
Anche se la musica a volte ci è nemica alla fine trova sempre il modo per tenderti la mano e io non posso fare a meno di stringerla!

Nel video di Controtendenza sembri esserti divertita molto: com’è nata l’idea di ambientarlo tra gli scenari del circo?
In realtà ogni volta che giro un videoclip per me è un momento di divertimento! Io sono così come si vede nei miei videoclip. Amo scherzare, non prendermi troppo sul serio quando il caso lo concede, come potete vedere anche in Controtendenza. L’idea è nata dall’intuito del regista Francesco Leitner che ha voluto rappresentare metaforicamente il senso stesso del brano: la voglia di non cadere nell’omologazione ma di rappresentare la propria unicità spesso andando in controtendenza per appunto!

Chi è “L’uomo che non c’è”?
“L’uomo che non c’è” è la persona che aspetto con serenità e che mi auguro un giorno possa arrivare! A volte stare da soli è un buon motivo per crescere e avere una persona al proprio fianco ha senso solo quando ci si sente già completi nella propria individualità! Prima o poi arriverà e sarò pronta ad accoglierlo con una serenità che forse prima non avevo.

Un rimpianto o un rimorso del passato? E un sogno per il futuro?
Non ho grossi rimpianti né veri rimorsi. Potessi tornare indietro magari non perderei l’occasione di poter saper suonare uno strumento, oltre al poter imparare a muovermi. Il ballo anche nel mio mestiere è sicuramente un valore aggiunto, e non è mai troppo tardi per imparare. Per il futuro mi auguro di poter arrivare a casa stanca ma felice di aver trascorso giornate piene di musica e di lavoro e soprattutto mi auguro di poter trovare l’equilibrio giusto che porta alla tanto attesa felicità.

In genere chiudo le mie interviste chiedendo di darmi una definizione del concetto di ribellione: in questo caso però, personalizzerei la domanda chiedendoti cosa significa per te vivere o essere in controtendenza.
Come ti dicevo prima non amo confondermi nella massa e questo non vuol dire necessariamente essere ribelli. La ribellione oggi come oggi forse vuol dire essere un po’ più normali, rispettosi, educati, con la voglia di vivere una vita pulita, ecco il mio andare in controtendenza. Questa società ci annichilisce, ci ripulisce dal nostro carattere e ci porta ad essere intercambiabili. Io sono qualcosa di diverso: per questo lotterò sempre per essere me stessa in un mondo forse un po’ troppo “scontato”.

Gimme! Gimme! Gimme!: Cher, gli ABBA e il karaoke

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Ormai è un dato di fatto: dopo 10 anni dal primo film, la Mamma mia! mania è tornata, complice soprattutto l’uscita nelle sale
 di Mamma mia! Ci risiamo (il film arriverà in Italia il 7 settembre, con anteprima il 12 agosto), il nuovo capitolo cinematografico con Meryl Streep e Amanda Seyfried.

Tra i nuovi acquisti del cast, anche Cher, che da questa febbre musicale si è lasciata contagiare al punto da prendere ispirazione per il suo nuovo progetto discografico: come già ampiamente annunciato, il suo nuovo album si intitolerà infatti Dancing Queen, uscirà il 28 settembre e sarà una personale rivisitazione di alcuni dei successi degli ABBA. 
Oltre a Fernando, che fa parte anche della colonna sonora del film, ad anticipare l’album è Gimme! Gimme! Gimme! A Man After Midnight.

Ora, anche senza farlo apposta, è inevitabile che la mente torni al 2005, quando Madonna ebbe l’acuta intuizione di utilizzare il sample della canzone per farne un successone dance mondiale che prese il nome di Hung Up, apripista dell’album Confessions On A Dancefloor. Ed è altrettanto noto che Madonna, o almeno la Madonna di qualche anno fa, aveva la capacità di fare suo tutto quello che toccava, fagocitando mode e suoni presi altrove per restituirli come se ne fosse lei l’ideatrice. Nel caso di Gimme! Gimme! Gimme! il riferimento di partenza era troppo ingombrante per puntare a un risultato del genere, ma quello che è successo è che oggi il giro di tastiera di Gimme! Gimme! Gimme! appartiene, nella memoria comune, tanto agli ABBA quanto alla Ciccone.
Con un precedente del genere alle spalle, la scelta di Cher – icona pop grande tanto quanto Madonna, e quindi sua diretta concorrente – di presentare il nuovo disco proprio con questa cover appare un azzardo da kamikaze, e sembra strano che nessuno in casa discografica abbia avuto la lucidità farlo notare alla signora. Oppure si deve ipotizzare che lo scopo diabolico dell’operazione fosse proprio questo, far alzare il polverone scintillante delle chiacchiere, dei confronti, dei mash-up. Tanto per farne parlare un po’.

Ma al di là di queste ipotesi prive di qualunque fondamento, il vero problema della cover di Cher è la mancanza di ogni spessore: arrangiamento e base lasciati praticamente intatti e un’interpretazione che ha l’effetto di una prova di karaoke.
Non bastano certo il vocoder e l’autotune, spalmati come spessi strati di cerone, a rendere unica e originale una rilettura che ha tutto il suono della copia pedissequa.

Seriamente, gli ABBA meritano un trattamento migliore. E anche Cher.

Rick Genest: la causa della morte sarebbe un incidente

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Sembrava inizialmente un caso di suicidio, ma col passare dei giorni le indagini sula morte di Rick Genest, modello canadese trentaduenne conosciuto con il nome di Zombie Boy, hanno preso una direzione diversa.

Non si tratterebbe infatti di un gesto estremo dettato dalla depressione, come era stato comunicato dalla polizia di Montreal, bensì di un tragico incidente: stando infatti alle parole della fidanzata del ragazzo, Rick aveva l’abitudine di fumare seduto sul balcone, e anche il giorno della morte si era appartato su un terrazzino per fumare una sigaretta.
Non vedendolo rientrare, la ragazza si è però insospettita e dopo essersi affacciata ha visto il corpo di Genest a terra. 
Il ragazzo sarebbe caduto di spalle dal terzo piano, forse della ringhiera del balcone troppo bassa.

La notizia del suicidio aveva fatto il giro del web e di tutti gli organi di stampa, e anche Lady Gaga, che nel 2011 aveva voluto Zombie Boy nel video di Born This Way, si è affrettata a rimuovere il post precedente e a scusarsi con la famiglia del ragazzo per aver diffuso un messaggio errato.

No Brainer: la grande festa di DJ Khaled con Justin Bieber, Chance The Rapper e Quavo

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DJ Khaled
chiama, il pop e il rap rispondono!

Come in passato con il successo di I’m The One, anche per il nuovo singolo No Brainer, il megaproduttore statunitense ha coinvolto uno squadrone di ospiti di tutto rispetto: a prendere parte alla festa sono infatti Justin Bieber, Chance The Rapper e Quavo, che danno vita a un singolone estivo che mette insieme pop, hip-hop, trap e sonorità tropical.

Khaled ha anche deciso anche di curare personalmente la regia del video, portando sul set tutti i protagonisti del brano, se stesso e anche suo figlio, che ha “co-firmato” la regia.
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No Brainer anticipa l’uscita del nuovo album di DJ Khaled, Father of Asahd, l’undicesimo della sua carriera, che uscirà quest’autunno per We The Best Music Group/Epic Records, e vedrà ancora una volta nel ruolo di “produttore esecutivo” il figlioletto di Khaled di quasi due anni, Asahd.