#MUSICANUOVA: Ilenia Pastorelli, La ballata di Hiroshi

Parte con l’effetto surreale della Canzone di Marinella De Andrè, e poi va per la sua strada e si inoltra nello scenario di Lo chiamavano Jeeg Robot, il film d’esordio di Gabriele Mainetti, campione d’incassi e di riconoscimenti agli ultimi David di Donatello.

La ballata di Hiroshi è interpretata da Ilenia Pastorelli, l’attrice protagonista, che nella pellicola è Alessia, una ragazza convinta che Hiroshi Shiba, l’eroe della serie manga Jeeg Robt d’acciaio, esista nel mondo reale e lo identifica con Enzo, interpretato da Claudio Santamaria.

#MUSICANUOVA: Antonio Maggio, Amore Pop

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“Nel videoclip di Amore Pop sono state messe in scena esattamente tutte le sfumature e le emozioni che io ho messo in musica, fatto che non è assolutamente scontato che accada. 
La ricerca continua di qualcuno o qualcosa che prima insegui, poi raggiungi e infine si sgretola inaspettatamente tra le mani, il tormento di un sentimento grezzo che solo il tempo, con le sue cure, può rendere unico e inimitabile; e poi le atmosfere continuamente sospese tra l’onirico e il reale, i giochi di luce naturali, merito di una location incredibile”.

A distanza di circa due anni dalla pubblicazione del precedente album, Antonio Maggio torna con un nuovo singolo e un nuovo videoclip, girato nel bosco del Parco Carrisiland a Cellino San Marco (BR), anticipazione del terzo album che verrà pubblicato durante i primi mesi del 2017.

La musica e il testo di Amore Pop sono stati scritti con la produzione artistica di Diego Calvetti.

#MUSICANUOVA: DJ Mike, A Night With The Goat

Dj Myke, si sa, ama giocherellare con i vinili e rimodellare pezzi del passato “scratchandoli” a modo suo .

Questa volta, complice la festa Halloween, è toccato A night with the goat di Jhon Carpenter.

Il dj di Orvieto ha dato vita alla saga Skratch Instinct, da cui sono già nati i rifacimenti di Volare, Eri Piccola, La gatta, L’americano, fino a Sono un simpatico di Celentano pubblicato a settembre.

BITS-CHAT: “Partiamo e torniamo sempre a noi”. Quattro chiacchiere con… Giorgia

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C’è un’aura dorata intorno a Giorgia. Un meraviglioso scintillio che traspare dai suoi occhi scuri e che riempie tutta l’aria intorno. È raggiante, totalmente serena con se stessa e trasmette un profondo senso di consapevolezza di sé.
È appena tornata sulle scene con Oronero, il suo decimo album di inediti, intitolato come il singolo che gli ha aperto la strada e che da solo faceva già intuire il tono personale che avrebbero avuto gli altri brani.

Un disco di 15 tracce, realizzato insieme al re Mida della produzione, quel Michele Canova con cui Giorgia aveva già lavorato e che tanti altri artisti nostrani cercano per dare alla propria musica una veste più internazionale. Un disco che se da un lato non lascia dubbi sul fatto che la voce di Giorgia sia tra le migliori in Europa, dall’altro mostra anche una grande libertà nel giocare tra elettronica e melodia, alternando momenti di ampio respiro ad altri di divertimento “da cubo”.

Un disco praticamente già pronto da mesi, ma che è stato lasciato fermo per un po’ per non dover dire “potevo far di meglio”.
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Dopo tre anni, torni con un disco “generoso”, ricco e vario: una scelta specifica?
No, non è stata una scelta: all’inizio pensavo a un disco di 11-13 pezzi, poi però non me la sono sentita di escludere gli altri, perché stavano bene nel racconto. Con il mio produttore, Michele Canova, avevo un’idea chiara del suono che volevo far emergere, con tanta elettronica. Un suono più compatto rispetto all’album precedente, Senza paura, dove invece c’erano elementi più eterogenei, con tante parti suonate. In questo caso ci siamo concessi libertà: chi lavora con Michele sa che lui usa molti arrangiamenti di respiro internazionale, ma in questo caso credo che lui sia uscito un po’ dalle regole.

Sarà difficile riproporre questa varietà dal vivo?
No, sarà divertente! In un concerto è necessario alternare momenti diversi, mettere insieme i pezzi di oggi con quelli del passato: non ho ancora pensato alla scaletta, ma la varietà dei brani sarà sicuramente un elemento a favore.

Cos’è davvero questo “oronero”?
Ha sicuramente a che fare con il petrolio, una risorsa preziosissima che può però diventare dannosa, velenosa se usata in maniera sbagliata, basta pensare alla plastica. È una metafora del mondo di oggi, della nostra società che ha così tanti modi per comunicare, ma che spesso li usa solo per distruggersi.
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Per questo disco ti sei voluta prendere tutto il tempo a disposizione: come è avvenuta la scrittura dei brani?
Mi sono voluta atteggiare un po’ a cantautrice: ho iniziato a scrivere quando mio figlio è andato in prima elementare. Mi sono trovata in un meccanismo che prevedeva la scuola, la spesa, la cura della casa e per scrivere mi sono imposta dei momenti della giornata. Volevo uscissero certe parole e non altre, e per fare questo mi sono dovuta confrontare anche con i suoni: ho ricevuto dei pezzi con la melodia già fatta, alcuni cantati in inglese, e il gioco è stato quello di mediare tra la musica e la mia lingua che è molto ricca ma con strutture molto diverse da quelle dell’inglese. Mai come in questo caso ho cercato di ignorare il giudizio esterno, quello che il pubblico voleva da me. Ho cercato di pulire tutto ciò che mi avrebbe impedito di essere sincera, eliminando ogni pudore.

È la prima volta che ti concedi così tanto spazio per lavorare a un disco?
Sì, è stato un elemento nuovo per me. Raramente si ha il tempo di lasciar sedimentare le cose e riprenderle in un secondo momento. Invece sarebbe bene poterlo fare, perché riguardare ciò che si è fatto con uno sguardo più fresco ti aiuta a centrare meglio il punto, limare ciò che non serve, e magari ti stupisci anche di aver fatto cose che non ricordavi. Sono sempre arrivata alla chiusura di un disco correndo, invece questa volta ho voluto evitare quella brutta sensazione di riascoltare le canzoni e pensare che forse avrei potuto fare di meglio.

Hai scartato tanto materiale?
Sì, ma non vado mai a riprenderlo, perché penso sempre che siano cose legate a quel momento e che non debbano tornare. Il passato è passato, mi dico sempre. È importante il momento in cui una canzone esce, ed è importante il momento in cui una canzone viene scritta: a volte succede che un bel disco va male semplicemente perché esce nel momento sbagliato. Non penso di avere nei cassetti un tesoro di gioielli da riscoprire, anche se forse ogni tanto farei bene a riascoltare le cose mai uscite…

Posso farcela e Non fa niente sono due brani di cui sei autrice sia della musica che dei testi: ne avevi altri che hai lasciato da parte?
Paradossalmente, essere autrice di musica e parole è stato più semplice che realizzare un brano insieme ad altri, perché ho io tutto il controllo. I testi dell’album sono comunque quasi tutti miei e ogni canzone che scelgo di interpretare la sento mia. Sì, avevo altri brani completamente scritti da me, ma non ho sentito l’esigenza di inserirli nell’album, anche perché di solito non riesco a vederci la componente commerciabile, non li vedo come potenziali singoli. Per me sono semplicemente canzoni che dovevano stare nel disco ma come una sorta di spazio mio. Non fa niente non volevo nemmeno inserirla.
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Qua e là nell’album parli di gente che giudica, gente che si erge a maestra di vita, ma dall’altra parte si sente una volontà di ritornare alla centralità del singolo individuo. Da dove arriva questa esigenza?
Noi siamo parte di in tutto, sopratutto in questo tempo: se c’è un evento angosciante, tutti siamo angosciati. Ma questa unità troppo spesso la usiamo per farci del male. Dovremmo però pensare che alla fine si parte e si ritorna sempre a sé, si parte verso l’universale, ma poi tutto torna a noi, e se riusciamo a portare anche solo un piccolo cambiamento nella nostra vita, questo risuona come un’onda, anche se non sembra, anche se nessuno ti vede e ti dice “bravo”.

È una consapevolezza nuova?
L’ho sempre avuta, ma adesso ci credo più di prima: la mia fiducia nell’essere umano rimane intatta, sono sicura che insieme possiamo fare tanto. Finora abbiamo fatto un gran casino, è evidente, ma chissà che non sia possibile dare una sterzata sul finale, usare un po’ più l’anima e meno la parte mentale. Il nostro destino non è il mondo: passiamo da qui, ma molto probabilmente siamo destinati altrove e quello che resta siamo solo noi, la nostra interiorità. Purtroppo è un lavoro interiore che nessuno ci insegna a fare, non ne abbiamo il tempo, i piccoli e grandi problemi quotidiani ci portano a pensare ad altro.

Recentemente è emersa sui giornali una tua presunta polemica sul movimento femminista: potresti spiegare meglio?
Quell’intervista (pubblicata sul settimanale Io donna del 22 ottobre, ndr) è il frutto di un discorso molto ampio che poi è stato sintetizzato per poter essere pubblicato. Si partiva dalla considerazione che, a parità di condizioni, una donna deve lavorare il doppio per guadagnarsi credibilità e che mentre l’uomo fraternizza subito, la donna teme l’arrivo di un’altra donna, la vede come una minaccia al suo territorio. È una situazione che dura da millenni, ormai è un’impalcatura culturale. Le donne vengono limitate nei loro poteri e si fa di tutto per tenerle separate, mentre invece la solidarietà femminile è un elemento a cui tengo molto, sono cresciuta in una famiglia che esalta la donna, mia madre mi faceva leggere libri di donne impegnate per l’emancipazione femminile. Con le mie colleghe siamo riuscite a organizzare Amiche per l’Abruzzo, adesso capita che ci sentiamo, ci confrontiamo sul nostro lavoro, ma sono conquiste recenti. Nell’intervista si parlava anche di alcuni lavori del passato che sono stati supportati poco: ma chi se ne frega, eravamo tutti più giovani, mossi da altre logiche.

È come mai allora nell’album non ci sono duetti con altre donne?
In Senza paura ho duettato con Alicia Keys, e ho fatto duetti anche con Gianna Nannini, Elisa, Laura Pausini. Non è stata una scelta quella di non inserire duetti, semplicemente le idee che giravano nell’aria non si sono concretizzate per varie ragioni. Però finalmente ho potuto collaborare con Pacifico, con cui erano anni che volevo lavorare.
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Suoni internazionali, duetti internazionali, brani proposti in inglese: davvero nessuna intenzione di guardare all’estero?
Io non prendo l’aereo! (ride, ndr) In realtà avrei dovuto lavorare all’estero vent’anni fa, solo che prima non mi sentivo pronta io, poi quando me la sarei sentita non ho avuto il supporto della casa discografica. Adesso però con Internet tutto è più vicino: ho saputo che il video di Oronero è stato in rotazione di VH1 in America, mi arrivano segnalazioni di apprezzamenti dall’estero e ho scoperto anche che Quincy Jones mi segue su Twitter, e io no! Michele Canova mi invita sempre a Los Angeles a suonare con i suoi musicisti: mi piacerebbe, perché ormai a questa età non ho più tante ambizioni di notorietà, mentre sono molto più interessata a sperimentare quel tipo di attività live nei club che c’è in America.

Che ruolo ha avuto Emanuel Lo in questo disco?
È stato molto bravo a interpretare certe sensazioni, certi miei pensieri, ma probabilmente neanche lui se ne rende conto, gli arriva solo questa ispirazione e la riporta nelle parole delle canzoni (ride, ndr). Ci siamo confrontati molto e comunque mi sono presa degli spazi per lavorare da sola.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Ribellione è la capacità di non cedere al favore dell’esterno. Ribellione è coerenza e l’opposto di vanità e narcisismo. Un tempo essere ribelli voleva dire trasgredire, andare contro le regole, oggi invece sembra che il male sia un valore e il bene sia da sfigati. Ribellione è recuperare il bene, credere nel bene, non avere paura di essere buoni.

E mentre lo dice, il suo volto si apre in uno dei sorrisi più luminosi che abbia mai visto.

BITS-RECE: Maurizio Chi, Due. L’amore è un numero

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Lo ha intitolato Due, non però perché questo sia il suo secondo album.

Dopo alcuni singoli pubblicati negli ultimi due anni, per Maurizio Chi questo è infatti il vero debutto discografico.

Quel “due” ha un significato molto più profondo: due è infatti il numero della coppia, il numero minimo della condivisione di una vita.
Una vita di una coppia formata da un lui e un altro lui. Maurizio hai infatti costruito la sua prima opera discografica attorno alla sua diretta esperienza, arrivando a compiere un’operazione che pochissimi prima di lui avevano sperimentato. Non una singola canzone sull’amore omosessuale, ma un intero album.
Il punto è che questo giovane artista è stato in grado di andare anche oltre: fate una rapida panoramica di quanti, soprattutto negli ultimi anni, hanno voluto mettere in musica una storia omosessuali. Tanti, tantissimi. E, siamo sinceri, in quanti di questi inni alla libertà e alla “tolleranza” non si annida almeno un filo di retorica e compatimento?

Non però in queste dieci canzoni. In Due non si trova niente di retorico, nessun buonismo, nessuna pretesa di “accettazione” o rompere qualche tabù. Con uno sguardo di lucida sensibilità, Maurizio Chi racconta prima di tutto la vita di una coppia, mettendoci dentro un colorato bouquet di dettagli quotidiani che vanno dai dubbi e le insicurezze (Fuggiamo l’amore), ai momenti di intimità, fino a dichiarazioni d’amore di rara poesia.
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La traccia di apertura, che dà il titolo all’album, è una nuda e sincera ammissione di paura di annullarsi totalmente per l’altro (“Dimmi se esisto anche io o siamo sempre in due”), mentre Dopo mille favole è una caustica stoccata agli amanti del passato, quasi uno stornello di ironia salatissima (“Chi legge è coglione”).
Ma c’è spazio anche il dialetto siciliano di A comu je gghiè con le sue limpide note mediterranee.
I diamanti di Due arrivano comunque sul finale, prima con Malintenti, primo singolo del progetto, una delicatissima ode all’amato, tessuta con la sensibilità di un’anima che sa muoversi in punta di piedi. Una sorta di moderna romanza. E poi Occhi al mare, felice metafora sulle tempeste che ogni esperienza di vita insieme può incontrare durante il viaggio.

Due è un esempio perfetto di come il linguaggio dell’amore sia davvero universale e non conosca limiti o barriere di sesso, genere, distanza o altre impalcature culturali e mentali.
Maurizio non si nasconde dietro a un detto-non-detto: lui dice tutto, lasciando al solo pronome maschile presente nei testi il compito di lasciar capire, senza urlare.
Per il resto, questo è un disco che parla di due vite che si sono intrecciate e procedono accanto ogni singolo giorno, con tutte le loro imperfezioni.

Prima che essere gay, etero o bisex o qualsiasi altro cosa, noi siamo persone, ognuna con la propria identità. Anche se tropo spesso c’è ne dimentichiamo.

PS: Maurizio Chi ha vinto l’edizione 2016 del concorso Genova x Voi, una vittoria che gli dà la possibilità di entrare nella grande famiglia Universal in qualità di autore. Fossi in voi, lo terrei d’occhio… 

#MUSICANUOVA: Aftehours, Se io fossi il giudice

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“C’è una parte di subconscio nello scrivere che sfiora il sovrannaturale. Mi è capitato, in passato, di descrivere nelle canzoni situazioni totalmente inventate che poi ho vissuto davvero, esattamente come le avevo descritte. Ho scritto questo pezzo quasi due anni fa, ben prima che mi chiedessero di partecipare ad X Factor. Non parla dei talent, naturalmente (!), ma è uno dei tanti “segni” che in questo periodo mi stanno indicando la strada per poter cambiare una vita che non mi piaceva più. L’ho scritto quando è mancato mio padre. E’ un pezzo che parla di voglia di rinascere, cancellando l’idea che gli altri hanno di me ma soprattutto l’idea che ho io di me stesso. Dove la cosa più importante non è raggiungere una meta ma vivere. Liberi da tutto quello che ci impedisce di dirci la verità.”

Così Manuel Agnelli presenta il nuovo singolo dei suoi AfterhoursSe io fossi il giudice, terzo estratto da Folfiri o Folfox.

L’11 novembre il nuovo album di Tricarico

Da chi non te lo aspetti è un mantra, uno stargate, un portale, un concept album. Il filo portante che unisce tutti i brani e ogni canzone è un’emozione, un’immaginazione, un’idea, un divertimento, un percorso per ritornare a se stessi, per recuperare il proprio sogno, la propria armonia rispetto al mondo; ma, come per uscire da un labirinto, uscire dalla razionalità e dalla logica per tornare alla sorgente non sarà facile. Da chi non te l’aspetti è la chiave di volta e la chiave di volta sei tu (un tu che vale per ognuno di noi)”.
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Arriverà l’11 novembre Da chi non te lo aspetti, il nuovo lavoro di Francesco Tricarico.

L’uscita del disco viene anticipata il 4 novembre dal primo singolo Una cantante di musica leggera, in duetto con Arisa.
Il nuovo album giunge a distanza di tre anni da Invulnerabile: in questo lasso di tempo Francesco ha suonato in giro per l’Italia, è andato in scena a Milano e Roma con lo spettacolo teatrale Solo per pistola e ha proseguito il lavoro con i suoi quadri.
Il disco contiene undici canzoni inedite, undici storie raccontate con la musicalità a cui Tricarico ci ha abituati in questi anni e la costruzione di un pop d’autore delicato e sensibile.
Oltre a Arisa, nel disco saranno ospiti anche Ale e Franz in Brillerà.

Musica ed arte sono, per Tricarico, due mondi complementari. Il legame tra la sua musica e le sue opere è molto stretto, e rappresenta la ricerca di un posto nel mondo e di un mezzo per comunicare con gli altri. A marzo 2016, presso il Jamaica di Milano, è stata realizzata una sua mostra dal titolo “Da chi non te lo aspetti” con l’ultima sua produzione, sia su tela che su carta.
La mostra ha ispirato Francesco nella creazione del brano omonimo che dà il titolo al nuovo disco e che vede, come co-autore, Giancarlo Pedrazzini, direttore della galleria Fabbrica Eos che espone le opere di Tricarico.
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Questa la tracklist:
Sos Oliva
Paradiso
Una cantante di musica leggera feat. Arisa
La bolla
Un amore Nuovo
Il motivetto
Brillerà feat. Ale e Franz
Stagioni
Da chi non te lo aspetti
Ciao
Volo

BITS-CHAT: “Non è sempre colpa della musica”. Quattro chiacchiere con… i Gemelli DiVersi

Li avevamo lasciati nel 2012 in quattro con l’album Tutto da capo, li ritroviamo in oggi in due con il nuovo Uppercut. In mezzo, un’attività live che non si è mai fermata… e qualche colpo ricevuto.

Proprio da questi “colpi” incassati, i Gemelli DiVersi hanno preso spunto per il titolo del loro ultimo album, il settimo di una carriera partita 18 anni fa, quando l’invasione hip hop non si era ancora affacciata sulle classifiche e in Italia i rapper “famosi” si contavano sulle dita delle mani.
Nel linguaggio della boxe, l’uppercut è quel colpo che il pugile sferra dall’alto verso il basso, spesso come mossa finale per mettere al tappeto l’avversario.
Ma loro, che hanno la pellaccia dura, sanno bene che per quante volte puoi cadere, nulla sarà più importante di come ti rialzerai. Nella vita e nella musica.
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Tornate dopo più di tre anni con un nuovo album: cosa avete raccolto all’interno?

Thema: In Uppercut c’è un po’ tutto quello che siamo stati in questi anni, dagli inizi fino ad oggi, senza però ricalcare in tutto il passato. Ci sono tanti richiami alla nostra storia, ma questo disco segna anche una nuova ripartenza, con nuovi elementi nella musica e nei testi. Ci sono canzoni d’amore, canzoni che parlano di noi, ma fondamentalmente è un album positivo: già con il titolo, che richiama un colpo della boxe, abbiamo voluto far riferimento ai colpi che puoi ricevere dalla vita, ma dai quali devi sempre riprenderti. In questo caso non siamo noi ad averlo dato, ma è un colpo che abbiamo ricevuto, come il pugile della copertina: ci siamo rimessi in gioco, trovando la spinta grazie ai nostri fan e alla passione per la musica.

E’ evidente che in questi tre anni ci sono stati dei cambiamenti: vi ricordavo in quattro e vi ritrovo in due…
Strano: Dopo 18 anni insieme, due di noi, Grido e THG, hanno deciso di intraprendere nuovi percorsi. È legittimo: come succede nelle relazioni, si può andare avanti, ma si possono fare anche scelte diverse, e noi ne abbiamo preso atto. Ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo continuato a fare musica come Gemelli DiVersi, perché in realtà il gruppo non si è mai sciolto. Abbiamo cercato di non tradire quello che siamo stati.
T: Nell’album ci sono tanti riferimenti anche a quello che è successo nella band, il “colpo” che abbiamo ricevuto è legato anche a questo. Ovviamente all’inizio sei destabilizzato, ma poi devi ritrovare la speranza.
S: Dopo tutto, la storia della musica è piena di band partite con una formazione e che poi hanno subito defezioni, succede. È una delle sfide che ti si pongono davanti, e noi l’abbiamo accettata.
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In questo periodo anche la musica in Italia è cambiata molto, con l’esplosione dell’hip hip: come l’avete vissuta?
S: L’abbiamo guardata dall’esterno e abbiamo notato che rispetto all’hip hip di qualche anno fa, adesso le canzoni hanno le strofe rap ma il ritornello cantato. Noi però l’avevamo già fatto alla fine degli anni Novanta, e ci sono arrivate addosso le critiche degli addetti ai lavori e della frangia più estremista del mondo hip hip. Adesso quasi tutti usano la melodia per arrivare al pubblico più ampio: possiamo dire di essere stati legittimati? A noi non può fare che piacere sapere che ci sono molti rapper della nuova generazione che dicono di essere cresciuti ascoltando noi, ma succede adesso, prima nessuno lo diceva. Sarà che mi è venuta la barba grigia, ma mi sento un uomo soddisfatto e cresciuto.
T: Va anche detto che noi non ci siamo mai sentiti pienamente parte della scena hip hop, siamo sempre rimasti sul confine, un po’ borderline se vogliamo. Abbiamo iniziato riprendendo un pezzo dei Pooh (il ritornello di Un attimo ancora, il loro singolo d’esordo, riprendeva Dammi solo un minuto, ndr), più pop di così! Abbiamo sempre fatto le scelte da soli, e oggi dà soddisfazione vedere che anche gli addetti ai lavori vanno più a fondo nella nostra musica, riescono a vedere i contenuti e non solo l’apparenza di una band di tamarri come accadeva anni fa. Purtroppo il rap soffre di tanti preconcetti, tra cui quello di essere un sottogenere fatto solo di mosse sul palco: siamo rimasti fermi al cliché di Jovanotti con il cappellino che fai gesti con le mani. Lui in Italia è stato un precursore, ma dietro al rap c’è molto di più. Non ci è mai interessato buttare nei pezzi degli skills per far vedere quanto eravamo bravi con le rime, ma abbiamo cercato di dare sempre dei contenuti.
S: Il rap è diventato cultura negli Stati Uniti già negli anni Ottanta, perché li c’era già la base: qui da noi i pionieri sono stati Jovanotti e gli Articolo 31, ma negli anni Novanta non avevamo ancora la subcultura dell’hip hop, ci sono volute due generazioni.

Tra i cliché legati al mondo del rap c’è forse anche quello di essere un genere che parla di violenza…
S: Proprio qualche giorno fa ho sentito della polemica contro Emis Killa per il testo che inciterebbe al femminicidio (3 messaggi in segreteria, ndr): non ho ascoltato il brano, forse lui avrà usato un linguaggio crudo, ma sono sicurissimo che l’intento non fosse quello di legittimare la violenza. Non è sempre colpa della musica, molto spesso il problema sta nelle interpretazioni sbagliate: un artista deve sempre stare attento a quello che scrive, perché le canzoni arrivano anche a persone che non hanno abbastanza sensibilità per cogliere tutti i significati, ma non si può dare alla musica responsabilità che non ha. Allora noi con Mary avremmo legittimato la violenza dei genitori sui figli?
T: È lo stesso discorso che si faceva anni fa con Marilyn Manson: nelle stragi che si verificavano nei college americani, si diceva che era colpa della musica che ascoltavano gli studenti, e in mezzo ci finivano sempre le canzoni di Manson. La colpa non è degli artisti, ma di chi vuole trovare un pretesto per sollevare la polemica. Sono convinto che ci sia bisogno d tutto, anche di artisti che usano parole forti e che hanno il coraggio di affrontare un certo tipo di argomenti.
S: È questo il vantaggio della democrazia, dare a ognuno la libertà di parola, invece oggi sembra che tutto deve essere criticato e messo in discussione. Qualunque cosa tu dica o faccia, arriva qualcuno che trova da dire, che si tratti di una presunta legittimazione al femminicidio piuttosto che il fatto di mangiare carne.

Siete d’accordo con chi dice che oggi i rapper sono i nuovi cantautori?
T: È un complimento! I veri cantautori sono quelli che negli anni Settanta hanno avuto la possibilità di esprimere le proprie idee, e sono d’accordo sul fatto che alcuni rapper possono essere avvicinati ai cantautori per il loro impegno nel manifestare il loro pensiero, anche se i veri cantautori restano gli intoccabili De Gregori, Guccini, Dalla…
S: Forse più che di cantautori sarebbe giusto parlare di cantastorie, perché portano avanti la pratica del cosiddetto storytelling. Ci sono alcuni nomi della nuova scena rap che lo stanno facendo bene, e penso a Ghali o a Sfera Ebbasta, che portano nella musica molto del loro vissuto. Un’aria nuova che può che fare bene a tutta la scena hip hop.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato ha per voi il termine “ribellione”?
S:
Oggi la ribellione è semplicemente riuscire a esprimere il proprio parere, in un mondo in cui tutti cercano di imbavagliarci, le guerre si rivestono di ragioni economiche, il popolo è messo in ginocchio dai poteri forti. L’unico potere che ha il popolo è quello della parola, visto che anche quello del voto non sembra più così forte.

InStore:
26 ottobre, Roma, Discoteca Laziale, va Giolitti 263
27 ottobre, Milano, Mondadori, via Marghera

BITS-CHAT: “Qualcuno torna sempre”. Quattro chiacchiere con… Niccolò Agliardi

Tutto parte da una vicenda realmente accaduta nel 2001, un fatto di cronaca vero, ma talmente surreale da sembrar uscito da un romanzo: lo strano naufragio di una nave in avaria porta sulle spiagge di Sao Miguel, alle Azzorre, un carico di 540 kg di cocaina salpato dal Venezuela e destinato alle Canarie. Le conseguenze per i giovani di Sao Miguel sono devastanti, e ancora oggi se ne vedono gli strascichi.
Proprio alle Azzorre Pietro, il
trentaduenne milanese protagonista di Ti devo un ritorno, scappa subito dopo la morte del padre e incontra il giovane Vasco. Da lì prende avvio la storia, con tutto ciò che deve succedere.

Così Niccolò Agliardi ha dato vita alla sua prima prova da autore di romanzo, intrecciando con disinvoltura realtà, finzione e “vita”. Lui che ha firmato canzoni celeberrime per Laura Pausini, Emma ed Emis Killa (giusto per fare un paio di esempi, ma la lista sarebbe lunghissima), adesso si è messo in gioco sul racconto lungo.
Il risultato è Ti devo un ritorno*.

Contemporaneamente, Agliardi non ha tralasciato la musica, facendosi nuovamente autore della colonna sonora di Braccaletti rossi, la fiction di Ra1 giunta quest’anno alla terza stagione.
Un’esperienza che per il cantautore è andata in questi anni ben al di là del semplice lavoro…

Romanzo
Come ti è venuta l’idea di partire da quel caso di cronaca e costruirci sopra un romanzo?

Avevo la sensazione di essere stato solo ascoltatore di questa storia bellissima che mi ha raccontato il mio amico Giovanni Gastel. Era una storia geniale, ma non sapevo come maneggiarla e per un po’ di anni l’ho lasciata ferma. Poi mi è arrivata la proposta di dar vita a un racconto e mi è tornata in mente: ho provato a scriverla, ma non funzionava. Aveva spunti interessanti, ma il testo non girava come volevo e avevo addirittura pensato di lasciar perdere, fino a quando mi sono ricordato di una mia compagna di Università, Maria Cristina Olati, che sapevo essere diventata un’ottima editor: l’ho contattata e prima ancora di conoscere la storia su cui volevo lavorare, mi ha chiesto di raccontarle un po’ di me, di quello che avevo fatto in questi anni. E come potevo non raccontare anche di Braccialetti rossi? A quel punto è stata lei che mi ha costruito sotto gli occhi la storia del romanzo, intrecciando elementi diversi, e ho capito che un libro così io lo avrei voluto leggere. A quel punto si è trattato di scriverlo, e non è stato come dirlo: ho dovuto mettere molto rigore, per la parte giornalistica mi sono affidato ad Andrea Amato che ha regimentato i dati reali, poi io ci ho messo dentro un po’ di vita, di mestiere, e anche di musica. È libro musicale questo, suona bene mentre lo si legge, ed è sicuramente la cosa più bella che ho fatto, figlia di tante esperienze.

Come ti sei trovato ad approcciarti alla scrittura di un romanzo rispetto alla creazione di una canzone?
E’ stato totalmente diverso: in una canzone devi dire tutto in tre minuti e mezzo, in un romanzo devi diluire una sola storia in più di duecento pagine, con la paura di non avere nulla da dire. Ho passato intere giornate senza riuscire a scrivere nulla, e ho dovuto accettare la sconfitta di quei giorni vuoti. Con le canzoni non mi è mai successo, non mi sono mai sentito inadeguato verso una canzone, o almeno non più da molti anni, con il romanzo il senso di inadeguatezza l’ho avvertito.

I personaggi come sono stati costruiti?
Pietro parla come me, anche se è più piccolino, Vasco ha tanto del Brando di Braccialetti rossi, c’è tutta la sua romanità nelle battute, la passione per il surf. Ho attinto da quello che vedevo intorno.

Mi ha colpito molto una delle dediche del libro, “A chi pensava di farcela”…
Non tutti ce la fanno, e vale la pena ricordarsi anche di loro. Non si parla necessariamente di morte: più semplicemente, nei grandi slanci che la vita ci obbliga a fare, qualcuno riesce a decollare, qualcun altro rimane a terra, ma hanno tutti la stessa dignità. Nel libro c’è qualcuno che non ce l’ha fatta.
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“So bene che scappare è da vigliacchi, ma qualche volta ti salva la vita”: nel romanzo questa frase ha un significato ben preciso, ma anche per te è così?
Io non sono mai scappato dalle cose importanti, non mi è mai capitata la fuga. Nel libro faccio fuggire Pietro, ma la fuga avviene all’inizio, poi il suo personaggio sa bene dove stare. È molto più difficile restare, ma è fondamentale: le grandi relazioni della mia vita, gli amori, le amicizie, sono quelle che ho costruito scegliendo di restare e dove anche l’altra persona ha scelto di restare, anche se era più difficile.

“Non credo di essere destinato alla felicità”, dichiara un altro personaggio, Niccolò, ma per te la felicità esiste?
Certo! Non è uno dei sentimenti che maneggio più facilmente e forse non dura molto, ma esiste e la possiamo raggiungere. Per Braccialetti rossi ho scritto una canzone che si intitola La tua felicità, in cui parlo di quando si è felici per la felicità degli altri. Non saprei come definire altrimenti quella sensazione che provo nel vedere felici certe persone a cui sono legato.

Che differenza c’è tra senso e ragione delle cose?
Qui a parlare nel libro è Cristina, la madre di Vasco. La ragione è filtrata dall’intelletto, la si può analizzare, il senso invece è pancia, non è spiegabile. Sono entrambi importanti, ma forse nella vita il senso la vince un po’ di più.

Sei davvero convinto che, come scrivi, se ti fermi ci sarà sempre qualcuno che prima o poi passerà a riprenderti?
Penso di sì, se lasci del bene qualcuno che ripasserà ci sarà sempre. Certo, può anche non succedere, ma devi proprio essere stato uno stronzo!

Tu sei mai ripassato a riprendere qualcuno?
Tantissime volte.
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Gli inediti della nuova colonna sonora di Braccialetti rossi quando sono stati scritti?
Si sono molto diluiti nel tempo: ho iniziato a scrivere con Edwin un paio di anni fa, al termine della seconda stagione. Ci abbiamo lavorato tanto nell’estate del 2015, mentre negli ultimi mesi abbiamo chiuso Ti sembra poco, il brano che fa da traino all’album insieme a Simili di Laura Pausini e che incarna un po’ l’ultima serie.

Sono passati ormai più di tre anni da quando hai iniziato a occuparti di Braccialetti rossi: cosa ha significato per te far parte di questo progetto?
Ho guadagnato una famiglia. Non c’è un giorno in cui non sento almeno alcuni dei ragazzi, vivo con loro le gioie e le crisi quotidiane, loro sanno tutto di me. Mi fanno sentire la loro vicinanza.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato ha per te il termine “ribellione”?
Rendersi adatti a qualcosa di inadatto.

*Non sarà certo un caso che, scorrendo le canzoni dell’ultimo album di Laura Pausini, in Chiedilo al cielo, firmata da Agliardi, vengano pronunciate proprio queste parole…

#MUSICANUOVA: CNST, La morte avrà i tuoi occhi

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“Le donne aspettavano al porto l’arrivo dei loro uomini”.

Il mare entra in scena da protagonista. Un mare che dà sostegno e speranza, ma che allo stesso tempo, è un mostro antropofago che ruba la vita a marinai e pescatori. La battaglia dell’uomo nei confronti della natura, l’onnipotenza umana presunta stroncata dalla furia degli dei. Una vecchia storia, vecchia come il mondo che ricorda altre storie.

Un mare nero in piena tempesta, un cielo plumbeo minaccioso: è tutto La morte avrà i tuoi occhi, primo singolo che dà il titolo al nuovo album dei CieliNeriSopraTorino.

I CNST (CieliNeriSopraTorino) nascono agli inizi del 2010 da un idea di Mauro Caviglia (voce e chitarra) e Giampiero Morfino (batteria) dalle ceneri dei Sanlait, gruppo dal sapore elettrico settanta e novanta. Sempre su questa linea sonora che accompagna testi cantati in italiano, iniziano a comporre brani originali, suonando nei locali della zona. Partecipano a vari concorsi sul territorio nazionale aggiudicandosi alcuni premi con il brano “La morte avrò i tuoi occhi” nel 2013, e con “Pensiero Mattutino” l’anno successivo. Dopo vari cambi di formazione, alla fine del 2014, con l’entrata nella band di Gianluca Vaccarino alla chitarra e Federico Sannazzaro al basso, il gruppo trova il giusto equilibrio.