BITS-RECE: Be A Bear, Time EP. Elettronica per stare bene

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Dietro al progetto Be A Bear si nasconde Filippo Zironi, “orso bolognese nato e cresciuto per 15 anni nello sia-punk firmato Le Braghe Corte”, come recita il comunicato stampa.
Quest’orso bolognese l’anno scorso ha portato a compimento un progetto assolutamente personale, coraggioso e, di conseguenza, molto interessante. In pratica, per circa due anni ha messo on line una canzone al mese: brani dalla natura semplice, che mettevano al centro racconti di vita quotidiana letti attraverso la lente di un pop a braccetto dell’elettronica e con una certa vecchia scuola del rock. Il tutto portato avanti con pochissimi mezzi tecnologici: un iPhone e poco più.
Un percorso lento, che durante le sue tappe ha mostrato cambiamenti ed evoluzioni, e che lo scorso hanno si è strutturato in Push-a-Bah, il primo album firmato Be A Bear.
A neanche un anno di distanza, l’orso Filippo ha deciso di dare spazio ad alcuni brani che non lo avevano trovato prima dell’arrivo dell’album: ecco quindi Time, un EP di quattro tracce – tre inedite più il brano omonimo già nell’album – che ondeggiano nelle acque serene di un’elettronica pensata per star bene e far star bene.
Quattro brani leggeri come queste giornate di fine inverno, con tanta bella melodia in primo piano e qualche voce lasciata sullo sfondo e qualche rumore di vita qua e là.
Una buona dose di vitamine sonore.
Time EP è disponibile per lo streaming e il download a questo link.

BITS-RECE: Le luci della centrale elettrica, Terra. Gioie e tragedie dell'etnia italica

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Ho iniziato a seguire Le luci della centrale elettrica nel 2014, con l’uscita di Costellazioni: fino a quel momento, il progetto di Vasco Brondi era per me poco più di un nome, nonostante fossero sempre di più le persone che ne parlavano, quasi sempre con tono entusiastico.
Poi è arrivato I destini generali, primo singolo di Costellazioni, e anche per me è scattata l’infatuazione: sono rimasto affascinato da quella musica leggera, quelle atmosfere lunari, legare a testi limpidi e senza ornamenti di troppo, prova di un nuovo cantautorato italiano che stava prendendo una strada tutta sua.
Tre anni dopo, Brondi torna con un lavoro nuovo, e se con l’altro album guardava al cielo, qui guarda alla Terra, al punto che proprio così lo ha intitolato. Un disco “etnico”, secondo le parole del suo autore, che mette al centro la nuova etnia italiana, fatta al suo interno di numerose subetnie diverse. Fin troppo semplice capire cosa intenda Brondi, e naturale che tutto questo si rifletta musicalmente con la presenza qua e là di echi balcanici e tamburi africani, seduzioni arabe e memorie popolari.
Lo dico subito: rispetto a Costellazioni, qui non ho ritrovato la stessa magia, la stessa forza compositiva che mi aveva così affascinato. Eppure Terra è un disco altrettanto traboccante di poesia.
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Quello che dà anima a questo album più che le strutture sonore sono i suoi testi.
Vasco Brondi è davvero una penna aurea del nostro tempo, e lo è perché ha la capacità di raccontare gioie e piccole e grandi tragedie umane sublimandole, sollevandole e ripulendole dal fango, ma senza impoverirle di nessun dettaglio. Bellezza, tristezza, orrore, frustrazione, amore, tutto si trasfigura. Ecco che allora nei nuovi brani ci sono il terrorismo e la paura degli attentati in Coprifuoco (sempre assaliti dai pensieri / su questo pianeta chiamato Terra / anche se come noi è quasi soltanto acqua / come noi tra un amore e una guerra), c’è un quadro di realismo quotidiano in Nel profondo Veneto, tra vita di provincia e illusioni della grande metropoli, c’è – e come poteva non esserci – un ritratto impietoso della nostra vita social in Iperconnessi (cantami o diva l’ira della rete / imprevedibile come le onde / cantami della fame di attenzione della sete / di ogni idea che si diffonde / cantami o diva dello sciame digitale / l’ironia sta diventando una piaga sociale / cantami dell’immagine ideale / da qualche parte c’è ancora sporchissimo reale), e c’è la poesia nella sua veste più semplice, come in Stelle marine (l’acqua si impara dalla sete / la terra dagli oceani attraversati / la pace dai racconti di battaglia).
Quello che non c’è, per fortuna, è l’intenzione di dare risposte o soluzioni, così come la tentazione di sfilarsi dalle comuni miserie.

Insieme al disco anche La grandiosa autostrada dei ripensamenti, un diario che ne racconta la lavorazione, tra autostrade, isole, montagne e seminterrati.

BITS-RECE: Tokio Hotel, Dream Machine. Vuoto elettronico

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Sono tornati con un nuovo album dopo tre anni e si sono buttati a capofitto nell’elettronica.
Sono proprio lontani i tempi in cui i Tokio Hotel sconvolgevano gli adolescenti con il loro stile emo e il carisma decisamente ambiguo del loro leader, Bill Kaulitz. Oggi, esattamente 10 anni dopo, i ragazzi sono diventati degli ometti – lo si vede già dalle nuove foto: i visi puliti sono increspati di barbe e piercing, le voci efebiche si sono ispessite, sono spuntati i muscoli e ogni traccia di rimmel e fondotinta se n’è andata(già da tempo, a dire il vero). E con loro se n’è andato anche quel filo di sale che portava corrente all’anima del gruppo.
Sì, ogni tanto, sopratutto nei video, qualche provocazione l’hanno buttata lì (vedi Feel It All, dall’album precedente), ma erano appunto spunti visivi, non musicali.
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Peccato. Da allora di musica ne è passata un po’ sotto i ponti, non sempre con gli stessi esiti, e questo nuovo ritorno che prende nome di Dream Machine sembra segnare un aridità di idee. Elettronica sfacciata e spudorata, tra fiumi di synth e montagne di vocoder, ma dietro a questo velo ad alto voltaggio non sembra esserci molto. Ci si poteva aspettare un sussulto di – non dico maturità – ma almeno di crescita, cosa che non si avverte. Tanto per dirne una, Something New sembra l’ennesimo singolo dei The  Chainsmokers, e neanche dei più belli.
E non c’è neppure un pezzo alla Monsoon o alla The World Behind My Wall, ma solo nuvole di zucchero filato passate in un bagno di elettroni. E si sa, le nuvole se ne vanno al primo colpo di vento. Il momento più interessante è con What If, guarda caso proprio il primo singolo.
L’adolescente che resta (neanche troppo) nascosto in me, un po’ piange. 

BITS-RECE: Francesca De Mori, Altre strade. Leggero come l'acqua

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Si presto a dire jazz. Si fa presto a dire contaminazione.
Ci sono casi in cui i confini dell’uno e dell’altra sono così labili, così fluidi che la musica scorre da sola, qualche volta restando in territorio puramente jazz, altre volte espandendosi all’esterno, per diventare quasi pop. Vecchio, e inutile discorso, quello delle etichette di genere, in cui però tendiamo a cadere ogni volta: la cosa migliore sarebbe sempre quella di lasciar fluire tutto, suoni e sensazioni, godendosi il momento.
Prendiamo per esempio Altre strade, nuovo lavoro di Francesca De Mori.
Otto tracce, di cui cinque inedite e tre reinterpretazioni: un disco in cui tutto suona estremamente leggero, diafano, e tutto brilla estremamente vivo. È evidente che alla sorgente ci sia il jazz, ma altrettanto evidenti sono gli innumerevoli sconfinamenti nella canzone d’autore e nel pop. Fosse anche solo per gli spunti.

Se posso osare, jazz nella forma, pop – nella sua più alta accezione –  nello spirito.
La scelta delle cover annovera infatti L’isola di Ornella Vanoni, A che servono gli dei di Rossana Casale e  E ti vengo a cercare di Battiato, quest’ultima particolarmente impreziosita all’inizio da un inserto di archi. Brani che non nascondono un gusto sofisticato, e che fanno incontrare sentieri raramente in contatto tra loro.
Tra gli inediti, a firma di Daniele Petrosillo, esercitano particolare fascino il pezzo d’apertura che dà titolo album, sospeso sulla serena ricerca del sogno, e il commovente Come l’acqua, dedicato alle “anime fragili”.

Tutto è stato pensato e realizzato in italiano con un moto di orgoglio, perché se è pur vero che il jazz parte molto lontano da qui, spesso nei musicisti di casa nostra c’è un po’ troppa sudditanza verso l’estero.
Un disco da lasciar scorrere senza troppi pensieri, in tutte le sue strade.

BITS-RECE: Roberto Cacciapaglia, Atlas. Un oceano di stelle

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Non conosco Roberto Cacciapaglia – personalmente intendo -, ma sono pronto a scommettere che abbia l’animo di un sognatore. Non si spiegherebbe altrimenti come possa un musicista, per quanto ispirato e talentuoso, portare avanti una carriera di oltre un ventennio mantenendo viva quella spinta verso l’alto, quella tensione a rompere i confini tra i generi, a far sconfinare il pianoforte nell’elettronica e nella sperimentazione.
Uno lo può fare una volta, due, ma già al terzo disco l’esperimento ti viene male se non ci credi davvero, e per crederci devi essere sul serio convinto nella forza suggestiva della musica, nella sua capacità do portarti lontano, oltre il tempo e lo spazio.
Ecco, in 22 anni la musica di Cacciapaglia questa forza non l’ha mai persa: ha continuato a volare altissima, libera e soprattutto non ha mai temuto di contaminarsi.
Lo si capisce bene se si fanno scorrere le 28 tracce di Atlas – La riscoperta del mondo, la raccolta che il maestro, dopo aver musicato gli spettacoli dell’Albero della Vita a EXPO 2015, ha da poco pubblicato e nella quale ha riassunto il meglio della sua attività. In aggiunta, due brani inediti (Reverse e Mirabilis) e un omaggio a Bowie con una rivisitazione di Starman.
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Un doppio album che è quasi inevitabile ascoltare pensando a un viaggio. Anzi, a una traversata sull’oceano a bordo di un vascello emerso dall’alba dei tempi. Un viaggio notturno tra flutti altissimi, talvolta minacciosi, mentre sopra di noi splende la più bella volta stellata che si sia mai vista.
La musica si fa tempesta, si fa tuono, si fa onda, il pianoforte è la spuma del mare, le percussioni il temporale, e poi ecco gli archi, le costellazioni. Si sovrappongono, si rincorrono, si condono, crescono e descrescono, il cuore si spaventa, si emoziona, si commuove, ma ecco che arriva la quiete e il viaggio riprende.
Sopraggiungono anche alcune sirene, con il loro canto immortale ed etereo, purissimo.
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Atlas è un’unione perfetta di sinfonia, sperimentazione e suggestione imaginifica, slegata da ogni dimensione. Brani come Wild Side, Lucid Dream, Mirabilis, Celestia e The Future sono veri e propri sussulti alle corde dell’anima, momenti di bellezza abbagliante e commovente.
Ci vuole coraggio a continuare a sognare, ma chi riesce a farlo stringe tra le mani uno dei doni più preziosi.

BITS-RECE: Charlotte Bridge, Charlotte Bridge EP

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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L’esordio di Charlotte Bridge porta dritti al centro di una nuvola, o al centro di una foresta immersa nella nebbia di un crepuscolo di novembre. Tutto è vago, indistinto, morbido, spesso malinconico nelle cinque tracce che danno vita all’omonimo primo EP di questa italiana trapiantata in Lussemburgo.
Il mondo di Charlotte – che all’anagrafe è Stefania – è ricoperto da un dreampop soave, in cui l’elettronica mostra il suo volto più dolce, arricchita qua e là da un po’ di folk.
Tutto è rarefatto, candido, onirico, come le luce del sole filtrata dalla foschia, i ritmi si fondono come gocce di pioggia sulle foglie, cadenzati come lampi apparsi all’orizzonte, mentre la voce racconta di voglia di cambiare, di felicità e abbattimento, e di una vita che non chiede altro di lanciarsi sull’infinito, fino all’incantevole conclusione di Deadline.
È tutto bellissimo.

#BITS-RECE: Franky Maze,Nght/Flood. Tra il blues e la Bibbia

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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In genere chi si muove nell’ambito gothic/dark tende a ripetere il medesimo standard fatto di testi tristi e decadenti, accompagnati da vestiti sonori oscuri, al punto che spesso la sensazione è quella di trovarsi immersi in un mare di cliché, uno schema portato avanti per inerzia, dove l’unica desolazione che si percepisce è quella creativa.
Poi capita che qualcuno trovi la via per proporre soluzioni nuove, combinazioni di stili inedite o almeno desuete, come questo Night/Flood, primo EP di Franky Maze, al secolo Francesco Mazzi, musicista bolognese che ha trovato un’interessante chiave per combinare il folk di matrice americana e il dark.
Due mondi apparentemente inconciliabili, che trovano nei suoi brani nuove, stimolanti suggestioni notturne.
Per simboleggiare questa unione, Maze ha preso l’ultima parola del primo e dell’ultimo brano – ciascuno rappresentativo di questi due mondi musicali – per formare il titolo, Night/Flood appunto. Un EP di cinque canzoni dense di citazioni bibliche e rimandi al blues delle origini, che guardano ad artisti come Nick Cave.
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L’apertura con Dark Was the Night, presenta per esempio le note luminose del mandolino, Great Sleeve rievoca un rituale sciamanico, Wayfaring Stranger è invece un brano tradizionale americano in versione rivisitata.
E per controbilanciare l’apertura luminosa del primo brano, il disco si chiude con Love Is the Flood, canzone dalle atmosfere decisamente dark.

BITS-RECE: The xx, I See You. Tra il metallo e il cristallo

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Si fa presto a parlare di indie rock, rock elettronico, indie electronic. Quando ti trovi davanti a un album come I See You dei The xx non che restare spiazzato è incantato, soprattutto perché questo terzo lavoro prende molta distanza – non solo temporale – dal precedente Coexist, uscito ben cinque anni fa.
Quando sono arrivati, della loro musica si diceva in giro che avesse suoni minimali, e lo si diceva così tanto che loro stessi, per diretta ammissione, hanno finito per crederci portando il concetto quasi all’esasperazione con il secondo album.
Con I See You però il passo cambia un po’, e le ambizioni si fanno sentire.
Dentro al nuovo album ci sono brani con percussioni è basso che fanno tremere la carne e le ossa, come Dangerous, messa in apertura, ci sono interventi brillanti come il singolo Say Something e A Violent Noise, momenti trasognanti come Lips, e poi il nocciolo dell’album, con la terna di Performance, Replica e Brave For You che ti lasciano lì imbambolato ad ascoltarle nel loro incanto su sfondi metallici e decori di cristallo.
Un incanto che dopo le nuove vibrazioni danzerecce di On Hold e I Dare You, si ritrova nella chiusura perfetta, epica e gelida di Test Me.
Non so se è più rock, più indie o più elettronico: di certo, I See You è gran bel disco.

BITS-RECE: Baustelle, L’amore e la violenza. Tra rose, cinismo e nostalgia

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Il mio amore per i Baustelle è scoppiato nell’autunno del 2005 con La malavita, il loro terzo album. Ero ai primi mesi di Università e in quelle canzoni ritrovavo un che di ribelle e peccaminoso che ben si addiceva alla nuova aria di libertà che stavo respirando dopo gli anni di liceo. Poi il mio sentimento si è consolidato con Amen, che resta per me il loro capolavoro, una perfetta unione di nostalgia melodica e poesia della parola.
Con i Mistici dell’Occidente li ho invece capiti un po’ meno, per tornare a “riconoscerli” nella sontuosità di Fantasma.

Ora il gruppo toscano torna con L’amore e la violenza, ed è un nuovo, incantevole capitolo della storia. Un album che comunque si distacca molto dal precedente, abbandonando la veste sinfonica, il pessimismo cosmico e i tratti quasi macabri dei testi: non c’è certo ottimismo, ma la punta della penna di Francesco Bianconi sembra essere stata bagnata da cinismo e ironia più che da disperazione.
L’occhio della band è sempre più che vigile sul presente – tra migranti, terrorismo e giubileo -, le citazioni sono sempre tante e sempre ben mescolate (scovarle può essere un giochetto divertente, ma personalmente non mi è mai interessato indagarle fino in fondo) e la bellezza della parola mantiene sempre l’innocente limpidezza che abbiamo imparato a conoscere ed apprezzare.
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I Baustelle sanno far incontrare e convivere sacro e profano, fede e agnosticismo, grazia e bruttura, impegno e disincanto, passione e castità, peccato e redenzione, filosofia e lascivia, Abba e Battiato, e in L’amore e la violenza c’è tutto quel loro essere così naturalmente dandy, retrò, ma senza ostentazione, il loro essere scenicamente tragici e nostalgici, mentre riescono a infilare nelle canzoni quei due o tre accordi che ti bombardano la testa e il cuore, da Il Vangelo di Giovanni, a Betty, la stupenda Amanda Lear, forse il singolo più “baustelliano” dai tempi di Le rane, e La vita.
Un disco “oscenamente pop” dicono loro, e possiamo anche condividere, se non fosse che – purtroppo – non sempre il pop sa essere così nobile.
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Le ultime righe le vorrei spendere per Francesco Bianconi, creatura di gusto e stile sopraffini, un Oscar Wilde dei nostri giorni, soprattutto un autore aureo della musica italiana. Uno che è capace di farti venire i lucciconi scrivendo anche solo di una serata in discoteca, per passare subito dopo a citarti D’Annunzio. Uno che dovrebbero inserire nel patrimonio Unesco, tanto la sua anima è preziosa.

Insomma, Baustelle, vi amo!

BITS-RECE: The Chainsmokers, Collage. Quando l'EDM diventa un gioco

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Non c’è dubbio che se andiamo a indagare i campioni del 2016 in campo musicale, Andrew Taggart e Alex Pall, meglio noti come The Chainsmokers, sono tra costoro. 
Dopo il grande botto con #SELFIE nel 2014, nell’anno che ci siamo appena lasciati alle spalle i due DJ hanno macinato successi su successi, monopolizzando a lungo i piani alti delle classifiche di mezzo mondo con la loro EDM allo zucchero. Una furba combinazione di dance e pop che ha dato vita a pezzi come Don’t Let Me Down e Closer, e che si ritrova anche negli altri tre brani dell’EP Collage ognuno accompagnato da rispettivo featuring femminile.
Una ricetta sonora lontana dal far assaporare qualche novità, e che appare soprattutto come il gioco innocente di due amici che nella loro cameretta si sono messi a pigiare i pulsanti dei synth. Un gioco che però sembra funzionare alla grandissima, almeno per ora, e nell’effimero mondo del pop questo basta e avanza.