BITS-RECE: Shady, Shady EP. Musica di traverso

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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In un’edizione di Amici che resterà nella memoria (se ci resterà) come una delle più stanche e sbiadite, la presenza di Shady dava una nota di smalto e personalità.
Quando l’ho sentita per la prima volta al serale, davo per scontato che avesse già in tasca l’accesso alla finale, ma così, sorprendentemente, non è stato, ed è superfluo dire che ci siamo tutti persi la possibilità di ascoltare qualcosa che andasse al di là dell’usurato pop con il faccino pulito.
Per fortuna, fuori da Canale 5 la ragazza ha potuto contare sul supporto Boosta, che da insegnante all’interno del programma si è poi fatto carico anche della produzione di questo primo, omonimo EP.
Quelli presenti nel suo esordio discografico sono sei pezzi che lambiscono il territorio pop, ma si muovono meglio sui sentieri dell’elettronica e di un certo future bass, tutta roba che comunque non guarda all’Italia, ma punta gli occhi all’estero.
Shady è una di quelle artiste che possono benissimo non piacere (io neppure ho capito se mi piace davvero o no, ma di certo mi affascina), ma hanno un qualcosa addosso, negli occhi, nella voce, nell’aura o chissà dove, che te li fa osservare. Uno di quegli artisti che si capisce che hanno tutta la voglia di costruirsi una personale struttura comunicativa, anche a costo di allontanarsi dalla più ovvia delle formule radiofoniche.
La prova Shady ce le offe in pezzi come Come Next To Me, Loubutin o ancora più lampante nella rilettura di Rolling In The Deep, pezzo assai fragile da toccare data la sua elevata popolarità. La ragazza lo ha preso e lo ha spogliato di (quasi) tutto, facendone qualcosa di assai diverso dalla macchina da guerra magiaclassifiche sfornata da Adele.
Shady
Shady ha una di quelle personalità che non amano troppo i rettilinei, ma preferiscono mettersi di traverso, in obliquo, storte, con melodie sghembe e sequenze ritmiche intermittenti. Non segue binari, preferisce piegarli e tagliare per vie differenti, dritte a una meta che ha ben chiara in testa.
Lontana dall’essere un’artista “arrivata”, nel prossimo futuro Shady ha la grande possibilità di farci ascoltare qualcosa di diverso, offrirci il suo mondo.
È sicuramente tra i concorrenti più atipici che abbiano messo piede nello studio di Amici e, almeno per ora, sembra non essersene fatta plagiare troppo. Va protetta, accudita e sorvegliata a vista, anche per non farla sparire nell’oblio.
Io, in lei, un po’ ci confido.

BITS-RECE: Christaux, Ecstasy. Tra inferno e paradiso

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Magniloquenza, dramma, desolazione, liturgia. Termini che possono forse suonare un po’ in contrasto e dissociati, ma che sono tutti necessari per descrivere Ecstasy, il primo lavoro di Christaux, ovvero Clod, ovvero una delle due metà degli Iori’s Eyes.
Tra il pop e un’elettronica memore degli anni ’80, il ragazzo propone un lavoro barocco, a tratti allucinato, che descrive con le melodie paesaggi tragici, malinconici, disperati.
Si respira un clima di riflessione solitaria, quasi una meditazione ascetica, una celebrazione profana e solenne.
Non è forse un caso la scelta del nome, così come quell’immagine di copertina in odore di santità e martirio.
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Il percorso interiore e sonoro delineato da Christaux parte da un capitolo maestoso come An Ode To The Beast, per poi sviscerarsi tra inni notturni e solitari, esalazioni musicali al benzoino e immersioni in acque torbide. Se Surreal tocca l’apice emozionale del disco, all’ipnotica e sulfurea Spazio HD spettano le uniche, visionarie liriche in lingua madre.
È l’estasi secondo Christaux, la sua via di liberazione.

BITS-RECE: Pumarosa, The Witch. Una benefica magia elettronica

BITS-RECE: radiografia di un disco in un manciata di bit.
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Se cercate sulla pagina Facebook ufficiale, leggerete che i Pumarosa fanno “industrial spiritual”. Cosa voglia dire esattamente non lo so, soprattutto dopo aver ascoltato le tracce del loro esordio discografico, The Witch, che segue di alcuni mesi l’EP di antipasto.
Certo è che qualcosa di “spirituale” in questo album c’è, qualcosa di mistico, solenne, etereo, creato da un suono che amalgama alla perfezione pop, elettronica e persino qualche elemento di rock. Melodie che oscillano tra nuvole oscure e sprazzi di sole, peccato e redenzione, inquietudine e serenità.
Un incantesimo, quello lanciato dalla strega dei Pumarosa, benefico e salvifico, che nel cantato di Isabel ricorda talvolta gli slanci di Björk, mentre nelle musiche si affianca tranquillamente a gruppi come i Goldfrapp.
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Se sapranno muoversi bene, i Pumarosa hanno tutte le possibilità di diventare un nome di alta risonanza internazionale: tutto dipende da quanti la strega riuscirà ad incantare…

50 Shade Of Gay: l’inno anti-omofobia dei Junksista

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I Junksista sono un duo tedesco di musica elettronica formato da Boog e Diana. Pur non essendo molto conosciuti qui in Italia, sono attivi sulle scene già da tempo: i loro suoni spaziano dalle influenze degli anni ’70 alle memorie dei sintetizzatori degli anni ’80, mentre i loro testi abbondano spesso e volentieri di ironia.

In occasione della giornata contro l’omofobia e la transfobia, il 17 maggio, i Junksista rilasciano 50 Shade Of Gay, un brano che, come già il titolo suggerisce, vuole celebrare l’omosessualità e la diversità in ogni “sfumatura” e in chiave assolutamente ironica, e con un groove perfetto per il dancefloor.
Il singolo, insieme ad alcune versioni remix, è scaricabile gratuitamente (o con un’offerta libera) e disponibile in streaming sulla pagina di bandcamp dell’etichetta della band, Alfa Matrix.

Un vero e proprio inno arcobaleno, con un testo che gronda di citazioni a dir poco iconiche….. Strike A Pose!

Muff diver . Bone smuggler . Bean flicker . Clit licker
butch, femme, a hasbian
Short hair – must be a lesbian

Dancing on the rainbow bridge
Dudes that look like skinny chicks
Chicks that look like beardless boys
Kiss me under the mirror ball
The moves of “Vogue”, we know them all
Wear the purple suit today
50 Shades Of Gay
Strike a pose – Yeah!
Donut puncher . Rug muncher . Pillow biter .Like it tighter?
Dykes on bikes and nancy boys
Show some pride and some noise!

Dancing on the rainbow bridge
Dudes that look like skinny chicks
Chicks that look like beardless boys
Kiss me under the mirror ball
The moves of “Vogue”, we know them all
Wear the purple suit today
50 Shades Of Gay
Strike a pose – Yeah!

Magellano: non solo scimmie nel viaggio del "mascalzone" Gabbani

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Magellano
è il disco dell’anno dell’uomo dell’anno.

Lo è almeno da febbraio, da quando, cioè, Francesco Gabbani ha sconvolto (davvero inaspettatamente??) ogni pronostico degli “esperti”, che sulla sola fiducia del nome davano per vincitrice sanremese la Mannoia. Se posso dirla tutta, fin dal primo ascolto mi sembrava abbastanza ovvio che Occidentali’s Karma fosse destinata come minimo al podio, ma forse tra i corridoi della BMG non erano altrettanto ottimisti, visto che all’epoca del Festival l’album non era ancora pronto ed esce solo adesso, a ridosso di maggio, a una manciata di giorni dall’Eurovision Song Contest, dove – guarda caso – Gabbani è dato come super-strafavorito. Ma visto che notoriamente chi entra papa poi esce cardinale, lascio da parte tutte le chiacchiere future e vado a concentrarmi su di lui, Magellano, l’ultima creatura gabbanesca.
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Diciamolo, Gabbani è un vero mascalzone, di quelli buoni e simpatici, uno che – almeno in apparenza – sa prendere la musica per quello che è, un gran divertimento, qualcosa che deve far piacere sia a chi la ascolta sia a chi la fa. Il che non significa fare le cose con leggerezza e qualunquismo, ma farle sapendo che non si sta salvando il mondo e darsi arie intellettualoidi e seriose non serve poi a granché. È forse per questo che il suo nome è stato più volte associato a quello di Celentano, un campionissimo della musica italiana che da mezzo secolo sembra non aver smesso un minuto di guardare la musica con aria sorniona e un mezzo sorriso costantemente stampato in faccia.
Avrebbe potuto giocarsela facile Gabbani con questo album: con il singolo sanremese ancora altissimo in classifica e tutta l’attenzione di pubblico e stampa puntata addosso, il mascalzone di Ferrara avrebbe potuto buttar lì una manciata di pezzi facili facili, di quelli elettropop che tanto piacciono adesso alle radio, con un paio di bombe da sganciare tra primavera ed estate per far colpo un’altra volta, e tutto sarebbe probabilmente filato liscio.
E invece no. Perché l’impressione è che a Gabbani fare musica piaccia terribilmente, con immenso divertimento, e che quindi abbia voluto dare tagli e forme ben precise al suo nuovo album.
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Il titolo, Magellano, è ovviamente un omaggio al grande esploratore, e vuole essere un richiamo al viaggio, inteso in ogni sua forma, fisica e interiore. Dentro al disco, nove tracce (8 inediti e la cover di Susanna, Susanna di Celentano) che hanno come comune denominatore un certo brio, una vitalità costante che passa attraverso tutti gli umori dei brani, dal divertimento di Tra le granite e le granate all’ironia (tanta, tantissima) di Pachidermi e pappagalli al disincanto di A Moment Of Silence, fino alle riflessioni solitarie di Stelle al gelo e Spogliarmi.
Magellano non è musicalmente il disco che molti si aspettavano, è qualcosa di molto più ampio, qualcosa che va oltre Occidentali’s Karma, pur essendo l’habitat perfetto per Occidentali’s Karma. Perché Gabbani è anche quello “della scimmia”, ma non è solo quello. È un cantautore con una propria visione delle cose e con la capacità di passare da un livello emozionale all’altro, e insieme a lui lo sono i suoi fidi compagni di musica, Fabio Ilacqua, Filippo Gabbani e Luca Chiaravalli.
E Magellano è album intelligente e pop, di un artista abbastanza cresciuto e lucido da non farsi travolgere dal vuoto cicaleccio dello showbiz e che sembra non cercare a tutti i costi plausi e lusinghe, ma si fa la sua strada sorridendo sotto i baffetti.

Tanto lui lo sa, pianta rei. E ha ragione, oh, come ha ragione!

Incipit: il racconto elettronico di BIRØ

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Quello del varesino Birø è un esordio molto interessante, diluito e compatto nello stesso tempo.
Diluito perché si tratta di 5 tracce rilasciate poco a poco tramite video su YouTube durante il mese di marzo, e compatto perché si tratta di 5 capitoli in successione di uno stesso racconto, quello di una serata “alterata” vissuta da un ragazzo, con tutto quello che vi può accadere.
Il risultato ha preso forma definitiva lo scorso 31 marzo, si intitola Incipit, e segna anche l’esordio alla produzione dell’etichetta RC Waves.
L’idea che ha animato il progetto era quella di coniugare testi vicini alla tradizione cantautorale italiana con l’elettronica, presa nei suoi molteplici volti sonori.
Per ogni ogni traccia è stata realizzata un’illustrazione da Vanni Vaps, grafico/illustratore che ha collaborato, tra i molti, con Vans e un video opera di Marcello Rotondella.

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La storia narrata tra suoni e parole da Birø inizia con Ansia (Le luci), un brano con echi trip hop che parla di un ragazzo che decide di assumere una droga a lui sconosciuta e della paura derivante da questa scelta: “Nella canzone sono numerosi i riferimenti allo stato d’ansia vissuto e alla paura avvertita di perdere sé stessi. Il giovane uomo avverte il rischio di confondere la realtà con l’immaginazione, è conscio del pericolo che corre ma desidera andare oltre, nonostante la persona che uscirà da quell’esperienza sarà ben diversa da quella che era prima”.

La storia continua con Lupi, dal sound internazionale, arricchito da un testo dal sapore evocativo. La canzone narra di un “bad trip”: nella mente del nostro protagonista le figure si allungano e si distorcono fino a diventare ombre grottesche, scaraventando il ragazzo negli abissi della sua mente: “Tutto il brano è una sorta un dialogo interiore tra l’Io del ragazzo e la voce che lui sente nella sua mente. La foresta è il simbolo privilegiato delle paure umane, così si trova cacciato da lupi che non voglio dargli tregua. Una parte della sua coscienza si rende conto che non c’è nulla di vero ma quello che lui vede attraverso i suoi occhi è ben diverso”.

Il terzo capitolo è Come nei film, in cui si incontrano contaminazioni tra hip-hop e funk. Nel mezzo dell’effetto delle droghe il protagonista non distingue più i colori vede tutto bianco e nero e, credendosi in un film anni ’50, si innamora di una ragazza: “La canzone parla di un ragazzo che si innamora sotto effetto di droghe. Mentre la sua infatuazione viene esagerata dall’immaginario dei film romantici, dall’altro vengono rivelate le sue….vere intenzioni”.

Si passa poi a Invernø. La serata del protagonista finisce, il ragazzo esce dal locale e tornando a casa osserva la città attorno a lui: “Attraverso due lunghe strofe il ragazzo commenta la sua generazione, desiderosa di mettersi in gioco ma limitata nei mezzi, piena di idee eppure costretta in ruoli che non le competono. Una generazione che prostituisce il proprio talento e potenzialità per poter vivere, rinunciando così ai sogni”.

L’epilogo è infine affidato al suono notturno e alle parole disincantate e rassegnate di Il mio disordine.

Ansia (Le Luci)
Lupi
Come nei film
Inverno
Il Mio Disordine

Pumarosa, tra impegno e suggestioni

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Tra i progetti più interessanti su cui porre lo sguardo nei prossimi mesi c’è sicuramente quello dei Pumarosa, band inglese capitanata dalla carismatica Isabel Munoz-Newsome.
Nei mesi scorsi hanno rilasciato un primo EP di quattro brani, ottima anticipazione di quello che sarà il primo vero album, a The Witch, atteso per il prossimo 19 maggio.
Il sound dei Pumarosa si piazza proprio al centro di quel pop che prende un po’ dall’elettronica e un po’ dall’indie-rock, e che sul profilo Facebook ufficiale la band definisce “industrial spiritual”: una musica che non indulge troppo a giri armonici eccessivamente accessibili, ma che non si dimentica nemmeno di essere in fondo pop. Una miscela oscura, onirica, ipnotica, sensuale, che – assicura chi li ha visti all’opera – la band sa trasferire molto bene nei live.
Nei loro testi, i cinque ragazzi di Londra – che hanno però affinato il loro suono in Italia, pare all’interno di un cinema abbandonato – pescano anche da tematiche di carattere politico e sociale, come la difesa delle donne, celebrata nel quasi liturgico e imponente singolo Priestess.
Con buona speranza, The Witch potrebbe essere uno di quei debutti capaci di dare un bel scossone a tutta l’aria intorno.


#MUSICANUOVA: lemandorle, Ti amo il venerdì sera

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Una canzone d’amore a 125 bpm da ascoltare la notte in macchina, mentre sul finestrino si riflettono mille luci baluginanti.

Ti amo il venerdì sera è il nuovo singolo de lemandorle, progetto nato per gioco in coda alla Salerno Reggio Calabria.
Un “pop daltonico” dalle tinte scure, un inno per un rituale collettivo, universale, liberatorio, una melodia spudoratamente indie che rincorre se stessa senza sosta condensando in pochi versi la felicità effimera e malinconica dei weekend.
Un venerdì sera come atto di fede
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Lemandorle si scrive così: tutto attaccato.
Lemandorle hanno la barba.
Lemandorle sono punk: con i computer, Google e la tecnologia al posto di chitarra, basso e batteria.
Lemandorle adorano le contraddizioni e non hanno senso di appartenenza.
Lemandorle sono in due: un po’ dj, un po’ producer, un po’ cantautori.
Lemandorle amano Kanye West, gli Stooges ed Enzo Carella.
Lemandorle sono nati in coda sulla Salerno-Reggio Calabria, in un pomeriggio d’agosto degli anni ottanta, mentre alla radio suonava “Musica È” di Eros Ramazzotti.
Lemandorle vogliono solo essere amati, senza preconcetti.

È già stato scritto e detto di tutto.
Lemandorle lo sanno e non hanno presunzioni: solo la gioia di giocare finalmente al tavolo dei grandi.

The Cure, il più grande compromesso di Lady Gaga?

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C’è stato un tempo in cui il nome di Lady Gaga significava sorpresa, stupore e innovazione. Un tempo in cui l’emergente Lady Gaga assaliva il web e insegnava ai suoi più navigati colleghi a usare i social network e YouTube, dando il via alla nuova generazione di popstar. Un tempo in cui Lady Gaga faceva pop con la sua testa.

Un tempo che sembra lontano, oggi più che mai.
In quasi dieci anni di carriera, Lady Gaga ha raccolto successi, infranto record, è andata a sbattere contro flop clamorosi, è passata dal pop cattivissimo di Bad Romance al jazz con Tony Bennett, ha giocato a fare la nuova Madonna e ha imbracciato la chitarra per fare la country singer in Joanne. Ha fatto pezzi meravigliosi e pezzi da dimenticare, ma mai sembra essersi abbassata al compromesso come ha fatto con The Cure, l’inedito rilasciato a sorpresa pochi giorni fa in occasione della partecipazione al Coachella.


Dopo la (parecchio) spiazzante virata country di Joanne, sentendo The Cure in molti hanno parlato con un certo entusiasmo di un ritorno alle origini, un ritorno ai “tempi d’oro”. Ma siamo sicuri? Cioè, davvero The Cure si sistema sugli stessi binari sonori su cui hanno viaggiato alla grande Poker Face, Just Dance e Bad Romance? Non è che, piuttosto, si sta confondendo la presenza di un generico suono elettronico con un fantomatico ritorno all’ovile?
Poker Face e Bad Romance erano pezzi animati di vita propria, pezzi ruvidi, affilati, pop sporco e violento, The Cure è qualcosa di diametralmente opposto. È un pezzo di quiete tropicale, un downtempo tra EDM e r’n’b che di personale ha ben poco, e anzi sembra essere stato piazzato apposta in coda nell’imperante filone in cui si sono comodamente seduti artisti come Zara Larrson e a The Chainsmokers.
Forse per la prima volta, su un singolo di Gaga si insinua il dubbio del compromesso facile: una sensazione che non si era provata neanche ai tempi della rovente e usurata diatriba Born This Way/Express Yourself, perché lì tutto si muoveva su un attentissimo gioco di specchi e di provocazione.
Con The Cure Lady Gaga sembra aver voluto giocare troppo facile, e gratuitamente, assecondando ad occhi chiusi radio e web, forse alla ricerca di un pubblico (il più giovane) che non si era mostrato abbastanza interessato all’intimità di Joanne.
Resta poi da capire il motivo del rilascio di questo singolo, con un album pubblicato solo sei mesi fa, e se si tratti di una parentesi o del primo capitolo di un nuovo corso.
Una cosa è certa: se Lady Gaga voleva veramente tornare a casa, questa non è la strada più breve.

BITS-CHAT: Un Capodanno speciale. Quattro chiacchiere con… i Landlord

unnamed (1)Il calendario segna i primi giorni di primavera, e i Landlord festeggiano Capodanno.
Ma state tranquilli, loro non sono impazziti e voi non avete perso il conto dei giorni. Semplicemente, New a Year’s Eve è il titolo del loro ultimo singolo, uscito da poco a conclusione di un anno di musica a dir poco intenso iniziato con la fortunata Get By.
Chiusa l’esperienza di X Factor nel 2015, i ragazzi di Rimini si sono infatti messi al lavoro sui loro brani, che hanno visto la luce nel 2016 in Aside e Beside, due EP pubblicati a pochi mesi di distanza, e poi riuniti nel vinile Be A Side, in cui hanno fatto vedere tutte le facce del loro pop elettronico sporcato di influenze ambient e persino sinfoniche.
Nel frattempo, l’attività live si è fatta sempre più rovente e l’agenda della band si è infittita di impegni, non solo in Italia, dal momento che per loro si sono aperte anche le porte del colossale Sziget Festival di Budapest.
E mentre un nuovo tour estivo si profila all’orizzonte, noi abbiamo fatto quattro chiacchiere con loro per annodare i fili di questi ultimi mesi.
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New Year’s Eve
sembra il perfetto punto di incontro tra un capitolo che si chiude è una nuovo inizio. Che bilancio potete fare dell’ultimo anno? Soddisfazioni, delusioni, sorprese…

Proprio così, il brano rappresenta esattamente questo, e ha per noi un valore particolare. Sicuramente è stato un anno molto positivo, ricco di soddisfazioni, di tante novità e di molta attività. Abbiamo avuto tante sorprese, fatto tante date live, anche all’estero, abbiamo aperto i concerti di gruppi importanti e che consideravamo irraggiungibili e vissuto esperienze davvero importanti.
Pensate che la scelta di pubblicare un doppio EP anziché un intero album vi abbia giovato? Potrebbe sia una buona strategia per far arrivare meglio la musica al pubblico?
Non lo sappiamo questo, ci siamo interrogati a lungo riguardo la pubblicazione, ma poi abbiamo deciso di procedere con i due diversi EP, per mostrare al pubblico una sorta di evoluzione che noi stessi avevamo vissuto. Tutti i brani sono stati scritti nello stesso periodo, però alcuni procedevano in una direzione più elettronica e sperimentale rispetto ad altri e così abbiamo voluto fissare questo cambiamento.
Il vostro tour vi ha portato a lungo in giro per l’Italia e anche all’estero: c’è stata una platea che vi ha particolarmente stupito o un concerto che vi ha lasciato un ricordo più forte?
Due concerti sono stati incredibili: il nostro primo concerto al Velvet di Rimini e la data al Magnolia, in apertura a Edward Sharpe e ai Daughter. Un’atmosfera unica. Abbiamo trovato un pubblico molto entusiasta, molto partecipe e caloroso e per di più a fine serata abbiamo scambiato quattro chiacchiere con i Daughter. Un momento magico, qualcosa di indelebile.
Le vostre principali influenze musicali da dove arrivano?
Ascoltiamo veramente di tutto, ognuno ha i propri ascolti e poi alla fine mettiamo tutto insieme, cerchiamo di delineare una nostra strada senza essere troppo schiavi delle influenze. Siamo comunque dei grandi fan di Justin Vernon, e del suo progetto bon iver.
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A distanza di un po’ di tempo, pensate che la partecipazione a X Factor vi abbia insegnato qualcosa?
L’esperienza di X Factor ci ha insegnato tanto. Ci ha formato parecchio; ha rappresentato una sorta di corso accelerato sotto tutti i punti di vista. Ci è servito molto perché abbiamo assunto un atteggiamento di curiosità, di osservazione. Abbiamo cercato di rubare un po’ degli insegnamenti che abbiamo ricevuto ed è per questo che definiamo sempre il programma come una grande scuola, una palestra.
Perché pensate che i talent siano ancora visti spesso come una macchina di illusioni?
Il meccanismo dei talent certamente non è semplice. Un programma televisivo fa sempre molta gola, attira su di se molta curiosità, però noi abbiamo cercato di rimanere sempre con i piedi ben saldati a terra. Siamo profondamente convinti della necessità di fare esperienza, di calcare palchi, e questo ci ha permesso di rimanere molto lucidi durante la trasmissione. Avevamo le idee molto chiare riguardo la nostra strada e quindi siamo andati in quella direzione, ascoltando certamente consigli e aiuti di chi ne sa più di noi, però sempre puntando a quello che ci piace davvero.
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Guardando al futuro, avere già qualche idea di nuove strade musicali da seguire?
Stiamo vivendo un periodo di sperimentazioni, stiamo lavorando di continuo e non sappiamo ancora bene neanche noi cosa succederà, però ce la stiamo mettendo tutta!

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato date al concetto di ribellione?
Associamo il concetto di ribellione all’essere autentici. Tutta la nostra musica si fonda sulla sincerità, sull’autenticità e sulle emozioni che ci guidano continuamene nella scrittura. Per questo siamo molto legati al concetto di essere veri, se stessi, e a volte questo atteggiamento può rappresentare una vera e propria ribellione.