a quarta serata

E via, anche la quarta serata è andata. Scorrono velocissimi come sempre i giorni di Sanremo e ormai, arrivati al secondo ascolto, tutta l’attenzione più che sulle canzoni è sul piazzamento che avranno nella classifica finale di stasera.
Intanto il primo verdetto è arrivato con la proclamazione di Lele a vincitore delle Nuove Proposte, e molti dicono che se lo aspettavano. Io sinceramente no, anche se è indiscutibile che il ragazzo partiva un passo avanti avendo dalla sua una dose di notorietà arrivata dalla partecipazione ad Amici.

Detto ciò, passiamo alla gara dei Campioni.
Questa volta la mannaia è caduta su Ron, Giusy Ferreri, Al Bano e Gigi D’Alessio: esito in buonissima parte prevedibile e direi anche condivisibile.

Tra i restanti 16, sembra ormai definirsi chiara una cinquina destinata a occupare i piani alti della classifica finale, vale a dire Gabbani, Mannoia, Meta, Turci e Bravi, non necessariamente in quest’ordine.
Perché se è vero che alla vigilia del Festival gli elogi erano solo per Fiorella Mannoia ed Ermal Meta, nel corso delle serate è piombato il ciclone Gabbani a scompigliare le carte, facendosi largo a suon di gomitate e balletti. La Mannoia ha sì un gran pezzo, ma – come già avevo avuto modo di osservare – troppo in linea con i suoi standard, e questo potrebbe rivelarsi un freno. Su Meta non si può francamente dire nulla, se non riconoscere il talento di un cantautore che finalmente si sta prendendo il giusto riconoscimento.



Ci sono poi alcune canzoni partite in sordina ma che di ascolto in ascolto si sono fatte forza, come Il diario degli errori di Michele Bravi, tenerissimo nell’affrontare con la sua giovane età le pesanti parole di quel testo (ah, se ascoltate la canzone chiudendo gli occhi potreste simpaticamente risentire Noemi…), e soprattutto Ora esisti solo tu di Bianca Atzei. E qui devo fare mea culpa, perché verso di lei ero pieno di pregiudizi, come molti altri del resto: sì, è vero, la Atzei non ha mai piazzato un successo in classifica, non vende, non viene passata in radio (eccezion fatta per RTL), forse è davvero raccomandata e probabilmente la sua collocazione tra i Campioni è frutto più di diplomazia altrui che non di un vero pedigree, ma la sua canzone ha un giro melodico assassino che ti si pianta in testa. Tutto il resto, a questo punto, non mi interessa, e le sue lacrime durante l’ultima esibizione mi sono sembrate sincere. Chiamatemi anche stupido, ma io la salvo.


Sensazionale poi Paola Turci, che sta facendo di questa partecipazione al Festival una vera e propria occasione di rilancio tra il grande pubblico.
Tra gli altri, pienamente promossi Samuel ed Elodie, che ieri sera si è riscattata dopo un esordio un po’ spento. Non vincerà, perché la canzone non è abbastanza forte, ma se saprà muovere bene i prossimi passi penso potrà fare belle cose e si scrollerà dalle spalle l’ombra di Emma.


BITS-SANREMO: la terza serata

Mumble mumble….Terza serata del Festival, giro di boa e primi sentori di eccitazioni da vittoria.
Partendo sempre dai giovani, Lele e Maldestro (quest’ultimo un po’ carente in intonazione) passano il turno, lasciando a casa Valeria Farinacci e Tommaso Pini (quest’ultimo un po’ a sorpresa).
Stasera quindi a giocarsi la finale saranno quattro gentleman: Francesco Guasti, Leonardo Lamacchia e i suddetti Lele e Maldestro.


Venendo alle cover, come gli altri anni la carrellata è stata a forte rischio sonnolenza, soprattutto perché non tutti se la sono sentita di rischiare con il brano e con il nuovo arrangiamento.
Tra i pochi, Ermal Meta, che si è preso la meritata vittoria: la sua versione di Amara terra mia, oltre a essere stata interpretata magnificamente, è la prova chiarissima che il ragazzo sa bene quel che fa. Un autore bravissimo, che scrive con anima, e un interprete di robusta personalità.
Buona prova anche per Masini con il suo tributo a Faletti, anche se a tratti pareva non riuscire a stare dietro al tempo, e di Paola Turci, che ha scelto di rimettere mano a un classico e della Oxa come Un’emozione da poco.
Sul resto c’è stata fondamentalmente calma piatta: Elodie avrebbe potuto far molto di meglio con il pezzo di Cocciante, soprattutto negli arrangiamenti e nell’intensità dell’interpretazione; Chiara ha fatto il temino scolastico con Diamante di Zucchero; la Mannoia ha fatto la Mannoia con Sempre e per sempre e Samuel ha fatto Samuel con Ho difeso il mio amore. Qualche problema tecnico ha invece rovinato la festa di Sergio e i Soul System, mandando fuori tempo l’esecuzione di un pezzo –Vorrei la pelle nera – dove il groove era centrale.
Non abbiamo purtroppo potuto ascoltare la versione di Ma il cielo è sempre più blu che avevano preparato Nesli e Alice Paba, e che avrebbe sicuramente riservato entusiasmi.

E a proposito di Nesli e Alice, è evidente che le coppie create a uso e consumo sanremese non funzionano, dato che sia loro sia Raige e Giulia Luzi sono i primi due esclusi definitivi. Il gioco per cui prendi due artisti e le metti insieme sul palco pensando di sommare i voti delle rispettive fanbase e quindi di avere vittoria facile non regge.
Nel caso di Nesli, lui già quest’estate parlava di Sanremo, ma il presentimento è che i suoi progetti fossero un po’ diversi, con l’idea di presentarsi da solo, ma che si sia poi trovato a doversi accollare la Paba per ordine giunto dall’alto. Il che non ha però giovato al brano e non mi stupirei se i pensieri di Nesli si siano fatti scurissimi al momento del verdetto.
Rientrano quindi in gara Ferreri, Ron, Atzei e Clementino.

BITS-SANREMO: la seconda serata

Seconda puntata del Festival e anche stavolta mi sono perso la diretta, dovendo riguardarmi le esibizioni sul web in scaletta personalizzata (per fortuna che c’è Rai Play!).
Se la prima serata era stata generalmente dentro le previsioni senza riservare colpi di testa, per la seconda puntata non si può dire altrettanto.
Partendo dai giovani, la prima grande batosta di quest’anno è arrivata con l’eliminazione di Marianne Mirage, che con Le canzoni fanno male vedevo già proiettata sul podio dei vincitori. Peccato davvero, evidentemente qualcosa non è arrivato nel modo giusto. Peccato anche per Braschi, che con Nel mare ci sono i coccodrilli aveva tra le mani un pezzo dalla storia molto particolare.
Felicissimo invece per Francesco Guasti, dritto in finale insieme a Leonardo Lamacchia.
Stasera sapremo i nomi degli altri due.



Tra i big, non c’è dubbio che il gran mattatore della serata sia stato il mascalzone Gabbani: la sua Occidentali’s Karma è esattamente l’uragano che il Festival aspettava, e che potrebbe insediare il podio dei superfavoritissimi Mannoia e Meta. Un pezzo freschissimo, apparentemente leggero e costruito su un testo da lucido osservatore della realtà.
Gran bella prova di Paola Turci, corazzata da soldatessa.
Non male Masini, molto toccante Bravi (ma la voce dov’è??), Sergione Sylvestre ha tirato fuori tutto il suo soul in un pezzo che forse richiama un tantino troppo Giorgia, che ne è poi davvero una degli autori. Però caspiterina, che voce!

Non ho invece capito cosa è successo al brano di Nesli e Alice Paba, Do retta a te: la canzone non è brutta, e nella versione studio sembra funzionare, ma l’impressione è che sia la coppia a non funzionare dal vivo. E purtroppo, mi tocca ammettere che tra i due quello un po’ più deboluccio è stato proprio Nesli, vocalmente schiacciato dalla collega. Possiamo poi stare qui a chiederci sul perché abbiano deciso di presentarsi in coppia, ma credo sia meglio non indagare…. Peccato comunque, perché la loro eliminazione impedirà di ascoltare la potentissima versione di Ma il cielo è sempre più blu che avevano preparato per stasera.
Delusione per Chiara, dopo che nel 2015 mi aveva fatto volare con Straordinario: l’intervento di Mauro Pagani nello spogliare all’essenziale i suoni ha reso solo noioso un pezzo che forse -forse – poteva avere qualche palpito vitale in più con un diverso arrangiamento.

Tra le sorprese, confesso che la Atzei ha portato nel suo pezzo, Ora esisti solo tu, qualcosa di curioso, con quei dettagli così folkloristici in un brano che non è davvero male, nonostante la firma di Kekko. Resta il fatto che la sua presenza resta un mistero, e la sua eliminazione non mi ha preso alla sprovvista.
Insomma, dopo il primo ascolto di tutti i brani, il giudizio complessivo è di un festival di livello medio, senza troppe brutture, ma anche senza punte di eccellenza. Tolto Gabbani e forse un altro paio di canzoni (Meta, Mannoia), non si sono ascoltate grandi meraviglie.
Da oggi liberi tutti in radio e nei download, dove parte la nuova sfida.

BITS-SANREMO '17: la prima serata

La prima puntata di Sanremo me la sono persa, ebbene sì. Mentre Carlo Conti e Maria De Filippi aprivano la 67esima edizione del Festival della Canzone Italiana – perché è così che si chiama – io ero a sentire i Bastille al Forum d’Assago e ho rimesso piede in casa proprio subito dopo l’esibizione di Ermal Meta, l’ultimo degli 11 artisti che si sono esibiti.
Le esibizioni le ho quindi ascoltate “di riflesso” sul web, perdendomi la tradizionale e unica emozione della diretta, ma con il lusso di sentirmi le canzoni in ordine sparso e anche più volte di seguito, skippando e stoppando quando necessario.
Detto questo, il primo elemento che mi viene da sottolineare è, almeno per ora, la mancanza del pezzone di successo sicuro: belle canzoni sì, qualche sorpresa, ma tutto sommato nessun soprassalto. Non ci sono state grandi deviazioni di percorso e più o meno tutti gli artisti in gara si sono tenuti sulle rotaie della propria traiettoria.

Prendiamo per esempio il brano della Mannoia, Che sia benedetta, osannato da ogni dove e dato per vincitore da molti: pezzo sicuramente piacevole, interpretazione da professionista consumata. Lei si è mangiata il palco con una forza da leonessa e il fuoco negli occhi, ma la canzone non aggiunge molto a quanto Fiorella non avesse detto o fatto in passato. C’è la voce, c’è il messaggio, ma tutto resta tanto, troppo in stile “mannoiese”.
Molto intenso Ermal Meta, che in Vietato Morire porta sul palco un testo coraggioso e drammatico, naturalmente ben scritto.




Su Al Bano non mi accanisco nemmeno.
Fabrizio Moro è invece arrivato con Portami via, una canzone graffiatissima, sicuramente più del necessario, ma in linea con i suo stilemi.
Assolutamente da sentire tre-quattro volte, per farsene una giusta idea, Fa talmente male della Ferreri, dato che al primo ascolto non resta granché. L’exploit di Ti porto a cena con me non si ripeterà.
Sul palco mi è risultata invece inspiegabilmente invecchiata l’atmosfera creata da Elodie, rimasta impigliata in un brano, Tutta colpa mia, dai contorni classici e in cui “amore” viene ripetuto quasi all’esasperazione. La sua non è una brutta canzone, ma l’effetto di Emma in questo caso rischia di fare più danno che beneficio.
Sorprese invece per Samuel e Bernabei: il primo arriva con Vedrai, un pezzo agilissimo e ben strutturato tra pop ed elettronica, mentre il secondo mi ha stupito un po’ – sono sincero – negli incisi di Nel mezzo di un applauso, evitando il rischio di impantanarsi ripetendo la formula elettropop dello scorso anno. Discorso a parte per il testo, tra le cui righe si legge un filo di imbarazzo.


Il secondo elemento che vorrei segnalare è che mai come quest’anno – ma aspetto le prossime serate per approfondire eventualmente il discorso – ho avuto la sensazione che il palco dell’Ariston applichi una sorta di deformazione sui brani, rendendoli ancora più “sanremesi” di quanto non siano, dove per sanremese si intende una canzone caricata di enfasi armonica. Prendete ad esempio Vedrai di Samuel, un brano e un artista che almeno sulla carta dovrebbero stare al festival come la riviera di Levante sta a quella di Ponente. Eppure nell’ascolto non si può fare a meno di pensare che quelle note sono state pensate per essere suonate lì sopra, davanti a quel pubblico, immerse in quel mare di tensione mediatica.
Verità o incantesimo del Festival?

Lady Gaga, una fuoriclasse al Super Bowl

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Ha fatto da sola, senza ospiti, accompagnata sul palco solo dai suoi ballerini e dai musicisti. Ha cantato dal vivo, dando grandissimo spazio alle sue vecchie hit, quelle pop e dance, concedendosi all’amato pianoforte solo durante Million Reasons.
Per il suo HalfTime Show, Lady Gaga è stata strepitosa come non mai, una vera fuoriclasse, dimostrando a tutto il mondo (e non esagero, perché la risonanza dell’evento lo permette) cosa voglia dire essere un mostro da palcoscenico.
Ha iniziato sul tetto dello stadio di Houston, intonando God Bless America e This Land Is Your Land, mentre nel cielo sopra di lei centinaia di droni si muovevano compatti a formare la bandiera americana.
Poi si è letteralmente buttata nel vuoto, piombando sul palco sulle note di Poker Face. Da quel momento è stato un susseguirsi di fiammate di musica e coreografie. Spettacolo con la S maiuscola, come diceva essere e come è stato.
Nessun ospite, niente Beyoncé in Telephone – come già si era detto – e nemmeno Tony Bennett per qualche numero jazz.
L’essenza dell’esibizione di Gaga è stato (fortunatamente) il pop, nudo e crudo, che è passato anche attraverso Born This Way, Just Dance e Bad Romance.
Se mai qualcuno ne avesse bisogno, Lady Gaga ha fatto capire come si fa a fare spettacolo. Il resto sono tutte chiacchiere.

La storia della canzone dello spot Amazon Prime

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Vi sarà senz’altro capitato di imbattervi in quel delizioso spot di Amazon Prime in cui un povero pony viene allontanato dagli altri cavalli del recinto a causa della sua piccola statura, trovando conforto tra le braccia della padrona grazie a una speciale gattaiola che gli permette di entrare in casa.

E molto probabilmente vi sarà rimasta in testa la canzone che accompagna lo spot, con un’atmosfera danzereccia e vagamente malinconica un po’ greca e un po’ gitana.
Bene, si tratta di Little Man, brano inciso nel lontano 1966 dal duo Sony & Cher, ovvero Sony Bono e Cher (sì, proprio quella Cher). Tratta dal loro terzo album In Case You’re In Love, la canzone parla dell’infatuazione di un ragazzo per una donna più grande ed è diventata uno dei loro più grandi successi, raggiungendo i piani alti delle classifiche soprattutto in Europa.

In quegli anni andava molto di moda incidere i brani anche in più lingue, magari proponendoli ad artisti diversi, così che ognuno ne facesse una personale versione.
Nel caso di Little Man, la storia è davvero interessante e vede coinvolti personaggi a dir poco giganteschi. Oltre alla versione in inglese, della canzone esistono anche quella in francese e quella in italiano (quest’ultima su testo dell’onnipresente Mogol), rispettivamente intitolate Petit Homme e Piccolo ragazzo, e a tutte e tre Sonny e Cher hanno voluto mettere mano.
In Francia è stata nientemeno che Dalida a incidere la cover più celebre, mentre per l’Italia la versione di maggior successo è stata quella realizzata da un’altra signora della canzone, Milva, poi nuovamente ripresa anche da Dalida.

Rykarda Parasol e l'album più triste del mondo

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Secondo Rykarda Parasol, la distruzione ha lo stesso colore del corallo, che secondo la mitologia greca si sarebbe formato dal sangue di Medusa riversatosi in mare dopo che Perseo l’ebbe uccisa. Il potere della Gorgone torno così ad alimentare il mondo della natura e suo sangue pietrificato in corallo divenne un simbolo di vita, di forza e di passione.

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Per questo l’artista statunitense l’ha messo in copertina, facendogli girare attorno l’intero suo ultimo album, intitolato per l’appunto The Color Of Destruction.
Tanto per fare un paragone noto, avete presente Lana Del Rey? Ecco, Rykarda Parasol ha la stessa attitudine al down umorale, e persino nel canto le assomiglia molto, solo che lo sa esprimere all’ennesima potenza, e con una notevole dose di classe in più. Senza contare che tra le due quella che è arrivata dopo è la Del Rey.
Dopo l’album Against The Sun, in cui si celebravano l’autonomia e l’indipendenza personali, The Color Of Destruction ruota su temi quali la rovina, la distruzione, il contrasto tra fuoco e acqua, inverno e primavera, nuovi dubbi di amletica memoria (“To Burn Or To Drown?”, ovvero “Bruciare o affogare?”), la perdita di controllo, e si distende lungo un tappeto di velluto sontuosamente pop che mescola sintetizzatori con violini, viole e flauti, mentre le voce della Parasol si scioglie come una glassa lasciata al sole.
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Inutile dire che The Color Of Destruction è, almeno nei testi, un disco triste, tristissimo, persino decadente in alcuni tratti: basterebbe anche solo leggere i titoli dei brani per capirlo, ma la conferma arriva all’ascolto di pezzi come The Ruin And The Change, An Invitation To Drown e soprattutto la bellissima The Loneliest Girl In The World, un vero e proprio inno al blue mood, dove la mestizia tocca il suo più lacrimevole apice.
E allora, To Burn Or To Drown?


Aspettando il Super Bowl: l'ultimo anno di Lady Gaga

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Sicuramente ha già deciso la scaletta, probabilmente ha già scelto gli abiti e forse ha anche già imparato a memoria le coreografie: fra poche settimane Lady Gaga ha un impegno, penso di poter dire il più importante della sua vita, almeno fino a oggi. 

Domenica 5 febbraio infatti sarà lei la protagonista dell’Haltime Show alla cinquantunesima edizione del Super Bowl, la finale del campionato di football americano, ovvero il più atteso evento mediatico per gli Stati Uniti, che quest’anno si svolgerà all’NRG Stadium di Houston: un evento che ogni volta raccoglie davanti al televisore almeno 100 milioni di telespettatori sparsi per il mondo.L’Halftime Show è un vero e proprio miniconcerto di un quarto d’ora scarso che riempie l’intervallo tra i due tempi della partita, e la popstar ci sta lavorando almeno da settembre, quando la sua presenza è stata ufficializzata.
Una tappa che ha segnato la carriera dei nomi più mastodontici della musica mondiale, da Michael Jackson a sua sorella a Janet (vi ricordate lo scandalo del capezzolo nel 2004?), passando per Diana Ross, Shania Twain, i Black Eyed Peas, Paul McCartney, Prince, Bruce Springsteen, Madonna, Beyoncé, Katy Perry, fino ai Coldplay e Bruno Mars, protagonisti dell’ultima edizione.

Per Gaga la partecipazione al Super Bowl 2017 non sarà però la prima: proprio l’anno scorso era infatti stata affidata a lei l’apertura dell’incontro con l’inno americano. Una responsabilità che in passato ha visto scivolare grandi artisti in esibizioni non esattamente memorabili (vi ricordate Christina Aguilera?), ma a cui Lady Gaga è andata incontro brillantemente: fasciata in un completo rosso metallizzato, la Germanotta ha offerto una performance barocca (e forse un po’ troppo enfatica) di The Star-Spangled Banner, accolta da unanime entusiasmo. Pare sia stato proprio il successo di quell’esibizione ad aver convinto gli organizzatori a scegliere lei per l’Halftime Show 2017.

Ma il 2016 si era già aperto per la cantante nel migliore dei modi, con la vittoria ai Golden Globe come miglior attrice in una serie televisiva per la sua interpretazione in American Horror Story: Hotel nel ruolo della Contessa. Per Stefani Germanotta non si trattava della prima esperienza davanti alla macchina da presa, ma era la prima volta che veniva nominata per un premio così prestigioso.

Neanche una settimana dopo l’esibizione sul campo del Super Bowl con l’inno americano, Gaga è poi salita sul palco dei Grammy, dove era attesa per rendere omaggio a David Bowie. Realizzata in collaborazione con la Intel – azienda specializzata in dispositivi elettronici -, la sua è stata un’esibizione decisamente scenografica, in cui lo stile “gaghesco” ha preso sotto braccio il mondo del Duca Bianco, in un incontro di musica e tecnologia.
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A fine febbraio è stata invece la volta degli Oscar, dove Gaga si è lasciata sfuggire il premio per la miglior canzone originale (Til It Happens To You, presente nella colonna sonora del documentario The Hunting Ground), lasciando comunque il segno con una toccante performance: vestita di bianco, seduta al pianoforte, la cantante è stata raggiunta sul finale da cinquanta ragazzi vittime di abusi sessuali.

Il 2016 infuocato di Lady Gaga è proseguito poi con l’onore che le ha riservato il patinatissimo V Magazine, per il quale Gaga è stata direttrice nell’intera issue primaverile: per l’occasione, la rivista è uscita in edicola con ben 16 differenti copertine, record mai raggiunto prima. All’interno, servizi fotografici firmati tra gli altri da Steven Klein, Terry Richardson e Nick Knight.


A maggio la popstar ha raccolto l’invito della superdirettrice di Vogue Anna Wintour e non si è fatta mancare la scintillante sfilata sul tappeto rosso del Met Gala, l’evento modaiolo che richiama ogni anno al Metropolitan di New York il gotha del mondo dello spettacolo: richiamandosi al tema della serata, incentrato sulla moda nell’era della tecnologia, Gaga ha sfoggiato un abito di Versace ispirato alle componenti elettroniche .
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Con l’arrivo dell’estate, l’attenzione si è pian piano concentrata sull’attesissimo ritorno discografico, del quale si sono via via svelati i dettagli: ad aprire le danze è stato a inizio settembre il singolo Perfect Illusion (che forse non ha avuto i risultati sperati), mentre il nuovo album è arrivato il 21 ottobre. Il titolo, Joanne, è un omaggio alla zia, sorella del padre, morta in giovane età: con questo nuovo disco abbiamo assistito a un deciso cambiamento di rotta nel percorso musicale di Gaga, che ha messo un po’ da parte il pop, la dance e l’elettronica dei lavori precedenti per abbracciare più intime atmosfere acustiche, di chiara influenza country. La risposta del pubblico non si è comunque fatta attendere e per la quarta volta consecutiva un album di Lady Gaga ha debuttato al primo posto della classifica americana.
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Per far prendere confidenza con il nuovo album, già all’inizio di ottobre Gaga aveva dato il via al Dive Bar Tour, una tranche di tre concerti ambientati in altrettanti bar a Nashville, New York e Los Angeles. Tra le attività promozionali legate al disco non si possono inoltre non citare la partecipazione al Carpool Karaoke di James Corden, divenuto nell’ultimo anno uno degli appuntamenti della TV americana più seguiti, e l’esibizione ai Billboard Awards con il singolo Million Reasons.


Dopo un 2016 a dir poco intenso, da alcune settimane tutto l’impegno di Lady Gaga è dedicato alla preparazione dello show del Super Bowl.
Al momento però ogni dettaglio su ciò che farà è celato dietro una cortina di mistero, salvo per qualche foto, da cui però non si deduce granché.

Provando a fantasticare, ho pensato a quale spettacolo mi piacerebbe vedere sul campo dello stadio di Houston, e questa è la scaletta del mio ideale Halftime Show targato Gaga:
Just Dance
Born This Way/Express Yourself (featuring Madonna)
Bad Romance
Poker Face
Telephone (featuring Beyoncé)
Million Reasons
You And I (featuring Lady Antebellum)
The Edge Of Glory.

Quanto questa fanta-scaletta è esatta lo si scoprirà il 5 febbraio. Nel frattempo l’attesa cresce e i preparativi fervono….

Perché dovremmo tutti vedere Florence

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Da alcune settimane è arrivato anche nelle sale italiane Florence, deliziosa commedia diretta da Stephen Frears incentrata sulla figura di Florence Foster Jenkins, improbabile cantante lirica che fece molto parlare di sé nell’America degli anni ’30 e ’40.

Quanto la pellicola sia fedele alla reale biografia del personaggio non saprei dire, e non escludo che alcuni particolari siano stati enfatizzati o girati “a favore di camera”, ma la pellicola merita senza dubbio il prezzo del biglietto (o il noleggio dello streaming) per più di una ragione.
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Prima di tutto, Florence racconta la storia di una donna che a suo modo ha fatto storia, ma di cui fino ad oggi si è poco sentito parlare: stonatissima e con scarsissimo senso del ritmo, la Jenkins ha usato l’eredità del padre per realizzare il suo sogno di cantante, nonostante la famiglia avesse sempre cercato di dissuaderla. Non solo è riuscita a incidere un paio di (vendutissimi) dischi, ma nell’ottobre del 1944, all’età di 76 anni, ha tenuto un memorabile concerto alla Carnegie Hall, rimasto negli annali come uno degli eventi di maggior successo di pubblico per il prestigioso teatro newyorkese.
In secondo luogo, Florence è una commedia di grande leggerezza, con momenti di vero divertimento (provate a trattenere le risate ascoltando la prima “performance” di Florence), ma è anche in grado di far riflettere su quanto la determinazione e la forza di volontà siano fondamentali per realizzare un sogno, anche il più piccolo e allo stesso tempo irraggiungibile, sfidando le critiche e l’ironia. Secondo alcune teorie, Florence era ben consapevole dei suoi limiti artistici e avrebbe organizzato le sue esibizioni solo per prendersi gioco del pubblico: difficile stabilirlo, e resta comunque il fatto che ogni sua apparizione in scena era preceduta da grande entusiasmo.

Ci sarebbe poi da parlare di come è finita la sua storia, ma Dio me ne guardi dallo svelarvi il finale del film…..
Interessante inoltre il modo in cui viene dipinta la stampa dell’epoca, pronta a tessere elogi, o comunque a moderare le critiche, e riempire le recensioni con giudizi ambigui e focalizzati per lo più sugli abiti e il contorno delle esibizioni dietro i compensi elargiti dal marito della Jenkins che non voleva arrecare dispiaceri alla moglie.
Da ultimo, gli interpreti: Simon Helbergh offre un gioioso ritratto di Cosmé McMoon, pianista di Florence, Hugh Grant è perfetto nel vestire i panni del marito un po’ naïf Clair Bayfielfd e Nina Arianda è spassosissima nelle vesti dell’emancipata e volgarotta Agnes Stark. Ma più di tutto, Florence ci regala un’ennesima interpretazione-capolavoro di Meryl Streep: lei, che ci aveva dimostrato in Mamma mia! di saper cantare benissimo, riesce ora a storpiare la propria voce con altrettanta naturalezza e si cala nel nuovo personaggio con una bravura che non ha proprio bisogno di commenti. Lei che ha saputo essere la cattivissima Miranda Priesley, diventa adesso l’adorabile Florence Foster Jenkins. D’altra parte, stiamo parlando Meryl Streep, e questo sarebbe sufficiente per dedicare al film un paio di ore del nostro tempo.

Babywoman, ovvero quando Naomi Campbell ha fatto un disco

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Forse non tutti, e i più piccolini in particolare, se lo ricordano, ma tra una falcata in passerella e una sfuriata capricciosa, Naomi Campbell ha trovato pure il tempo di fare un disco.

Ebbene sì, la Venere Nera ha lasciato la sua zampata anche nel mondo della musica. Stiamo parlando di parecchi anni fa, nello specifico del 1994: era il periodo delle super top, quelle create da Versace, Armani e Ferrè, quelle che poi sarebbero rimaste nella memoria anche dopo aver smesso di calcare il catwalk. Claudia, Cindy, Linda, Carla, Christy e, appunto, Naomi.
È stato proprio all’apice di questo periodo d’oro che la Campbell si è lasciata sedurre dalle lusinghe della musica e ha pubblicato Babywoman, primo -e per ora unico – album della sua carriera.
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Se però state già sbuffando e alzando gli occhi al cielo pensando che si tratti del solito progetto riempitivo per battere cassa, sappiate che vi state sbagliando: per realizzare questo album Naomi sembra averci messo davvero il cuore e una buona dose di impegno. Naturalmente, all’epoca le sue canzoni sono state velocemente liquidate con giudizi per lo più sprezzanti, forse dettati più da pregiudizi che non da un vero ascolto, e i risultati di vendita certo non brillarono: solo il Giappone si dimostrò interessato ad ascoltare la Naomi in versione di cantante, per il resto Babywoman ha dovuto accontentarsi delle briciole, riuscendo comunque a raggranellare un milioncino di copie vendute complessivamente nel mondo.
Riascoltandolo oggi, l’album si porta addosso i segni del tempo, immerso com’è in quella particolarissima commistione di pop e r’n’b che ha trovato il suo culmine proprio nel cuore degli anni ’90. Sonorità eleganti e a luci soffuse, che hanno marchiato anche alcuni album di superstar come  Madonna (penso in particolare ad Erotica e Bedtime Stories) e Janet Jackson, che probabilmente hanno contribuito non poco a dare ispirazione al disco di Naomi.

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Un pop che non ha proprio nulla da invidiare a certi prodotti odierni, magari di maggiore successo e oggetto di più lusinghiere recensioni. Eppure Naomi aveva fatto le cose per bene, fin dal primo, stupendo singolo Love & Tears, con le sue atmosfere al profumo d’incenso e i richiami all’Oriente, poi con la spinta dance di I Want To Live, secondo estratto. Ma in generale tutti i 10 brani (l’undicesimo è una reprise di I Want To Live) trovano una loro piacevole ragione di esistere: c’è tanta bella melodia che pervade l’intero album, tra ballate sontuose (When I Think About Love è di un candore commovente) e pezzi più movimentati, e la voce della Campbell, che pure di lavoro non fa la cantante, sa farsi molto apprezzare con il suo timbro felpato e sporco al punto giusto. Ciò che inoltre stupisce, e che conferma però l’intenzione di Naomi di fare un disco davvero pensato, è la presenza di alcune cover inaspettate. Mi riferisco in particolare a Ride A White Swan, un pezzo glam rock dei T. Rex datato 1970 e qui riproposto in versione decisivamente ingentilita,e poi Life Of Leisure dei Luscious Jackson; ma ci sono anche la super ballatona All Through The Night, remake di un brano di Donna Summer, e la splendente Sunshine On A Rainy Day dell’inglese Zoë.

Insomma, nonostante abbia lasciato dietro di sé una traccia piuttosto appannata e sia oggi confinato solo negli scaffali dei collezionisti, Babywoman è tutt’altro che un album di second’ordine, anche perché -ultima nota di prestigio – alla produzione sono stati chiamati personaggi del calibro di Gavin Friday (fondatore dei Virgin Prunes, ricordate?), Tim Simeon, Youth e Bruce Roberts, gente che tra gli anni ’80 e ’90 maneggiava i dischi dei grandissimi.
Purtroppo, ha dovuto scontare il pegno di essere il frutto musicale di una modella.