Lo Stato Sociale: il 17 marzo arriva Amore, lavoro e altri miti da sfatare

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Anticipato dal primo singolo Amarsi male e dal brano Mai stati meglio, uscirà venerdì 17 marzo Amore, lavoro e altri miti da sfatare, il nuovo album de Lo Stato Sociale, che arriva a due anni di distanza da L’Italia peggiore.

Il nuovo disco è frutto di 10 mesi di lavoro e raccoglie i sentimenti e le parole del vissuto della band. Nell’album sono ancora più presenti le voci dei cinque membri del gruppo, con una o più canzoni da protagonisti, e le molte influenze musicali sono sintetizzate nel classico caleidoscopio di generi che popolano da sempre i lavori de Lo Stato Sociale, dal rock alla dance passando per il pop.
Il titolo racconta i contenuti attraverso due concetti tanto abusati quanto comuni, la perdita di significato di amore e lavoro, che li rende due miti del contemporaneo, sottolineando con ironia la volontà di riappropriarsene.
“Il disco parla di noi e di quello che ci succede attorno.Da quel che accade in un mondo messo alla prova da derive autoritarie e che poco si adattano al bisogno di umanità, all’interpretazione dell’intimità e delle relazioni, che sono specchio e sintesi dei nostri pensieri.”
Continuano intanto le prevendite per il concerto di debutto al Mediolanum Forum di Assago (Milano) del 22 aprile 2017, per il quale sono già esauriti metà biglietti, l’intero parterre e l’anello A.

Terra, un disco con un diario per Le luci della centrale elettrica

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Se ne parlava già da un po’, in rete e non solo, e l’attesa si è fatta davvero alta, ma adesso si può dire: il gran ritorno di Le luci della centrale elettrica è fissato per il prossimo 3 marzo.

Il nuovo album si intitola Terra, è prodotto artisticamente da Vasco Brondi e da Federico Dragogna, e uscirà in formato CD+libro e vinile+libro.
Terra uscirà a forma di libro – scrive  Brondi. – Dentro, oltre al disco, c’è il suo diario di lavorazione, si chiama La grandiosa autostrada dei ripensamenti, ed è un diario di viaggio e di divagazioni dell’anno e mezzo di scrittura e degli ultimi tre mesi di registrazioni in studio. È ambientato tra l’Adriatica e un’isola vulcanica, tra studi di registrazione seminterrati e paesi disabitati in alta montagna, tra la Pianura Padana, il Nord Africa e l’America.”
copertina_terra_lldceA proposito del nuovo lavoro, Brondi lo anticipa così: “Terra è un disco etnico ma di un’etnia immaginaria (o per meglio dire “nuova”) che è quella italiana di adesso. Dove stanno assieme la musica balcanica e i tamburi africani, le melodie arabe e quelle popolari italiane, le distorsioni e i canti religiosi, storie di fughe e di ritorni.”

La copertina dell’album raffigura un’opera di land art dell’artista svizzero Ugo Rondinone: “Dalla prima volta che ho visto quest’opera su internet, qualche mese fa, ho capito che aveva a che fare con quello che stavo scrivendo. Si chiamano Seven Magic Mountains, sorgono nel deserto del Nevada, sono enormi e fosforescenti ma sono solo pietre accatastate l’una sull’altra. Fanno capire come gli esseri umani riescono a rendere spettacolare anche un deserto e contemporaneamente sono una metafora di Las Vegas, a mezz’ora di distanza, ovvero del niente luccicante. O della nostra terra, lo splendido deserto italiano visto con gli occhi di chi cerca di sbarcarci. È un’opera di Ugo Rondinone, un artista svizzero che vive a New York. La fotografia invece è di Gianfranco Gorgoni, originario di un paese che si chiama Bomba in Abruzzo si è trasferito a New York negli anni Sessanta ed è diventato tra le altre cose un’importante fotografo di Land Art, quando questa forma d’arte non aveva ancora un nome. Ho scoperto anche che era sul palco a Woodstock e sono sue le foto di Jimi Hendrix durante quel concerto e anche molti dei ritratti leggendari di Basquiat o di Keith Haring. Io avevo in casa una sua foto in cui c’erano uno accanto all’altro De Chirico ed Andy Wharol, due mondi distanti vicinissimi.”
All’uscita del disco seguirà un tour che partirà il 16 marzo.
Queste le date:
16/03 – FONTANAFREDDA (PN) – ASTRO CLUB (data zero)
17/03 – CESENA – VIDIA
23/03 – TORINO – HIROSHIMA MON AMOUR
24/03 – RONCADE (TV) – NEW AGE
31/03 – NAPOLI – DUEL BEAT
07/04 – ROMA – ATLANTICO
08/04 – SENIGALLIA (AN) – MAMAMIA
13/04 – MILANO – ALCATRAZ
15/04 – PERUGIA – URBAN
16/04 – GROTTAMMARE (AP) – CONTAINER
17/04 – MOLFETTA – EREMO CLUB
21/04 – BOLOGNA – ESTRAGON
23/04 – GENOVA – SUPERNOVA
27/04 – TRENTO – SANBAPOLIS
28/04 – FIRENZE – OBIHALL
Tutte le informazioni sul tour e gli aggiornamenti sul disco sono disponibili sul sito ufficiale www.leluci.org e sulla pagina Facebook ufficiale www.facebook.com/LELUCIDELLACENTRALEELETTRICA.

Brunori SAS, un disco tra la camera e il mondo

“Vivo stabilmente a San Fili, che è un piccolo paesino in provincia di Cosenza. Lontano dalle città, lontano dal giro degli artisti, lontano “dall’ambiente”.4-1 Il mio manager ha provato a rivendersi la cosa come scelta radical chic sulla riscoperta dei valori della provincia contadina. Fesserie. È vero, sì, che sto in collina, che dalla mia finestra posso ammirare un panorama strepitoso, che non ho problemi di parcheggio e ansie metropolitane, ma di certo non faccio l’orto, non gioco a carte con i vecchietti del paese, non produco vino e non faccio lunghe passeggiate fra gli alberi di castagno. Semplicemente sto a casa e ci sto bene.Tolti i soggiorni a Milano e i  giretti che faccio per mestiere, meno una vita normale e anche un po’ noiosa. Monto le mensole a casa di mia madre, cullo i miei nipoti, controllo i social, mi drogo di Netflix, passo nottate a giocare a Risiko. Cose così. C’è di buono, in questa quiete domestica, che ho tanto tempo per riflettere e cercare le risposte. C’è di male che spesso guardo il mondo da dietro una finestra. Una vita poco vissuta, più che altro una vita pensata. La casa di cui parlo, ovviamente, non è solo quella in cui vivo. La casa di cui parlo è la mia comfort zone, il mondo che conosco e in cui mi riconosco. La casa di cui parlo è tutto ciò che mi fa star bene perché non mi mette in discussione. La casa di cui parlo è quella che mi tiene al riparo da quel che accade fuori”.

È lo stesso Brunori a descrivere così l’idea da cui è nato il suo quarto album, A casa tutto bene. Un disco metaforicamente nato nella tratta Lamezia-Milano, quella percorsa dal cantautore per raggiungere i due poli della sua vita: Lamezia da una parte, ovvero le origini, la famiglia, la “casa”, e Milano dall’altra, ovvero la metropoli, il lavoro.
Pur con una scrittura sempre brillante, questa volta Dario Brunori ha un po’ meno voglia di ridere, un po’ meno voglia di adagiarsi sulla ballata sentimentale o di usare l’ironia per smorzare il malessere: l’uomo sta andando incontro all’imbarbarimento, è circondato da ansie, paure che lo tormentano alimentate dai fantasmi del razzismo, dell’omofobia, della violenza, e di fronte a questa società in gran disfacimento questa volta l’artista ha optato per un linguaggio diretto, amaro se necessario.
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Sono gli anni dell’immigrazione, dell’“uomo nero” che semina terrore sull’autobus solo per aver aperto un Corano ed essersi messo a pregare ad alta voce, anni in cui al pregiudizio basta davvero poco per venire a galla nella fila in posta, su un taxi, al tavolo di un bar sui Navigli. Non è quindi un caso che nell’album ci sia un brano come Uomo nero, forse il più politico composto finora da Brunori, così come trova una perfetta collocazione Canzone contro la paura.
adr_1654Ma l’acuta analisi non si ferma qua: anzi, il vero fulcro dell’album sta nella doppia polarità di cui parlava sopra il cantautore, ovvero Lamezia-Milano, casa-lavoro, camera-mondo. Non vi è tanto un interesse nel puntare il dito sul'”altro”, sul mostro intorno a noi, quanto piuttosto nel trovare il mostro che proprio in noi si annida, l’individuo incivile che accusiamo nel prossimo, ma che talvolta diventiamo noi stessi. Ecco allora l’errore, spesso inconsapevole, di chi guarda il mondo dalla finestrella del proprio cantuccio, filtrato dall’agio, dalla famiglia, da tutto ciò che, insomma, chiamiamo casa.
Una visione inevitabilmente parziale, limitante, addirittura distorta, dettata da una pigrizia di cui lo stesso Brunori sa di essere (stato?) affetto, e che fa diventare complice di una “maggioranza silente” che vede l’orrore e la rovina ma non fa poi molto per fermarli. Brunori lo racconta in Sabato bestiale, Don Abbondio.
Tutto sembra comunque trovare soluzione in Secondo me, canzone che fa emergere la parte moderata, la capacità di accettare il peggio, di “scorgere nell’uomo sia ciò che lo rende misero, che ciò che lo rende divino”.

Impossibile in tutto ciò non cogliere anche le profonde impronte “degregoriane” nell’uso delle parole, delle melodie, e più in generale nell’attitudine: ed è forse proprio qui che si scopre il tallone d’Achille di questo disco, il suo indulgere un po’ troppo a certi modelli, mostrando legami un po’ troppo forti.

Musicalmente, per questo nuovo capitolo, il suono di Brunori SAS si è fatto tridimensionale, molto più stratificato del passato, ed è stato affidato alle mani di Taketo Gohara: si fondono i ritmi della Calabria e i sintetizzatori, i computer usati “in modo creativo”, la mandole del ‘700 con i loop e le drum machine. Anche l’approccio compositivo è stato diverso, con un lavoro svolto su ogni musicista singolarmente, che ha permesso all’album di avere più che mai un impianto “da band”.

#BITS-RECE: Franky Maze,Nght/Flood. Tra il blues e la Bibbia

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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In genere chi si muove nell’ambito gothic/dark tende a ripetere il medesimo standard fatto di testi tristi e decadenti, accompagnati da vestiti sonori oscuri, al punto che spesso la sensazione è quella di trovarsi immersi in un mare di cliché, uno schema portato avanti per inerzia, dove l’unica desolazione che si percepisce è quella creativa.
Poi capita che qualcuno trovi la via per proporre soluzioni nuove, combinazioni di stili inedite o almeno desuete, come questo Night/Flood, primo EP di Franky Maze, al secolo Francesco Mazzi, musicista bolognese che ha trovato un’interessante chiave per combinare il folk di matrice americana e il dark.
Due mondi apparentemente inconciliabili, che trovano nei suoi brani nuove, stimolanti suggestioni notturne.
Per simboleggiare questa unione, Maze ha preso l’ultima parola del primo e dell’ultimo brano – ciascuno rappresentativo di questi due mondi musicali – per formare il titolo, Night/Flood appunto. Un EP di cinque canzoni dense di citazioni bibliche e rimandi al blues delle origini, che guardano ad artisti come Nick Cave.
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L’apertura con Dark Was the Night, presenta per esempio le note luminose del mandolino, Great Sleeve rievoca un rituale sciamanico, Wayfaring Stranger è invece un brano tradizionale americano in versione rivisitata.
E per controbilanciare l’apertura luminosa del primo brano, il disco si chiude con Love Is the Flood, canzone dalle atmosfere decisamente dark.

Tempi dispari, mosche e Radio Maria: l'elettronica secondo Demonology HiFi


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Dietro al progetto Demonology HiFi si nascondono Max Casacci e Ninja, vale a dire due quinti dei Subsonica, vale a dire due fanatici dell’elettronica intesa nella sua più libera accezione. E libertà sembra proprio essere la parola d’ordine che si ascolta in sottofondo alle tracce di Inner Vox, il loro primo album.

Un lavoro partorito dopo due anni di dj set, un test diretto e validissimo per raccogliere dalla pista dei club le sensazioni di ciò che poteva funzionare e ciò che invece andava rivisto. Elettronica si diceva, concetto già di per sé piuttosto ampio, ma che rompe ulteriormente i cardini in questo album, dove non solo i synth si scontrano con influenze jamaicane, gregoriane o più semplicemente pop, ma all’interno del quale trovano spazio anche tempi dispari, campionamenti del ronzio di insetti e registrazioni radiofoniche.
“Abbiamo preso come base la musica bass, ma non volevamo ricreare suoni prestabiliti o riconducibili a qualcosa di noto”, spiegano i due musicisti. “Siamo partiti dal beat, che è il vero cuore del progetto, tutto il resto è arrivato in un secondo momento. Ci siamo concentrati sulla pulsazione, sul ritmo, auspicando anche un coinvolgimento fisico oltre che emotivo”.
La “inner vox” del titolo è quella voce interiore che la musica elettronica può portare in superficie, un interiore dialogo di coscienza, che – in stile avatar – come due predicatori in giacca e cravatta e muniti di crocifissi con led Made in China Casacci e Ninja si prefiggono di suscitare nell’ascoltare, per “purificarlo e redimerlo”. Ironia, of course, ma fino a un certo punto, perché in Inner Vox la componente liturgica c’è, ed esprime tutta la sua forza: in I miei nemici è stata infatti campionata la voce di un reale predicatore intercettato sulle frequenze di Radio Maria mentre recitava versetti del Libro dei Salmi, “uno dei più violenti dell’Antico Testamento. La frase e ho distrutto quelli che mi odiavano sembra uscire da un brano metal o hard core, e ci è sembrata perfetta per quello che volevamo fare, anche perché i predicatori seguono un ritmo regolare nello scandire le parole, ideale per adattarsi sulle sequenze di beat“, racconta Casacci.
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Oltre al “featuring” con Radio Maria, in Inner Vox si incontra la presenza di Bunna, storica voce degli Africa Unite, i Niagara, Birthh, Populous – tre artisti italiani che hanno trovato terreno fertile all’estero – e poi Cosmo, rappresentante della nuova scena italiana, qui per la prima volta alle prese con un rap: “Oggi non ha più senso parlare di territorialità nella musica, il digitale ha portato a una completa laicità e anche il pubblico non è più diviso in compartimenti: l’elettronica ha fatto a pugni con il rock e ha vinto, riuscendo ad arrivare nel pop. Il pubblico rock sarà probabilmente il prossimo a essere catturato dall’elettronica. In questo disco abbiamo messo tutta la libertà possibile, perché non è un progetto destinato alle radio o alle classifiche: non abbiamo voluto nomi di grande richiamato, ma ospiti che abbiano saputo confrontarsi con l’estero senza chinare il capo. L’ultimo a essere coinvolto è stato Cosmo, uno che è arrivato in radio dopo aver riempito i locali, proprio come fecero i Subsonica negli anni ’90. È stato lui a voler sperimentare il rap, e siamo stati ben contenti di lasciarglielo fare”, prosegue Casacci.
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Tra gli elementi più interessanti, la presenza di alcuni pezzi in tempi dispari, d’inciampo: “Se il flusso sonoro è costante, l’ostacolo non viene nemmeno percepito” dice Ninja, “e già con i Subsonica avevamo azzardato qualcosa del genere con Disco labirinto, un pezzo da ballare che però non è nei soliti quattro quarti”.
Un progetto che raduna suggestioni diverse, maturate in momenti diversi, come nel caso di Realismo magico, una cumbia che sfocia nel drum’n’bass.
Ma ci sono anche ronzii di insetti campionati qua e là e poi trasformati in beat ipnotici, ed ecco spiegato il perché della copertina, con il mega ingrandimento della mosca.
Inutile dire che sarà il dj set l’ambente idoneo a ospitare dal vivo il connubio di danza e purificazione di Demonology HiFi.
Siete invitati, atei, scettici e credenti: il flusso di beat risucchierà tutti quanti.

Apriti cielo: il ritorno di Mannarino tra Brasile e Mediterraneo

Alessandro Mannarino fa parte della nuova generazione di cantautori, di quella nuova messe di musica italiana che per anni si è mossa tra i cunicoli della scena indipendente e poi pian piano a iniziato ad affiorare, affiancandosi ai nomi più illustri, talvolta soppiantandoli, anche solo per un fattore generazionale. mannarinoweb_phmagliocchetti005In questo nuovo a vigoroso esercito, oltre a Mannarino figurano Brunori SAS, Le luci della centrale elettrica (ovvero Vasco Brondi), Cosmo, Paletti, Dente, Edipo, Ermal Meta e tanti, tanti altri.
Il loro è uno sguardo nuovo, per certi aspetti ancora incontaminato, “vergine”, ma attento, lucido: non sono più mossi dall’onda politicante dei loro maestri De Gregori, Fossati, Guccini, spesso usano l’ironia, sconfinano trai generi, portando il rock nell’elettronica, il pop nell’hip-hop.
Mannarino, per esempio, per il suo quarto album Apriti cielo, ha fatto una grande (grandissima) ricerca sonora che ha collegato il Mediterraneo con le sponde del Brasile, il blues con il folk, il pop con le suggestioni di Bahia, ha fuso mandolino e samba.
Nelle nove tracce del disco si parte da Roma – e da dove sennò – per arrivare al folklore del sud, dell’Africa, del jazz, fino appunto al vento brasilero, lo stesso che anni fa ispirò la Vanoni, tanto per fare un altro grande nome.
A differenza delle opere di molto suoi colleghi, Apriti cielo non è un album grigio, non disegna cieli nuvolosi: al contrario, è un disco in cui splende un sole meraviglioso, anche se di motivi per festeggiare non c’è ne sono poi così tanti.

mannarino_phmagliocchetti004-ok“Mi piace il fatto che l’espressione “apriti cielo” – racconta Mannarino – possa essere letta in modi diversi, sia come un’esortazione che come esclamazione, e mi piace il fatto che ognuno possa dare il proprio senso e significato al titolo, come quando si guardano le nuvole o le stelle e si creano delle forme. Siamo noi che mettiamo i significati nelle cose della vita, possiamo trovare un senso positivo o negativo a tutto quello che viviamo… questo è un po’ il significato del disco: la tua vita dipende da te”.Non è che Mannarino le tragedie non le veda o non ne parli: di inquietudini c’è ne sono, soprattutto sul finale, ma non si sente quella voglia di sedersi sui problemi, crogiolarcisi dentro piangendo lacrime commiserevoli. Si canta per esempio la Roma ferita, così come c’è il riferimento doloroso ai migranti, raccontato con trasparente e imbarazzante verità, ma non si può non sentire tutta la forza vitale dei cori inseriti in diversi punti dell’album, come in Apriti cielo, Arca di Noè, la quasi favolistica Babalù e addirittura la conclusiva Un’estate, che è tutto tranne che una canzone positiva. apriticielo_CD_cover_front_12x12
Tanti, più di 30, i musicisti che hanno dato il loro apporto (Enzo Avitabile tra questi), mentre a mixare è stato chiamato Michael H. Brauer.
La nuova era dei cantautori italiani è davvero arrivata.

Aspettando il Super Bowl: l'ultimo anno di Lady Gaga

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Sicuramente ha già deciso la scaletta, probabilmente ha già scelto gli abiti e forse ha anche già imparato a memoria le coreografie: fra poche settimane Lady Gaga ha un impegno, penso di poter dire il più importante della sua vita, almeno fino a oggi. 

Domenica 5 febbraio infatti sarà lei la protagonista dell’Haltime Show alla cinquantunesima edizione del Super Bowl, la finale del campionato di football americano, ovvero il più atteso evento mediatico per gli Stati Uniti, che quest’anno si svolgerà all’NRG Stadium di Houston: un evento che ogni volta raccoglie davanti al televisore almeno 100 milioni di telespettatori sparsi per il mondo.L’Halftime Show è un vero e proprio miniconcerto di un quarto d’ora scarso che riempie l’intervallo tra i due tempi della partita, e la popstar ci sta lavorando almeno da settembre, quando la sua presenza è stata ufficializzata.
Una tappa che ha segnato la carriera dei nomi più mastodontici della musica mondiale, da Michael Jackson a sua sorella a Janet (vi ricordate lo scandalo del capezzolo nel 2004?), passando per Diana Ross, Shania Twain, i Black Eyed Peas, Paul McCartney, Prince, Bruce Springsteen, Madonna, Beyoncé, Katy Perry, fino ai Coldplay e Bruno Mars, protagonisti dell’ultima edizione.

Per Gaga la partecipazione al Super Bowl 2017 non sarà però la prima: proprio l’anno scorso era infatti stata affidata a lei l’apertura dell’incontro con l’inno americano. Una responsabilità che in passato ha visto scivolare grandi artisti in esibizioni non esattamente memorabili (vi ricordate Christina Aguilera?), ma a cui Lady Gaga è andata incontro brillantemente: fasciata in un completo rosso metallizzato, la Germanotta ha offerto una performance barocca (e forse un po’ troppo enfatica) di The Star-Spangled Banner, accolta da unanime entusiasmo. Pare sia stato proprio il successo di quell’esibizione ad aver convinto gli organizzatori a scegliere lei per l’Halftime Show 2017.

Ma il 2016 si era già aperto per la cantante nel migliore dei modi, con la vittoria ai Golden Globe come miglior attrice in una serie televisiva per la sua interpretazione in American Horror Story: Hotel nel ruolo della Contessa. Per Stefani Germanotta non si trattava della prima esperienza davanti alla macchina da presa, ma era la prima volta che veniva nominata per un premio così prestigioso.

Neanche una settimana dopo l’esibizione sul campo del Super Bowl con l’inno americano, Gaga è poi salita sul palco dei Grammy, dove era attesa per rendere omaggio a David Bowie. Realizzata in collaborazione con la Intel – azienda specializzata in dispositivi elettronici -, la sua è stata un’esibizione decisamente scenografica, in cui lo stile “gaghesco” ha preso sotto braccio il mondo del Duca Bianco, in un incontro di musica e tecnologia.
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A fine febbraio è stata invece la volta degli Oscar, dove Gaga si è lasciata sfuggire il premio per la miglior canzone originale (Til It Happens To You, presente nella colonna sonora del documentario The Hunting Ground), lasciando comunque il segno con una toccante performance: vestita di bianco, seduta al pianoforte, la cantante è stata raggiunta sul finale da cinquanta ragazzi vittime di abusi sessuali.

Il 2016 infuocato di Lady Gaga è proseguito poi con l’onore che le ha riservato il patinatissimo V Magazine, per il quale Gaga è stata direttrice nell’intera issue primaverile: per l’occasione, la rivista è uscita in edicola con ben 16 differenti copertine, record mai raggiunto prima. All’interno, servizi fotografici firmati tra gli altri da Steven Klein, Terry Richardson e Nick Knight.


A maggio la popstar ha raccolto l’invito della superdirettrice di Vogue Anna Wintour e non si è fatta mancare la scintillante sfilata sul tappeto rosso del Met Gala, l’evento modaiolo che richiama ogni anno al Metropolitan di New York il gotha del mondo dello spettacolo: richiamandosi al tema della serata, incentrato sulla moda nell’era della tecnologia, Gaga ha sfoggiato un abito di Versace ispirato alle componenti elettroniche .
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Con l’arrivo dell’estate, l’attenzione si è pian piano concentrata sull’attesissimo ritorno discografico, del quale si sono via via svelati i dettagli: ad aprire le danze è stato a inizio settembre il singolo Perfect Illusion (che forse non ha avuto i risultati sperati), mentre il nuovo album è arrivato il 21 ottobre. Il titolo, Joanne, è un omaggio alla zia, sorella del padre, morta in giovane età: con questo nuovo disco abbiamo assistito a un deciso cambiamento di rotta nel percorso musicale di Gaga, che ha messo un po’ da parte il pop, la dance e l’elettronica dei lavori precedenti per abbracciare più intime atmosfere acustiche, di chiara influenza country. La risposta del pubblico non si è comunque fatta attendere e per la quarta volta consecutiva un album di Lady Gaga ha debuttato al primo posto della classifica americana.
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Per far prendere confidenza con il nuovo album, già all’inizio di ottobre Gaga aveva dato il via al Dive Bar Tour, una tranche di tre concerti ambientati in altrettanti bar a Nashville, New York e Los Angeles. Tra le attività promozionali legate al disco non si possono inoltre non citare la partecipazione al Carpool Karaoke di James Corden, divenuto nell’ultimo anno uno degli appuntamenti della TV americana più seguiti, e l’esibizione ai Billboard Awards con il singolo Million Reasons.


Dopo un 2016 a dir poco intenso, da alcune settimane tutto l’impegno di Lady Gaga è dedicato alla preparazione dello show del Super Bowl.
Al momento però ogni dettaglio su ciò che farà è celato dietro una cortina di mistero, salvo per qualche foto, da cui però non si deduce granché.

Provando a fantasticare, ho pensato a quale spettacolo mi piacerebbe vedere sul campo dello stadio di Houston, e questa è la scaletta del mio ideale Halftime Show targato Gaga:
Just Dance
Born This Way/Express Yourself (featuring Madonna)
Bad Romance
Poker Face
Telephone (featuring Beyoncé)
Million Reasons
You And I (featuring Lady Antebellum)
The Edge Of Glory.

Quanto questa fanta-scaletta è esatta lo si scoprirà il 5 febbraio. Nel frattempo l’attesa cresce e i preparativi fervono….

BITS-RECE: The xx, I See You. Tra il metallo e il cristallo

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Si fa presto a parlare di indie rock, rock elettronico, indie electronic. Quando ti trovi davanti a un album come I See You dei The xx non che restare spiazzato è incantato, soprattutto perché questo terzo lavoro prende molta distanza – non solo temporale – dal precedente Coexist, uscito ben cinque anni fa.
Quando sono arrivati, della loro musica si diceva in giro che avesse suoni minimali, e lo si diceva così tanto che loro stessi, per diretta ammissione, hanno finito per crederci portando il concetto quasi all’esasperazione con il secondo album.
Con I See You però il passo cambia un po’, e le ambizioni si fanno sentire.
Dentro al nuovo album ci sono brani con percussioni è basso che fanno tremere la carne e le ossa, come Dangerous, messa in apertura, ci sono interventi brillanti come il singolo Say Something e A Violent Noise, momenti trasognanti come Lips, e poi il nocciolo dell’album, con la terna di Performance, Replica e Brave For You che ti lasciano lì imbambolato ad ascoltarle nel loro incanto su sfondi metallici e decori di cristallo.
Un incanto che dopo le nuove vibrazioni danzerecce di On Hold e I Dare You, si ritrova nella chiusura perfetta, epica e gelida di Test Me.
Non so se è più rock, più indie o più elettronico: di certo, I See You è gran bel disco.

Mecna, a sorpresa è arrivato Lungomare Paranoia

E’ arrivato a mezzanotte praticamente a sorpresa, anticipato solo da countdown su Facebook, Lungomare Paranoia, il terzo album di Mecna.
Disponibile ovunque in streaming e in tutti i negozi reali e virtuali, l’album è inoltre acquistabile su www.musicfirst.it in uno special-pack in edizione limitata a 150 pezzi contenente cd, t-shirt esclusiva e libro-fanzine che raccoglie appunti, grafiche e opere di vari artisti sull’immaginario del disco, il tutto curato dallo stesso Mecna.
Lungomare Paranoia arriva a due anni di distanza dall’acclamato Laska, che ha consacrato il rapper come una delle voci più originali e uniche della scena musicale italiana.
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Lungomare Paranoia è il disco che ho composto con più libertà, nel senso che non mi sono posto limiti di tematiche e suoni. Sono cresciuto e al mio terzo album ho voluto fare le cose completamente a modo mio, un approccio che comunque ho sempre avuto, ma mai così evidente e deciso come ora. Forse prima non ero così sicuro dei miei mezzi, ma questa volta credo sia arrivato il momento di essere davvero me stesso, senza paura delle critiche, soprattutto in un momento di grande fermento e apertura tra le diverse realtà della scena musicale italiana”.
Un lavoro che prende le distanze dagli schemi e dalle sonorità che caratterizzano il rap italiano, con riflessioni ancora più intime e personali, capaci di parlare a una generazione che guarda con paura al futuro.
Come sempre Mecna ha dato massima importanza alla ricerca sonora, cercando formule innovative ed esplorando territori elettronici sempre più sperimentali ed evocativi, con la collaborazione di produttori fidati come Iamseife, Lvnar e Alessandro Cianci, beatmaker come Fid Mella, The Night Skinny e 24SVN, il talento dell’elettronica Godblesscomputers e il giovanissimo producer francese Nude.
Questa la tracklist:
01. Acque profonde
02. Vieni via
03. Infinito
04. Malibu
05. 71100
06. Soldi per me
07. Labirinto
08. Nonostante sia
09. Superman
10. Non serve
11. Il tempo non ci basterà
12. Buon compleanno
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BITS-RECE: Baustelle, L’amore e la violenza. Tra rose, cinismo e nostalgia

BITS-RECE: radiografia di un disco in una manciata di bit.
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Il mio amore per i Baustelle è scoppiato nell’autunno del 2005 con La malavita, il loro terzo album. Ero ai primi mesi di Università e in quelle canzoni ritrovavo un che di ribelle e peccaminoso che ben si addiceva alla nuova aria di libertà che stavo respirando dopo gli anni di liceo. Poi il mio sentimento si è consolidato con Amen, che resta per me il loro capolavoro, una perfetta unione di nostalgia melodica e poesia della parola.
Con i Mistici dell’Occidente li ho invece capiti un po’ meno, per tornare a “riconoscerli” nella sontuosità di Fantasma.

Ora il gruppo toscano torna con L’amore e la violenza, ed è un nuovo, incantevole capitolo della storia. Un album che comunque si distacca molto dal precedente, abbandonando la veste sinfonica, il pessimismo cosmico e i tratti quasi macabri dei testi: non c’è certo ottimismo, ma la punta della penna di Francesco Bianconi sembra essere stata bagnata da cinismo e ironia più che da disperazione.
L’occhio della band è sempre più che vigile sul presente – tra migranti, terrorismo e giubileo -, le citazioni sono sempre tante e sempre ben mescolate (scovarle può essere un giochetto divertente, ma personalmente non mi è mai interessato indagarle fino in fondo) e la bellezza della parola mantiene sempre l’innocente limpidezza che abbiamo imparato a conoscere ed apprezzare.
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I Baustelle sanno far incontrare e convivere sacro e profano, fede e agnosticismo, grazia e bruttura, impegno e disincanto, passione e castità, peccato e redenzione, filosofia e lascivia, Abba e Battiato, e in L’amore e la violenza c’è tutto quel loro essere così naturalmente dandy, retrò, ma senza ostentazione, il loro essere scenicamente tragici e nostalgici, mentre riescono a infilare nelle canzoni quei due o tre accordi che ti bombardano la testa e il cuore, da Il Vangelo di Giovanni, a Betty, la stupenda Amanda Lear, forse il singolo più “baustelliano” dai tempi di Le rane, e La vita.
Un disco “oscenamente pop” dicono loro, e possiamo anche condividere, se non fosse che – purtroppo – non sempre il pop sa essere così nobile.
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Le ultime righe le vorrei spendere per Francesco Bianconi, creatura di gusto e stile sopraffini, un Oscar Wilde dei nostri giorni, soprattutto un autore aureo della musica italiana. Uno che è capace di farti venire i lucciconi scrivendo anche solo di una serata in discoteca, per passare subito dopo a citarti D’Annunzio. Uno che dovrebbero inserire nel patrimonio Unesco, tanto la sua anima è preziosa.

Insomma, Baustelle, vi amo!