BITS-CHAT: Sguazzare nei propri limiti. Quattro chiacchiere con… Francesco Gabbani

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27 novembre 2015
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È questa la data che ha dato inizio al periodo mirabilis di Francesco Gabbani. Quella sera infatti, durante lo speciale in diretta su Rai 1 la sua Amen si è guadagnata l’accesso tra le Nuove Proposte di Sanremo 2016 e soprattutto portava il suo nome davanti al grande pubblico.
Da lì in avanti è stato un susseguirsi di successi, impegni, concerti: la partecipazione al Festival e la vittoria, i primi dischi di platino, il ritorno a Sanremo nel 2017 con Occidentali’s Karma e la nuova vittoria, questa volta nella categoria principale, i cinque dischi di platino del singolo e le oltre 160 milioni di visualizzazioni del video, l’album Magellano certificato platino e il lungo tour estivo.
Tutto fino ad arrivare oggi alla riedizione dell’album, chiusura perfetta di un cerchio: Magellano torna infatti in vendita con un secondo disco registrato dal vivo durante i concerti di questa estate, con all’interno anche molti brani di Eternamente ora, l’album pubblicato lo scorso anno.
Gabbani mette così il punto finale a un folgorante capitolo di vita e di carriera.
Si chiude l’era “della scimmia” – che in realtà è stata anche molto, molto di più – tra note di filosofia e un’ironia non sempre compresa.

E se Gabbani vi dicesse che vi ha dedicato una canzone… beh, aspettate ad ascoltarla prima di farvene un vanto!
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Siamo arrivati alla conclusione di un ciclo?
Direi di sì. In questi due anni ho avuto tante soddisfazioni, ma adesso mi sento stanco, è stata una corsa continua. Proprio pochi giorni fa ho finito le riprese del video di La mia versione dei ricordi, che arriverà in radio il 24 novembre: l’abbiamo girato in montagna, sulle Dolomiti, dove c’erano 7 gradi sotto zero. Anche questa esperienza ha contribuito a provarmi un po’.
Qual è la soddisfazione più grande che ti sei tolto dal successo di Amen ad oggi?
Al di là dei messaggi poetici, devo dire che la soddisfazione più grande è stata essere riuscito a vivere di musica. Dopotutto, la vita è fatta di lavoro: solo così si guadagna un posto nella società, e io da quest’anno ho ottenuto l’indipendenza facendo quello che mi piace.
Un aspetto negativo in tutto quello che ti è successo riesci a trovarlo?
Il non poter stare per conto mio, tra me e me. È un prezzo che devi pagare con la notorietà, e ne ero consapevole.
Il CD live che accompagna la nuova edizione di Magellano si intitola Sudore, fiato e cuore, tre parole simbolo degli ultimi mesi?
Fanno parte del ritornello di Magellano, e descrivono bene lo stato d’animo che ha accompagnato il tour, e più in generale tutto il percorso che mi ha fatto arrivare qui: sudore, perché ce n’è stato tanto, fiato, perché è servita parecchia resistenza, e cuore, perché è stato tutto pieno di emozioni.
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È un successo che ti ha colto di sorpresa?
Sì, soprattutto perché un caso come il mio non si vedeva da parecchio in Italia: ho sempre creduto in quello che ho fatto, ma quando il pubblico mi ha conosciuto con Amen, a Sanremo, non avevo alle spalle una grande esposizione mediatica o televisiva, non faccio parte del mondo dei talent e non sono più giovanissimo. Era da diversi anni che non succedeva qualcosa di simile.
Dopo il successo di Occidentali’s Karma, all’Eurovision si è creata una pressione fortissima su di te, e in molti ti davano per favorito. Sei rimasto deluso per come è andata?
Proprio per come è andata sono sicuro di aver vissuto quell’esperienza con lo spirito giusto, e cioè non essendo per nulla convinto di poter vincere. A me il successo è arrivato quando nessuno ci avrebbe scommesso, per cui immaginavo che il destino avrebbe riservato la stessa sorte a qualcun altro, e così è stato. Al di là di tutto però, l’Eurovision ha permesso a Occidentali’s Karma di prendere un respiro internazionale, e sono molto contento dell’accoglienza che ho ricevuto. Inoltre, se avessi vinto non mi sarei potuto concentrare sul pubblico italiano.
C’è un mercato straniero in cui ti piacerebbe lasciare un segno?
D’istinto ti direi l’America, perché è un po’ la grande ambizione, ma so che è quasi impossibile. Non ci ho mai pensato molto, anche perché per poter lasciare davvero un segno all’estero serve l’inglese, ma io non lo padroneggio ancora abbastanza bene nella scrittura per poterne fare una licenza poetica.
Non temi un po’ di essere ricordato solo come “quello della scimmia”?
Per strada mi capita ancora di sentire “Gabbani, dove hai lasciato la scimmia?”, ma fortunatamente sono sempre meno, e ci sono invece quelli che apprezzano il fatto di aver citato Desmond Morris. Sapevo che poteva succedere, me ne prendo la responsabilità, e mi rendo anche conto che la presenza della scimmia è stato forse l’elemento che ha permesso alla canzone di restare più impressa. Devo anche dire che mi dispiace un po’ che Tra le granite e le granate non sia stata compresa da tutti fino in fondo, e che molti si siano fermati al divertimento del gioco di parole e delle sonorità orecchiabili. È una riflessione che ho fatto, e con cui però ho fatto pace, perché in fondo mi ha fatto capire che le mie canzoni hanno due tipi di pubblico: quello che le capisce e quello a cui sono dedicate.

Hai già nuovi pezzi pronti?
No, in questi mesi non sono riuscito a scrivere niente. Però sul telefono ho qualche centinaio di note vocali che mi sono registrato quando mi veniva in mente qualcosa da utilizzare in futuro.
Le celebrazioni degli ultimi successi si concluderanno il 20 gennaio al Mandela Forum di Firenze: cosa hai in mente?
Posso ancora dire poco su quello che succederà sul palco. Di sicuro però, so già che quel concerto rappresenterà una sorta di upgrade di quanto ho fatto sinora. Ci saranno più musicisti e porterò in scena una sorpresa a cui tengo molto, da tempo, e che finalmente si concretizzerà. Per me sarà anche l’esordio nei palazzetti, visto che sarà la prima volta che suonerò in una location simile.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Si prende una lunga pausa per pensare, poi mi guarda e scandendo le parole dichiara: La ribellione è il coraggio di rinunciare alla libertà dei propri limiti. Sì, lo so che detta così non vuole dire niente, ma adesso ti spiego. Normalmente ci viene detto che bisogna fare di tutto per superare i propri limiti, invece io credo che uno degli errori che si possano fare è diventare qualcosa che non si è, soprattutto perché ci sono dei limiti che non dipendono da noi, ci vengono imposti. La consapevolezza dei limiti non deve servire a infrangerli, ma deve spingerti a sguazzarci dentro, a tirare fuori il massimo da quello spazio in cui il tuo territorio è delimitato. Prendiamo la mia voce ad esempio: io so che oltre a una certa nota non posso andare, e se ci provassi sarei ridicolo, non ci riuscirei. Quello che devo fare è capire come sfruttarla al meglio per dare emozioni restando dentro ai miei limiti. Un po’ come la scimmia, che è stata il mio limite ma anche la mia libertà.

BITS-CHAT: La felicità grazie alle intemperie. Quattro chiacchiere con… Luca Gemma

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La ricerca della felicità è uno dei temi eterni nella storia degli uomini: da sempre la cerchiamo, ce la inventiamo, e quando ci sembra di averla trovata lei sparisce, rivelandosi un’illusione. E la ricerca riparte, instancabile.
Proprio sulla felicità Luca Gemma ha fatto ruotare il suo ultimo album, La felicita di tutti, perché non solo gli uomini, ma l’universo intero è continuamente mosso dal desiderio di afferrare quella chimera.
A cinquant’anni esatti dai grandi ideali di pace e amore professati dalla cultura hippie, il cantautore di Ivrea racconta in un album la sua concezione di felicità, tra rock, Beatles e inevitabili intemperie.
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Vorrei iniziare chiedendoti di parlare un po’ della scelta delle immagini sulla cover dell’album: si vedono persone, animali, personaggi di fantasia, frutti…

Un disco con un titolo al plurale aveva bisogno di molte immagini per celebrare la molteplicità e la diversità e le foto della fotografa GluLa erano perfette. Rappresentano simbolicamente quelli che vogliono essere felici e che trovi dentro le canzoni.
All’interno del disco si respira un’atmosfera un po’ “fricchettona”: a 50 anni esatti dalla nascita del movimento hippie, cosa è rimasto di quel periodo? Quegli ideali sono ancora proponibili nel mondo di oggi?
Il pacifismo, il rispetto dell’ambiente e la lotta alla disuguaglianza sociale sono nati con quella generazione di giovani che nel 1967 avevano 18, 20 anni. E’ un loro merito e lo slogan Peace And Love in un mondo fortemente dominato dal dio denaro avrebbe ancora il suo bel significato. Non si vede però una generazione disposta a rinunciare al proprio individualismo per una visione così altruistica del mondo. Sia chiaro, non lo è stata neanche la mia, che aveva 20 anni a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90.
L’unica cover del disco è un brano di Caetano Veloso, Cajuina: a cosa è dovuta la scelta? E perché il testo è stato tradotto in italiano?
Io scelgo le canzoni in modo istintivo. Di Cajuina mi piace la sua struttura circolare e ripetuta e mi ha sempre colpito il suono del testo originale in portoghese brasiliano. Oltre al fatto che è molto poetico. Da lì è partita la mia sfida a scrivere un testo che rispettasse più il suono che il significato, pur stando dentro quel mood. Senza le parole in italiano non l’avrei cantata.
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Qua e là non è difficile scorgere tra i brani riferimenti ai Beatles: cosa hanno rappresentato in particolare per te?
Io i Beatles li ho scoperti relativamente tardi. Da adolescente e da ragazzo il loro suono non mi piaceva. Preferivo nettamente l’hard rock, la musica black e i cantautori degli anni ’70. Poi mi sono appassionato al beat con dischi come Aftermath dei Rolling Stones e anche in quel caso preferivo loro ai Beatles. Finalmente un giorno ho preso coscienza dell’immensità che rappresentano per chiunque si avvicini al rock e alla forma canzone. La gioia che mi danno alcuni loro dischi è un misto di emozione e piacere estetico e intellettuale che non finisce mai.
Nel brano che chiude il disco, Futuro semplice, auguri ai tuoi figli di mantenere sempre uno sguardo incantato sul mondo, agendo in totale libertà: tu oggi, da padre e soprattutto da adulto, pensi di essere riuscito a seguire questi ideali? Quanto la vita ti ha portato a ridimensionare le tue aspettative?
Accorgersi della bellezza e non dare nulla per scontato è ciò che ti tiene vivo e io credo tutto sommato di riuscirci ancora, nonostante le intemperie. A volte è proprio grazie alle intemperie che te ne accorgi.
In definitiva, secondo te la felicità è un’utopia o è una meta che possiamo davvero raggiungere?
La felicità di tutti è certamente un’utopia in un mondo sempre più pieno di disuguaglianza, ma è giusto pensare e fare in modo che le cose cambino. Quella individuale è fatta di momenti e bisogna farsi trovare pronti. E ognuno ha il compito di trovare il modo che gli si addice di più.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Pensare con la propria testa in un mondo in cui le sollecitazioni sono così tante e continue da distrarti da ciò che pensi con la tua testa. Tenere a bada queste distrazioni e non esserne in balìa è una forma di ribellione perché vuol dire abdicare al ruolo di consumatore vorace di oggetti e sentimenti, ovvero quel ruolo che è stato assegnato a ciascuno di noi. Bisogna saper andare al nocciolo dei propri desideri.

BITS-CHAT: Un treno in viaggio tra l'Irlanda e la "solitaritudine". Quattro chiacchiere con… Emanuele Dabbono

Emanuele Dabbono - Totem3La storia dell’ultimo album di Emanuele Dabbono è iniziata nel 1997, esattamente vent’anni fa, e ha trovato la perfetta conclusione in soli tre giorni di registrazione in una chiesa sconsacrata di Arenzano, in Liguria.
È così che ha finalmente visto la luce Totem, un album nudo e acustico, dal forte sapore irish. Un fotografia nitida del suo autore, stampata idealmente su carta ruvida e artigianale.
In mezzo, tra il concepimento e la nascita del disco, tanti altri scatti: la morte del padre, un viaggio in Irlanda, la partecipazione alla prima edizione di X Factor, la paternità e da ultima la collaborazione con Tiziano Ferro, per il quale Dabbono ha firmato alcuni degli ultimi successi (tra gli altri, Incanto e Il conforto), come unico autore sotto contratto in esclusiva.
Dabbono, figlio del cantautorato americano e fedele al suo spirito indipendente e libero, non ha ceduto alle lusinghe di chi avrebbe voluto sporcare il progetto di Totem con l’elettronica per avvicinarlo al pubblico, ma lo lasciato così lo aveva immaginato sin dall’inizio, incontaminato, senza neanche un vero e proprio singolo da consegnare alle radio.
Perché tanto lui il suo successo lo ha già raggiunto, e ha trovato la sua dimensione ideale nella solitudine. Anzi, nella “solitaritudine“.
Perché Totem?
Nella cultura degli indiani d’America il totem è un simbolo sacro. Veniva messo all’ingresso dei villaggi e ogni disegno rappresentava qualcosa di importante per gli abitanti: la famiglia, gli affetti, i legami. Questo disco è il mio totem, perché dentro ci ho messo tutto quello che conta per me: ascoltarlo è un po’ come entrare nel mio villaggio, andateci piano, state maneggiando il mio cuore. È il disco che ho cercato a lungo, ma che ho anche tenuto nascosto.
È anche un disco che ha avuto una gestazione piuttosto lunga.
Il primo pezzo, Piano, è di vent’anni fa, anche se quasi non me ne rendo conto. Negli altri brani si sentono molto le influenze irlandesi perché per un periodo ho effettivamente vissuto in Irlanda dopo la morte di mio padre. Avevo bisogno di staccare da tutto, liberare la testa, e l’Irlanda mi è sembrato il posto adatto per questa sorta di “espiazione”: una volta arrivato, è successo che sono entrato in contatto con la musica di quei luoghi e anziché fermarmi una settimana sono rimasto qualche mese. La musica irlandese mi ha influenzato molto, sono entrato in sintonia con quell’ambiente, mi è piaciuto il contatto che si instaura con la gente girando per i locali. Tornato in Italia mi sentivo molto meglio, ma ho voluto tenere nascosta a lungo la consapevolezza che avevo acquisito, quasi come se fosse qualcosa di privato. È stato Tiziano (Ferro, ndr) a farmi capire che invece la mia forza stava proprio in quelle atmosfere, nelle tenerezza e nella dolcezza che riuscivo a tirar fuori con quella musica, non dovevo per forza fare rock. Da qui ho preso il coraggio per dar forma a questo album.
Questi suoni non sono esattamente quello che ci si aspetterebbe di sentire oggi da un cantautore…
Totem è un disco folle, e ne sono perfettamente consapevole: non c’è reggaeton, non c’è il featuring con qualche rapper, non c’è elettronica. Qualche major sarebbe anche stata disponibile a pubblicare il disco, ma avrei dovuto modificare un po’ il progetto, e non ho voluto. Quello che è venuto fuori è una fotografia nitidissima di me, in HD. Sono già contento che questo disco possa finalmente uscire: poterlo pubblicare è come ricevere il sesto disco di platino.
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A proposito di Piano, ho letto che è in qualche modo legata a John Denver.
L’ho scritta nel ’97, dopo la sua morte. L’idea però non era quella di fare un pezzo dedicato a lui, ma piuttosto riflettevo sul fatto che quelli che noi immaginiamo invincibili e destinati all’eternità se ne vanno. È stata una delle prime canzoni che ho scritto.
Gli altri pezzi quando sono nati?
Sono più recenti, dall’Irlanda in poi, diciamo dal 2006 ad oggi. L’ultima arrivata è Siberia, che ho scritto alcuni mesi fa. Anche in questo senso Totem è un disco fuori dalle regole: c’è un pezzo del ’97 e poi uno stacco di quasi dieci anni.

Che cos’è il “treno per il sud” che dà il titolo a un altro dei brani?
È un ritorno a casa, un ritorno indietro. Non so bene perché, ma il sud mi ha sempre dato l’idea di casa più del nord, forse perché il nord viene di solito associato a temperature fredde. Il viaggio per il sud mi dà anche l’idea di una discesa in profondità, un viaggio interiore.
Che valore ha il viaggio nella tua vita?
Il vero viaggio è nelle persone. Forse è un pensiero che altri hanno già espresso, ma sono pronto a confermarlo. Negli anni ho incontrato persone bellissime, spesso in maniera fortuita. Ti racconto un aneddoto: tempo fa ho trovato un sito web in cui si poteva ordinare un libro per bambini personalizzandolo in base al nome. Mia figlia si chiama Claudia, e per ogni lettera del suo nome gli autori hanno costruito la storia di una bambina che va alla ricerca di creature misteriose. Come dedica, hanno scritto: “Cara Claudia questo è un viaggio tra le meravigliose creature che incontrerai nella vita. Queste sono soltanto le prime”. Ecco, questa è una bellissima definizione di viaggio, un’esperienza tra le persone prima che tra i luoghi. Ovviamente, non trascuro nemmeno il viaggio vero, quello geografico, perché mio padre non ha avuto la possibilità di girare molto e io lo sto facendo anche per lui. Mi capita di sognare alcuni luoghi in cui non sono ancora stato, come l’Islanda o il Sud Africa.
La sensazione che si prova ascoltando questo disco è quella di un uomo in pace con se stesso. Cosa ti dà pace?
È difficile dire cosa mi dà davvero pace, dovrei pensarci un po’, però posso dirti cosa mi fa stare bene: riconoscermi negli altri, nella musica, nei film, nei libri. Hai presente quando hai la sensazione che qualcosa sia stato detto o cantato apposta per te? Quando ascolti una canzone e ti sembra che sia stata fatta solo pensando a te? Ecco, ho imparato che se a me quel momento procura un’emozione mentre non trasmette nulla a un’altra persona è perché in quel momento ci sono anch’io, sono parte anch’io di quell’emozione. E poi mi fa stare bene vedere il mondo: vorrei far imparare alle mie bambine a non aver paura, soprattutto in un momento delicato come quello che stiamo vivendo, con gli attentati all’ordine del giorno. Tutto è incontrollabile, crudele, ma il mondo è così bello che vale la pena rischiare. Pensiamo di avere sempre tempo per recuperare qualcosa che non abbiamo ancora fatto, ma non è così.
Secondo te il mondo di oggi lascia spazio alla gentilezza?
Se fosse una canzone, la gentilezza sarebbe sicuramente fuori dai primi duecento posti di iTunes. Però proprio perché è rara, quando la incontri brilla e la riconosci, ti migliora la giornata. Non è un fatto di educazione, ma è una scelta, un modo per entrare in empatia con gli altri senza giudicarli subito.
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Sulla copertina dell’album ti si vede da solo in un deserto e in Irene canti “sarà la solitudine a riportarci tutti a casa”. Che rapporto hai con la solitudine?
Nella lingua italiana la parola solitudine rimanda a qualcosa di negativo, di cupo, fa pensare a una persona ripiegata su se stessa. Io vorrei coniare un termine nuovo e preferisco parlare di “solitaritudine”, che invece è una figata! Sono un Capricorno, e ogni tanto ho bisogno dei miei momenti solitari, in cui sembra che non stia facendo niente. Un po’ come chi si isola per fumare è impegnato e si sta prendendo un piccolo spazio per sé. Io le mie sigarette invisibili me le fumo scrivendo o leggendo, o quando vado nel mio studio a lavorare, quasi come un artigiano. Sono da solo con le cose che amo: non sto lavorando, sto “privilegiando”, per usare il verbo in un significato nuovo. Questa è la “solitaritudine”. Ci riporta tutti a casa perché ci fa incontrare con noi stessi ed è l’unica occasione in cui possiamo fermarci a pensare a cosa abbiamo sbagliato e come avremmo potuto fare meglio.
Definisci Totem “una fotografia in HD di te stesso”: quindi i dischi precedenti non erano a fuoco?
Ho sempre messo tantissimo di me in tutto quello che ho fatto, ma non sempre il risultato era a fuoco, perché non sempre sono riuscito a tirar fuori il meglio. Non penso dipendesse da me o dalle scelte musicali che ho fatto, ma semplicemente dovevo capire qual era il mio modo migliore di esprimermi. Come dicevo prima, è stato Tiziano a farmi capire che per emozionare non dovevo per forza strafare o sfoderare tutte le ottave della mia ugola: il culto dell’acuto è tipicamente italiano, ma l’emozione arriva anche se canti a mezza voce. È una consapevolezza a cui sono arrivato dopo molto tempo.

Con Tiziano Ferro la collaborazione continuerà?
Non posso dire molto. Ho da poco rinnovato il mio contratto con lui per altri tre anni e stiamo lavorando a tanti bei progetti.
Di solito concludo le interviste chiedendo di darmi una definizione di ribellione, ma a questa domanda avevi già risposto in un’intervista precedente. Ti chiedo allora di scegliere una di queste parole e di spiegarmi che significato ha per te: ambizione, resistenza, silenzio, indipendenza, successo.
Vorrei darti la mia definizione di successo, che non ha niente a che vedere i numeri, i riconoscimenti o il consenso. Questa è una forma moderna di successo, ma per me il successo è la realizzazione di un’idea, piccola o grande. Il successo è la felicità che ti arriva da quel risultato. È il sogno di diventare padre, ritrovarti tra le mani tua figlia appena nata e pensare “questo è un incanto”. Poi prendere il telefono e trasformare quel momento in una canzone, Incanto, appunto. Il successo è la chiusura di un cerchio, e in questo senso nella mia vita non ho avuto sempre il successo che speravo: ho commesso errori, ho iniziato cose che non ho portato a termine, come l’Università, però credo che quando riesci a concludere la parabola del cerchio puoi anche trovare il consenso degli altri, ed è lì che la mia idea di successo si incontra con l’altra, quando non hai nessun tipo di smania. Ma prima di tutto, è qualcosa che devi fare per te, perché troverai sempre chi non sarà d’accordo o non saprà apprezzare. E se non sai parare il colpo è dura, la sensibilità è un’arma a triplo taglio.

BITS-CHAT: Un meticcio, Bologna e gli anni ’90. Quattro chiacchiere con… Senhit

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È nata e cresciuta a Bologna, ma le origini della sua famiglia portano lontano, fino all’Eritrea. E canta in inglese. Nessun dubbio quindi che Senhit possa guadagnarsi l’appellativo della “più internazionale delle cantanti italiane”.
Attiva sulle scene tra teatro e musica già da qualche anno, ha da poco pubblicato l’EP Hey Buddy, in cui ha raccolto i brani realizzati nel corso dell’ultimo anno e che vedono anche il contributo di Corrado Rustici e Brian Higgins, super produttore inglese che in passato ha messo mano a successi di Kylie Minogue e Pet Shop Boys, e che con la musica di Senhit ha riportato la memoria agli anni ’90, gloriosissimo periodo della dance.
E mentre il remix di Something On Your Mind si fa strada nei club inglesi, lei si divide tra live, video blog, partite di calcio e Buddy, un compagno molto speciale arrivato da Brindisi.

Cosa nasconde il titolo dell’EP?
Buddy è il nome del mio cagnolino, un meticcio che è con me ormai già da qualche anno. Arriva da Brindisi, e quando l’ho preso si chiamava già così. È diventato il mio vero compagno di avventura. Posso quasi dire che le mie relazioni si sono annullate per lui (ride, ndr). Buddy è però anche un termine usato nello slang americano. “Hey Buddy!” è un po’ come il nostro “Ciao caro! Come stai?”, un modo molto cordiale e caloroso di salutarsi quando ci si incontra. Le prime volte che camminavo per strada in America sentivo continuamente gente che si apostrofava in quel modo e pensavo che Buddy fosse un nome, solo che lo dicevano anche a me, e non capivo perché mi chiamassero così!

Nei suoni dei brani sembra di ritrovare molto degli anni ’90.
Verissimo. Ho voluto proprio riprendere quei suoni, con una freschezza nuova: oggi va fortissimo l’elettropop e i suoni di quegli anni si sono un po’ persi, invece quel periodo è stato importantissimo, pensiamo solo a cosa è stata Corona per l’Italia o a certi ritornelli che tornano in testa a distanza di vent’anni (accenna l’inizio di Saturday Night di Whigfield, ndr). Prima di arrivare a questo genere però ho fatto tante altre cose e ho provato suoni diversi, fino a quando non ho incontrato Brian Higgins, anche lui con una passione per gli anni ’90: è stato lui a creare queste atmosfere.
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Quasi sempre gli artisti bolognesi dichiarano di avere un rapporto molto forte con la tradizione musicale della loro città: è così anche per te?
Tutto per me è partito da Bologna e grazie a Bologna. Il mio primo album solista è stato prodotto da Gaetano Curreri ed è stato una sorta di omaggio che abbiamo voluto fare ai cantautori legati alla città, come Dalla e Morandi, riarrangiando alcune loro canzoni. Bologna ha una tradizione musicale fortissima, da cui nessuno dei suoi artisti può staccarsi completamente. Sarà il potere della mortadella?

Dell’Eritrea invece cosa porti con te?
Penso la passione. I miei genitori sono eritrei e in casa ho sempre respirato l’atmosfera di quel paese. Mia mamma cucina eritreo, quando si incazza parla eritreo e l’Eritrea è un posto in cui mi piace tornare. Mio padre ci è tornato da poco, aveva bisogno di staccarsi da ciò che aveva qui. Un po’ di Eritrea c’è anche in alcune sonorità dei miei brani del passato.

In un video su Youtube parli dell’ambiente discografico come di un mondo pieno di squali. Quali sono le difficoltà che hai incontrato fino a oggi?
Penso di essere arrivata nel periodo peggiore della discografia italiana. Tutto ruota intorno ai talent, le case discografiche prendono i ragazzi e li spremono finché possono dare qualcosa, poi li mollano a loro stessi senza dare una possibilità di crescita: ho fatto fatica a trovare qualcuno che volesse investire su di me nel tempo, provando cioè diverse strade fino a trovare quella più adatta. Mi viene in mente una come Zara Larrson, che è uscita da un talent show, ma ha poi avuto la possibilità di cambiare. Gli squali comunque ci sono nel mondo discografico, e in qualunque altro ambiente di lavoro.

Hai avuto la possibilità di suonare a Londra, Amsterdam, Berlino, Parigi: all’estero che atmosfera hai respirato?
Ho visto tanta curiosità. La gente va ai concerti e poi vuole conoscere l’artista, sapere chi è, da dove viene, si ferma a parlarti, e non importa se sei il ragazzino che suona la chitarra o Ed Sheeran. In alcuni casi ho notato un po’ di iniziale diffidenza, come a Parigi: la gente vedeva me, italiana ma di colore, che cantavo in inglese, ed è stata un po’ dura, ma in generale ho percepito una grande apertura. In Italia si preferisce non rischiare: siamo sempre un passo indietro agli altri, su tutto, come se prima volessimo vedere come va e poi casomai ci accodiamo.
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Oltre alla musica, tra i tuoi impegni recenti c’è stato anche il tour dei “Giochi del calcio di strada”.
Bellissima esperienza, anche perché sono un’ex calciatrice! Avevo una compagna che giocava a calcio, ma non riuscivo mai ad andare a vederla, allora mi sono messa a giocare anch’io e da lì mi è nata la passione. Questo tour è nato da un invito dei Calciatori brutti (la più grande community calcistica italiana, ndr): ogni weekend eravamo in una località diversa e ci dividevamo tra tornei, conferenze e live, e io mi sono divertita anche a fare la blogger raccontando le tappe del tour con dei video. Ovviamente, Buddy è sempre stato con me!

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Penso che la ribellione sia legata al rispetto che si deve esigere per se stessi. Se questo rispetto non arriva, bisogna ribellarsi per ottenerlo, sempre. Lo dico per esperienza, perché io stessa mi sono ribellata alla mia famiglia uscendo dalla porta da cui mio padre, in maniera piuttosto teatrale, mi aveva indicato di uscire se avessi voluto fare la cantante. Diceva che non sarei andata da nessuna parte, ma io il desiderio di fare musica lo sentivo fortissimo. Se usata in questo modo, per farsi rispettare, la ribellione funziona, e va usata in qualunque situazione per raggiungere uno scopo, coronare un sogno o chiedere diritti, come accade nei Pride. Ribellatevi, ostinatevi, credeteci sempre.

BITS-CHAT: Sotto un cielo di note azzurre. Quattro chiacchiere con… Enrico Giaretta

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Per lui è stato coniato il termine di cantaviatore, ovvero un artista che divide la sua musica con la passione per il cielo e gli aerei. Enrico Giaretta alterna infatti i tasti del pianoforte ai comandi dell’aereo, essendo anche a tutti gli effetti un comandante di Alitalia.
Lo scorso 21 maggio è stato tra i protagonisti di Piano City Milano, il grande evento dedicato alla musica pianistica, durante il quale ha tenuto un concerto in cui, accompagnato da un coro di bambini, ha presentato anche l’Inno degli Amici cucciolotti e Black Rhino, il primo brano per bambini appositamente composto da Paolo Conte per sensibilizzare i più piccoli all’amore per gli animali.

E mentre le sorti di Alitalia tengono tutti con il fiato sospeso, Giaretta continua a solcare i cieli del mondo e quelli immaginari delle note, facendo tesoro delle parole che un giorno proprio Paolo Conte gli ha riservato.
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La tua carriera si divide tra la passione per il pianoforte e quella per gli aerei, ma quale delle due è arrivata per prima nella tua vita?

Assolutamente la musica, credo sia arrivata quando ancora dovevo nascere. Mia mamma passava le giornate ascoltando Mozart, Verdi, Beethoven a volumi da stadio. Praticamente “condivideva” già allora con tutto il quartiere, e con me, nella sua pancia. All’età di 18 anni, ho scoperto gli aerei con il mio primo volo durante il servizio militare. Da allora ancora cammino guardando le nuvole. La mia testa è sempre li.

Quanto è difficile essere un “cantaviatore”, cioè dividersi tra due mondi così diversi?
Difficilissimo. I miei programmi di lavoro tra musica e volo sono schedulati al minuto. Non posso permettermi di perdere 10 minuti su un divano a guardare la televisione, ad esempio. La cosa che mi fa “soffrire” maggiormente è che circa 20 giorni al mese, dormo lontano dai miei figli e da mia moglie, nonché l’impossibilità di dedicare un pomeriggio per raggiungere il resto della famiglia divisa tra Latina e Civitavecchia. In particolare mia nonna, per la quale nutro una passione totale.

Quale dei due percorsi è stato più complicato da seguire? E quale invece ti ha riservato sorprese o soddisfazioni più grandi?
Per diventare un musicista ci vuole una vita. Una vita. Non si può intraprendere questo percorso in età adulta, per molti motivi sia cognitivi che muscolari e di apprendimento. Bisogna iniziare da giovanissimi, altrimenti si perde il treno e tutto va rimandato alla prossima vita. Per diventare pilota professionista, ci vuole una grandissima passione e tenacia, ma come nel mio caso si può iniziare anche a 40 anni. In 5 anni sono diventato pilota di linea e ho già volato 3 aerei completamente diversi. Dal P180 di K-air (compagnia di aerotaxi, ndr) al formativo ATR72 di Mistral Air, compagnia fondata da Bud Spencer, fino ad arrivare, con una selezione rigidissima, in Alitalia Cityliner su Embraer 190. Portare a spasso 50 tonnellate e oltre 100 passeggeri è un’emozione indescrivibile e una grande responsabilità. Ci vuole un grande rispetto per questo lavoro.

Mi piace molto il titolo del tuo ultimo lavoro, Scalatori di orizzonti: chi sono per te oggi, gli scalatori di orizzonti?
Così come dice il testo del brano che dà il titolo all’album, i veri scalatori di orizzonti sono i bambini, e per bambini si vuole intendere i bambini da zero a cento anni, così come recita lo slogan degli Amici Cucciolotti, la collezione di album e figurine per la salvaguardia degli animali. Loro, gli scalatori di orizzonti, sono stelle colorate che ci insegnano il cammino e anche il punto più lontano può sembrarti, più vicino. Grazie a Marcello Murru, che ha scritto questo brano insieme a me.

L’intero progetto, a cominciare dall’Inno degli Amici cucciolotti, è volto alla sensibilizzazione dei bambini all’amore per gli animali: cosa ti ha spinto ad abbracciare questa causa?
La grande amicizia con Dario Pizzardi, creatore di questa fantastica collezione, eticamente alta, didattica e fatta con estrema sincerità e purezza nei confronti dei giovani lettori e degli animali. Il grande amore per gli animali, spesso vittime indifese di noi umani, a volte distratti e poco sensibili al loro bisogno di attenzione. Gli animali, loro, ci amano a prescindere dalla nostra condizione economica, sociale, fisica e sono disposti a dare la loro vita per noi.
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Se ti dico “Paolo Conte”, cosa rispondi?
Un uomo e un musicista di altri tempi. Una classe senza eguali. Generoso ed umile. Un giorno, ascoltando un brano da me scritto, Paolo Il Ferroviere, mi ha donato una frase, “Finalmente ho trovato un allievo”. Credo si sia pentito di averla detta dopo qualche minuto, ma ormai era troppo tardi, lo avevo già detto a tutti! Sono onorato della sua amicizia.

Facciamo un piccolo gioco: pensa a cinque città in cui sei atterrato per lavoro, e che ti hanno lasciato un ricordo particolare, e prova ad associare ad ognuna un brano musicale, tuo o di altri artisti.
Aeroporto di Victoria Falls, Africa. Il brano La fabbrica delle nuvole, uno dei brani a cui sono maggiormente legato, avendolo composto in uno dei miei numerosi viaggi in Africa, non da pilota ma da musicista. Mi ricorda Piero Wonger, un mio caro amico che mi ha fatto conoscere e girare il mondo facendo concerti ovunque.
Aeroporto di Noi Bai, Hanoi. In quel viaggio scrissi Roma Saigon. Toccai con mano la grande sofferenza di una guerra assurda, come del resto tutte le guerre lo sono.
Aeroporto di Milano Linate, una città meritocratica, che mi ha dato artisticamente molto. Il brano, “Quando Quando” di Pino Daniele, lo suonai con lui e Califano, in un concerto dove ci aveva invitato. Da allora lego a Milano quel brano e quel ricordo fantastico.
Aeroporto di Roma Fiumicino, il brano Roma nun fa la stupida stasera. Ogni volta che atterro a Fiumicino, vedo il ritorno a casa da mia moglie Carmela alla quale una volta ho dedicato questa fantastica canzone di Armando Trovajoli. Atterrando a Fiumicino inoltre passo sopra Civitavecchia. Li è sepolta mia mamma. Ci penso ogni volta che atterro.
Infine, aeroporto di Havana, Cuba. Li sono stato varie volte. Ho scritto un brano, in casa di Chucho Valdes, grazie a Edoardo Piloto, altro grande musicista. Si intitola semplicemente Havana. Devo dire che ho sempre avuto una grande fantasia per i titoli…

Allontanandoci un po’ dalla musica, che aria si respira in questo periodo nei corridoi di Alitalia?
Un’aria triste, qui c’è gente che ha dedicato una vita all’Alitalia. Un’aria di grande professionalità. Tutti nonostante il momento difficile passano giornate sui libri per aggiornamenti di rito che riguardano il personale di terra e di volo. Un’aria di passione e di speranza per tutte quelle persone che senza questo lavoro sarebbero perse. Comunque anche un’aria di speranza e di forza. Un’aria tersa, dove molte cose sono divenute più chiare, meno piacevoli, ma alla luce del sole è più facile orientarsi e guardarsi negli occhi. Capirsi, per ripartire insieme sotto un’altra luce.

Quali sono le emozioni a pochi giorni dal concerto in occasione di Piano City Milano?
Vivo la musica come una cosa naturale, nonostante ciò affronto ogni concerto con lo stesso terrore. Poi dopo i primi applausi mi rilasso, e do il meglio di me. Non mi risparmio mai, consegno tutto me stesso nelle mani di chi mi ascolta, consapevole che il mio pubblico sa manipolare i miei colori, con grande cautela e attenzione. Loro non seguono mode ne cliché. Io non li tradirò e loro non mi tradiranno. Un patto fatto di note azzurre.

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Il concetto di ribellione ha infinite chiavi di lettura. Ho sempre letto la ribellione in chiave di ” tenore”, da qualche anno l’ho trasposto in chiave di ” Do”. Apparentemente con un approccio più istintivo ma pieno di insidie e di colpi di scena. Sarà forse per i tagli addizionali che certe note richiedono… Scusate la metafora musicale.

BITS-CHAT: Alla velocità della luce. Quattro chiacchiere con… Beata Beatz

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Forse il suo nome non vi dice ancora molto, ma se siete assidui frequentatori del dancefloor potrebbe esservi capitato di ballare su una delle sue canzoni. Come testimoniano infatti anche i video presenti su YouTube, è già qualche anno che Beata Beatz ha iniziato a fare musica, dedicandosi in particolare modo alla dance.
Nata a Mannheim, in Germania, la ragazza si prepara ora a sbarcare nel nostro paese, e lo fa dalla porta principale duettando – nientepopodimenoche – con Guè Pequeno nel singolo Speed Of Light, dove lei canta in inglese e lui dà il suo contributo con una strofa in italiano di tutto rispetto. Così come nelle atmosfere estive di Stay With Me, insieme ai fratelli napoletani I desideri.
Due incontri di lingue e stili diversi, tra pop elettronico, rap e dance, prendendo spunto dai piani alti delle classifiche.
Come hai conosciuto Guè Pequeno?
Era da un po’ che volevo collaborare con un rapper, perché mi piace l’hip-hop. Tempo fa ero in Italia per alcune serate e ho lanciato l’idea alla mia manager di un duetto con un rapper italiano. Qualche tempo dopo, mentre ero a Stoccolma per registrare un nuovo brano, la manager mi ha detto che dovevo subito partire per Londra per incontrare Guè Pequeno. Ci siamo parlati e lui è stato subito disponibile a collaborare. Dopo qualche settimana ero a Napoli a registrare Speed Of Light con Massimo D’Ambra.
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Cosa ascolti in genere?
Ascolto tutto quello che va in radio. Mi piace molto Rihanna, Zara Larrson, un’artista giovane che ha saputo evolversi, The Chainsmokers. Tengo sempre d’occhio la top ten internazionale, il meglio di quello che c’è in giro.
Cosa conosci invece della musica italiana?
Eros Ramazzotti, Marco Mengoni, conosco da molto tempo anche la musica di Vasco Rossi, e mi piace molto il suo rock, la sua voce. È poi conosco Luchè: sono stata anche nel video di Bello!
Quando hai capito che ti sarebbe piaciuto fare musica?
Sono cresciuta con la musica, perché i miei genitori sono stati dei cantanti. Quando ero piccola, mio padre, che oggi è morto, non mi regalava dei giocattoli, ma mi faceva suonare e a cinque anni ho iniziato a suonare il piano. Mia mamma invece fa parte di un coro: sono sempre in giro in Germania per le chiese.
Non hai ancora pensato di cantare in italiano?
Io voglio cantare in italiano! Ho imparato a parlarlo, ma cantare è un’altra cosa. Devo mettermi lì con il testo e studiare.
Hai un album in arrivo?
Sì, sono molto entusiasta. Sarà pop, ma con tante contaminazioni, avrà un suono moderno. Mi trovo molto bene con le persone con cui sto lavorando, ho la possibilità di sperimentare. Voglio prendere spunti dall’R&B, dall’hip-hop, dalla dance. Un po’ come abbiamo fatto per Speed Of Light, in cui c’è un po’ di trap e di urban, perché se fosse stato un brano di pura dance non ci sarebbe potuto essere il rap. Lavorando tra Germania, Svezia e Italia sento stimoli diversi, e mi piacerebbe che nel disco fossero tutti presenti.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
(la sua espressione cambia all’improvviso, si fa seria e mi guarda dritto negli occhi, ndr) So cosa voglio e so cosa non voglio. Voglio avere una possibilità, e unire la passione e la libertà.

BITS-CHAT: Un Capodanno speciale. Quattro chiacchiere con… i Landlord

unnamed (1)Il calendario segna i primi giorni di primavera, e i Landlord festeggiano Capodanno.
Ma state tranquilli, loro non sono impazziti e voi non avete perso il conto dei giorni. Semplicemente, New a Year’s Eve è il titolo del loro ultimo singolo, uscito da poco a conclusione di un anno di musica a dir poco intenso iniziato con la fortunata Get By.
Chiusa l’esperienza di X Factor nel 2015, i ragazzi di Rimini si sono infatti messi al lavoro sui loro brani, che hanno visto la luce nel 2016 in Aside e Beside, due EP pubblicati a pochi mesi di distanza, e poi riuniti nel vinile Be A Side, in cui hanno fatto vedere tutte le facce del loro pop elettronico sporcato di influenze ambient e persino sinfoniche.
Nel frattempo, l’attività live si è fatta sempre più rovente e l’agenda della band si è infittita di impegni, non solo in Italia, dal momento che per loro si sono aperte anche le porte del colossale Sziget Festival di Budapest.
E mentre un nuovo tour estivo si profila all’orizzonte, noi abbiamo fatto quattro chiacchiere con loro per annodare i fili di questi ultimi mesi.
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New Year’s Eve
sembra il perfetto punto di incontro tra un capitolo che si chiude è una nuovo inizio. Che bilancio potete fare dell’ultimo anno? Soddisfazioni, delusioni, sorprese…

Proprio così, il brano rappresenta esattamente questo, e ha per noi un valore particolare. Sicuramente è stato un anno molto positivo, ricco di soddisfazioni, di tante novità e di molta attività. Abbiamo avuto tante sorprese, fatto tante date live, anche all’estero, abbiamo aperto i concerti di gruppi importanti e che consideravamo irraggiungibili e vissuto esperienze davvero importanti.
Pensate che la scelta di pubblicare un doppio EP anziché un intero album vi abbia giovato? Potrebbe sia una buona strategia per far arrivare meglio la musica al pubblico?
Non lo sappiamo questo, ci siamo interrogati a lungo riguardo la pubblicazione, ma poi abbiamo deciso di procedere con i due diversi EP, per mostrare al pubblico una sorta di evoluzione che noi stessi avevamo vissuto. Tutti i brani sono stati scritti nello stesso periodo, però alcuni procedevano in una direzione più elettronica e sperimentale rispetto ad altri e così abbiamo voluto fissare questo cambiamento.
Il vostro tour vi ha portato a lungo in giro per l’Italia e anche all’estero: c’è stata una platea che vi ha particolarmente stupito o un concerto che vi ha lasciato un ricordo più forte?
Due concerti sono stati incredibili: il nostro primo concerto al Velvet di Rimini e la data al Magnolia, in apertura a Edward Sharpe e ai Daughter. Un’atmosfera unica. Abbiamo trovato un pubblico molto entusiasta, molto partecipe e caloroso e per di più a fine serata abbiamo scambiato quattro chiacchiere con i Daughter. Un momento magico, qualcosa di indelebile.
Le vostre principali influenze musicali da dove arrivano?
Ascoltiamo veramente di tutto, ognuno ha i propri ascolti e poi alla fine mettiamo tutto insieme, cerchiamo di delineare una nostra strada senza essere troppo schiavi delle influenze. Siamo comunque dei grandi fan di Justin Vernon, e del suo progetto bon iver.
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A distanza di un po’ di tempo, pensate che la partecipazione a X Factor vi abbia insegnato qualcosa?
L’esperienza di X Factor ci ha insegnato tanto. Ci ha formato parecchio; ha rappresentato una sorta di corso accelerato sotto tutti i punti di vista. Ci è servito molto perché abbiamo assunto un atteggiamento di curiosità, di osservazione. Abbiamo cercato di rubare un po’ degli insegnamenti che abbiamo ricevuto ed è per questo che definiamo sempre il programma come una grande scuola, una palestra.
Perché pensate che i talent siano ancora visti spesso come una macchina di illusioni?
Il meccanismo dei talent certamente non è semplice. Un programma televisivo fa sempre molta gola, attira su di se molta curiosità, però noi abbiamo cercato di rimanere sempre con i piedi ben saldati a terra. Siamo profondamente convinti della necessità di fare esperienza, di calcare palchi, e questo ci ha permesso di rimanere molto lucidi durante la trasmissione. Avevamo le idee molto chiare riguardo la nostra strada e quindi siamo andati in quella direzione, ascoltando certamente consigli e aiuti di chi ne sa più di noi, però sempre puntando a quello che ci piace davvero.
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Guardando al futuro, avere già qualche idea di nuove strade musicali da seguire?
Stiamo vivendo un periodo di sperimentazioni, stiamo lavorando di continuo e non sappiamo ancora bene neanche noi cosa succederà, però ce la stiamo mettendo tutta!

Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato date al concetto di ribellione?
Associamo il concetto di ribellione all’essere autentici. Tutta la nostra musica si fonda sulla sincerità, sull’autenticità e sulle emozioni che ci guidano continuamene nella scrittura. Per questo siamo molto legati al concetto di essere veri, se stessi, e a volte questo atteggiamento può rappresentare una vera e propria ribellione.

BITS-CHAT: "Interpreto Maria nel Poema della Croce di Alda Merini e Giovanni Nuti". Quattro chiacchiere con… Daniela Poggi

Daniela Poggi è un’artista che non si risparmia. Teatro, cinema, televisione, e poi passione per lo sport e tanto impegno civile, la sua è una vita ricca, piena di interessi che uniscono la donna e l’attrice. Da diversi anni, a guidarla c’è anche una fede salda, un rapporto con Dio iniziato come una promessa e divenuto con il tempo un bisogno interiore.

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ph. Marta Lispi

Il prossimo 6 aprile, nella speciale cornice della Basilica di San Lorenzo alle Colonne di Milano (ore 21, ingresso libero fino a esaurimento posti), l’artista ricoprirà il ruolo di Maria in Il poema della Croce. Lo spettacolo è basato sull’omonima opera di Alda Merini pubblicata per la prima volta nel 2004, i cui testi trovano naturale completamento nelle musiche di Giovanni Nuti, che per molti anni ha lavorato a strettissimo contatto con la poetessa.
Un lavoro che racconta il momento più tragico della vita di Cristo sulla Terra in dialogo con la madre: un messaggio di impatto emotivo manifestato attraverso i versi di una delle più rivoluzionarie poetesse del nostro tempo, reso ancora più efficace dalla forza della musica.
Ad accompagnare lo spettacolo sarà un’orchestra di 7 elementi, mentre accanto a Daniela Poggi ci sarà Giovanni Nuti nel ruolo del Figlio.17457663_10210582749063299_2038271475840774012_n
Come le è arrivata la proposta di prendere parte al Poema della Croce?
È stato Giovanni Nuti a contattarmi, attraverso una cara amica. Voleva riportare in scena lo spettacolo e ha fatto il mio nome per la parte di Maria e sono stata molto lusingata. Mi ha fatto ancora più piacere perché stavo già lavorando a Vengo a te Maria, uno spettacolo di musica e poesie incentrato proprio sulla figura della Vergine, in cui portavo in scena anche alcuni testi di Alda Merini. Ricoprire nuovamente quel ruolo mi ha reso quindi molto felice.
Ha avuto modo di conoscere personalmente Alda Merini?
Purtroppo no, è una conoscenza solo letteraria. La conoscevo da tempo, ma ho avuto modo di indagarla ancora più a fondo in occasione di un altro spettacolo di alcuni anni fa, Le ultime sette parole di Cristo in croce, in cui ho raccolto poesie di vari autori, tra cui le sue. È una donna che mi sempre affascinata e impaurita, mi ha regalato emozioni infinite nella sua femminilità e nella sua solitudine. Era molto vicina a noi donne.
Perché l’ha impaurita?
Ha avuto una storia molto forte, nella vita e nell’anima, ha vissuto tutto in maniera molto viscerale. Immaginare come ha sofferto, come si è trovata sola, come ha cercato di gridare aiuto, mi mette paura. Ha sempre avuto il coraggio di dire la verità, anche sulla concezione che aveva della fede e di Dio. È una poetessa che ha il potere di metterti in discussione, fa cadere le certezze che pensavi di aver costruito. Forse se i suoi pensieri fossero stati di un uomo li avrei interpretati in maniera differente, ma essendo donna li sento molto più vicini a me.
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Che rapporto ha con la poesia?
Da bambina non amavo imparare le poesie a memoria, nessuno mi ha mai insegnato a capirle nel modo giusto, per cui ho sempre avuto un rapporto piuttosto altalenante. Però mi affascinano, perché dietro ai testi c’è il vissuto del poeta. Emily Dickinson, forse anche per le sue vicende personali, mi ha sempre ispirato molto, insieme a Neruda. Spesso invece mi capita di leggere testi che non mi trasmettono nulla, come se bastasse mettere delle frasi in versi per definirsi poeti. La poesia, quella vera, è un viaggio dentro l’anima, fa vibrare corde speciali.
Con la fede invece come si pone?
Sono stata educata in una famiglia cattolica, ma quando ero più giovane non ero molto praticante, pur avendo sempre avuto un amore molto forte verso Dio. Poi nel ’91 mi padre si è ammalato di tumore, e ho chiesto a Dio un miracolo. Speravo che potesse guarire, ma quando ho capito che era impossibile ho chiesto almeno che non soffrisse, promettendo che avrei iniziato ad andare a messa ogni domenica. Forse è una promessa po’ infantile, ma da allora l’ho mantenuta e con il tempo si è trasformata in una necessità interiore di ritrovarmi con la comunità, ricevere Dio e ascoltare la sua parola. Durante la settimana mi riempio di paure e domande che ogni volta si risolvono ascoltando il Vangelo e l’omelia. Viviamo una vita pesante, caotica, che ci appesantisce, e per me la messa domenicale è diventata il momento per ripartire più forte.
Al di fuori del lavoro lei è una persona piena di interessi, dallo sport all’impegno sociale, alla difesa degli animali, e si nota una grande voglia di raccontarsi, è d’accordo?
Lei dice? Non ci avevo mai pensato, ma se questa è la percezione che do mi fa molto piacere. Mi ritengo una privilegiata a fare questo lavoro, un mestiere che amo e che richiede anche una certa onestà intellettuale e un grande rispetto per il pubblico. Mi piace raccontare quella che sono, senza oltrepassare i limiti del privato ovviamente, per cui se mi impegno con l’Unicef in favore dei bambini in Africa o contro il lavoro minorile o se mi spendo per i diritti degli animali e contro la vivisezione, la strage delle balene in Norvegia e l’uso degli animali nel circo è giusto che gli altri lo sappiano. Non lo faccio per me, ma per una giusta causa, e se il mio nome può fare qualcosa io non posso che esserne fiera. È una missione che cerco di portare avanti aderendo alle campagne di sensibilizzazione e ogni giorno nelle piccole azioni, anche semplicemente parlandone.
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Tra il 2013 e il 2015 è stata anche Assessore alla Cultura, alle Politiche giovanili, Pari opportunità e Diritti degli animali del Comune di Fiumicino. Che bilancio può fare di questa esperienza?
Sono stati due anni e mezzo molto impegnativi e faticosi, ma anche molto gratificanti, in cui ho conosciuto persone meravigliose, con grande voglia di fare. Ho visto dall’interno come ci si dovrebbe muovere in politica e ho capito che non è il mio modo di fare: dovrebbe cambiare la mentalità, si dovrebbe pensare solo al bene degli altri, la cultura dovrebbe essere considerata una strumento di crescita, invece si sono perse l’etica e la lungimiranza. Non credo che lo rifarei, preferisco fare politica nel privato, dando il buon esempio da cittadina.
C’è un obiettivo lavorativo che le piacerebbe raggiungere?
Il musical. Mi piacerebbe cimentarmi nel canto e nel ballo, tenendo conto naturalmente che non sono cantante e ballerina, e poter mostrare un’immagine diversa, ironica, buffa. Spesso gli altri vedono in me una donna molto sicura, mentre in realtà ho molte fragilità e insicurezze.
La conduzione televisiva non le manca?
Sì, devo dire che mi avrebbe fatto piacere avere qualche occasione in più, anche per programmi meno impegnativi di Chi l’ha visto?, che è stata comunque un’esperienza meravigliosa. Tornando a quello che dicevamo prima, a me piace parlare con la gente, cerco il confronto, e la conduzione ne offre la possibilità perché ci sono gli ospiti, si può immaginare il pubblico dietro la telecamera, si possono esprimere pensieri. Oggi mi rendo conto che la televisione è molto cambiata, ma, come si dice, Never say never!
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dà al concetto di ribellione?
La ribellione è cercare di portare avanti se stessi al di là delle imposizioni dall’esterno. Ci si ribella al sistema: io sono, io penso, io dico, ribellarsi è dichiarare di essere se stessi. Mi ribello a quello che non trovo giusto, per me e per gli altri, nell’ottica del rispetto sociale, mi ribello alla vendita delle armi e allo sfruttamento minorile, e di conseguenza la mia vita sarà vissuta in accordo con queste idee.

BITS-CHAT: Riempire i vuoti. Quattro chiacchiere con… Chiara Civello

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Di solito, circa a metà della primavera, arrivano delle giornate indefinite, in cui il cielo alterna continuamente i suoi colori. Nuvole di piombo lasciano posto al sole, che a sua volta si nasconde dietro a gocce di pioggia. Sono giornate imprevedibili, eppure non riescono a metterci di cattivo umore, anzi, scorrono leggere e l’odore della pioggia le fa diventare ancora più interessanti.
Eclipse, ultimo lavoro di Chiara Civello, è una di queste giornate: prodotto da un gigante come Marc Collin, ossia l’anima di Nouvelle Vague, è indefinito e leggerissimo, sul confine tra ombra e colori, tra jazz e cantautorato, pop, bossanova, tra organi elettronici e canti di uccellini.
Un album che alterna pezzi inediti – tra le firme, Francesco Bianconi, Cristina Donà, Diego Mancino, Dimartino, Diana Tejera – a cover celebri e rarità pescate tra le colonne sonore, come Eclisse Twist di Michelangelo Antonioni, Amore amore amore scritta da Alberto Sordi e Quello che conta firmata da Ennio Morricone e Luciano Salce. Un affettuoso tributo pagato al nostro cinema per dare al disco una forte impronta visuale.
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A proposito di componente visuale, partiamo dalla copertina.
È opera di Matteo Basilè, un artista che oggi espone anche al PAC. Ama la sintesi di universi differenti, perché lavora con la fotografia e la grafica, e in questo è molto vicino allo spirito del disco, in cui si incontrano dimensioni diverse. È quello che accade nell’eclissi, un incontro di chiaro e scuro. L’aspetto visuale lo si ritrova poi nei riferimento al cinema, soprattutto quello italiano, che mi ha ispirato molto. Nelle colonne sonore ho visto il culmine di quella sintesi tra musica e immagini: la bossanova, il jazz, la musica classica accolti e poi stravolti al servizio dello sguardo.
Incontri con universi differenti sono anche quelli con gli autori dei brani?
Francesco Bianconi ama molto le colonne sonore, Diego Mancino è invece più legato alla canzone tradizionale, Dimartino incarna la poesia naïf del cantautorato. Attraverso i tanti autori dei nuovi brani ho voluto celebrare la solarità e l’oscurità, accogliendo tutto e rimestandolo a seconda delle esigenze.
Certo, alcune firme presenti sono lontanissime dal jazz, a cominciare proprio da Bianconi.
Gli incontri possono anche non funzionare e trasformarsi in scontri e le aspettative possono andare deluse. Per questo disco ho avuto la fortuna di fare degli incontri particolarmente fertili. Con Bianconi il tramite sono state le colonne sonore, l’amore che entrambi abbiamo per Morricone. A lui avevo manifestato il desiderio di fare qualcosa di molto rarefatto, pieno di pause, di silenzi, e credo che si sia fatto ispirare proprio dal cinema.
chiara-civello-b-photo-artist-proofSempre legati al cinema sono inoltre alcuni brani tratti da colonne sonore italiane che voluto riprendere e reinterpretare. Perché hai scelto proprio quelli?
Avevo un ventaglio di possibilità, poi piano piano il disco ha iniziato a prendere forma e sono apparsi gli organi anni ’70, gli strumenti elettronici, e tra tutte le canzoni che potevo interpretare ho scelto quelle più legate al cinema, quasi per chiudere il cerchio e dare la forma definitiva al progetto. Volendo, si può considerare Eclipse una sorta di Canzoni volume 2: lì c’erano canzoni del passato, qui c’è materiale originale e alcune chicche un po’ sconosciute. E poi Parole parole, un ponte perfetto tra Italia e Francia.
È corretto dire che questo album è un invito ad amare i nostri vuoti?
Assolutamente. I vuoti sono le intermittenze del cuore e sono del tutto naturali, ma è difficile accettarli. Nel libretto ho voluto inserire una poesia di Emily Dickinson in cui si dice che un vuoto può essere colmato solo da ciò che lo ha creato. Solo toccando i perimetri dei vuoti si possono superare le mancanze.
Alla produzione dell’album c’è un gigante come Marc Collin. Come è arrivato a lavorare all’album?
Ho conosciuto Marc a Parigi nel 2015, quando aprivo il concerto di Gilberto Gil e Caetano Veloso, ma in realtà lo avevo quasi già scelto. Avevo alcune canzoni e gliele ho fatte ascoltare: lui mi ha detto quale direzione avrebbe preso con quel materiale, e io l’ho seguito.
Due luoghi molto presenti all’interno del disco sono Parigi e il Brasile. Cosa rappresentano per te?
Parigi è stata la novità, lo charme, una cultura a cui non mi ero quasi mai avvicinata se non per qualche brano che ho cantato o per Michelle Legrand, Leo Ferrè o per il vino. Ogni disco deve essere per me una prima volta, e Parigi è stato proprio questo. Il Brasile è invece giovialità, fortissima passionalità musicale, una fertilità immensa.
Come pensi sia percepito il jazz in Italia?
In maniera forse un po’ provinciale. Mi sta stretta l’idea del jazz italiano, non la capisco. Il jazz è jazz, non ha senso parlare di jazz armeno, egiziano o francese. Duke Ellington diceva che esistono solo due tipi di musica: quella bella e quella brutta. Paesi come gli Stati Uniti, la Francia o la Germania sono molto più avvezzi di noi al jazz. In Italia si devono mettere etichette, il jazz soffre di questa situazione e resta confinato nella nicchia.
Tu quando hai capito che nella vita volevi fare jazz?
Io sapevo solo che ero intonata e volevo cantare. Vicino a casa mia c’era una scuola di jazz, mi sono iscritta e mi sono appassionata al repertorio. Poi sono andata oltre, avvicinandomi all’ambito autoriale.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Ribellione è contrastare un’aspettativa, liberarsi dal prevedibile. Un atto che non deve essere per forza violento o traumatico, può anche essere silenzioso.

BITS-CHAT: La donna delle stelle. Quattro chiacchiere con… Ylenia Lucisano

Spesso non ci pensiamo, ma quando guardiamo le stelle stiamo in realtà guardando qualcosa che non c’è più, o che comunque appartiene al passato, perché quella luce prima di essere visibile a noi ha percorso una strada lunga diversi anni, talvolta migliaia.
Per il suo ultimo singolo, Ylenia Lucisano ha utilizzato questa immagine e in forma di metafora l’ha applicata per descrivere quello splendore che vediamo negli altri, ma che spesso non è altro che il riflesso – o meglio il Riverbero – di qualcosa che c’era.
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Perché l’uso dell’immagine del cielo stellato per descrivere questa situazione?
Parte tutto dalla mia passione per il cielo notturno. Non sono un’esperta di astri, ma le stelle mi fanno ripensare al cielo della mia terra, la Calabria, perché a Milano è difficile poterle vederle bene, l’ho detto anche in altri brani. È una luce che continuiamo a vedere anche dopo che queste stelle sono morte.
Quindi è qualcosa legato in generale ai ricordi o solo alle storie d’amore?
Nel brano il riferimento è a una storia d’amore che finisce, ma è una situazione che si può presentare nella vita di tutti i giorni, legato anche ai semplici ricordi delle persone che abbiamo intorno e di cui conserviamo memorie passate, che si sono spente con il tempo, ma a cui ci siamo legati.
Tu che rapporto hai con i ricordi?
Mi lascio molto condizionare, non riesco a restare indifferente e a slegarmi con facilità da quello che è stato. Il passato è un elemento presente in tante delle mie canzoni.
Mi piace l’uso dell’immagine che hai usato per il video del brano. Tra l’altro, alla regia c’è un nome speciale.
Hyst, cioè Taiyo Yamanouchi. L’ho conosciuto tramite alcuni amici rapper, perché anche lui è un rapper, oltre che regista. Mi erano piaciuti alcuni suoi lavori e l’ho contattato alcuni mesi fa, quando dovevo presentare il brano per Area Sanremo (Riverbero è stata poi selezionata tra gli otto finalisti, ndr). Avevamo solo sei giorni giorni di tempo, lui si è fatto in quattro e siamo riusciti a realizzare una prima versione, poi con più tempo abbiamo aggiunto delle scene fino ad arrivare al risultato definitivo. Dello styling si è invece occupata Corinne Piervitali, la compagna di Hyst. Non è la prima volta che lavoro con artisti orientali, e vedo certe affinità tra loro e noi calabresi, non so, forse per la mentalità.
Hai già collaborato, tra gli altri, con Zibba e Pacifico, e recentemente hai duettato con il rapper milanese Peligro: sogni qualche altra collaborazione in particolare?
Con Francesco De Gregori. Sogno un suo brano scritto apposta per me, anche se so che è un’utopia perché lui difficilmente scrive per altri. Ho avuto l’occasione di aprire alcuni suoi concerti in passato e lo considero già un bel regalo.
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Per il nuovo album hai deciso qualcosa?
Sono già passati tre anni dal primo, per cui i cambiamenti sono tanti, ho fatto esperienza, ho un approccio mentale diverso. Sto lavorando con nuovi musicisti e un nuovo produttore. Voglio mantenermi sulla scia del folk, ma con suoni nuovi, internazionali.
L’idea di partecipare a un talent non ti ha mai sfiorata?
Ho fatto alcuni provini in passato, perché le strade vanno tentate tutte, ma mi sono resa conto che non era la mia strada. Stavo già iniziando a lavorare al disco e ho preferito crearmi una mia identità piuttosto che farmene appiccicare una da altri ed essere etichettata come una uscita da un talent.
Per concludere, una domanda di rito per BitsRebel: che significato dai al concetto di ribellione?
Ribellione è libertà, senza ricorrere alla violenza e a mezzi eccessivi. Parte tutto dentro di noi, cambiando noi stessi cambiamo anche quello che abbiamo attorno. La ribellione è pacifica.